Di tutte le cose che poteva mettersi a fare, il matto del paese aveva alla
fine scelto di fare il campanaro. Si era pure convinto fosse una roba
originale. Non lo sapeva, perché era matto, ma nei paesi uno come lui poteva
fare solo il campanaro. O girare per le campagne a verniciare le vacche di
verde, cercare di svuotare i fiumi con un paio di forbici, raccogliere tutti i
fiori dalle lapidi del cimitero e farne mazzolini da lanciare dai balconi. Le
cose che fanno i matti.
Un giorno aveva però avuto l’illuminazione, e da matto che era si era
invece svegliato suonatore di campane.
C’era una chiesa sola, con un campanile molto poco alto. Però abbastanza da
vedere i tetti anziché le facciate, e i cappelli di paglia dei contadini
anziché le mani laboriose. Il matto non lo sapeva, perché era matto, ma quello
sarebbe stato un bel cambio di prospettiva per chiunque. Chiunque tranne lui,
che i punti di vista e le prospettive ce li aveva già un bel po’ falsati.
Starsene lassù a sbatacchiare ad ogni ora le due campane di bronzo, più grosse
della stanza piccola della casa in cui abitava con sua madre, era solo un bel
mestiere. Non un cambio di prospettiva. Una specie di missione, questo sì, ma
niente di più. I cambi di prospettiva sono per le persone complicate. Lui era
una persona semplice, con un bel lavoro da fare. Se ne vantava e ne era felice.
Perché dava il tempo al paese, al prete, al sindaco e alle campagne. Ai dodici
suoi rintocchi del mezzogiorno, la gente nei campi si fermava e volgendosi
verso il campanile si segnava con solenni segni di croce. Il matto pensava
fosse merito suo. Si compiaceva di poter essere amplificazione della voce di
Dio. Perché era matto.
Potete immaginare come cresceva, per quanto quella dei matti possa dirsi
crescita. Dopo una decina d’anni di lavoro nel campanile lercio di guano non
aveva altro che le mani callose sulla corda di canapa, con il nodo alla fine
per non farla scivolare. E soprattutto, le sue campane. Lo avevano reso sordo,
ma poco importava. Un matto ha poche cose che vuole davvero ascoltare. Quello
che non sente se lo immagina. Quindi a lui bastava poterle suonare ancora, le
due campane che aveva fatto sue. I matti hanno un sacco di fantasia, per questo
ora le due sorelle di bronzo avevano un nome per ciascuna. Però il matto non
l’ha mai detto ad alta voce a nessuno. Le chiamava urlando solo quando adunava
la popolazione per la Messa grande delle dieci e trenta, sovrastato dal loro cantare
metallico. Non sapeva cosa significasse sovrastare, perché era matto, ma sapeva
che così sarebbe stato come fare l’amore con le sue campane, ma senza che
nessuno li sentisse o li vedesse. Tanto le amava. Nessuno sa come si chiamino.
Non c’è matto che non provi un gran dolore. Ed ecco, una sera d’estate con
il tramonto molto in ritardo, due operai vestiti di tela blu, su chiamata del
prete, si arrampicarono sulla scala in legno che era del matto, e salirono a
dare un’occhiata alle vecchie campane. Il matto qualcuno l’aveva distratto,
altrimenti non li avrebbe mai fatti salire. Meglio morire, che far vedere le
sue campane nude. Gli operai scoprirono che erano vecchie, ma questo lo
sapevano tutti. Dissero anche che erano da aggiustare, perché suonassero meglio.
Questo lo sapevano tutti. Tranne il matto. Per lui erano perfette così. Quello
che solo gli operai vestiti di tela blu sapevano era dove portarle, le campane.
Perché qualcuno le aggiustasse per bene. E conoscevano questo qualcuno. Così
una coppia di carri, trainati ciascuno da una coppia di buoi, trasportarono
chissà dove, lontano dal paese, la coppia di campane. Il matto la mattina
seguente andò a lavorare, ben vestito e puntuale come aveva imparato a fare. Le
campane non c’erano. C’era la corda, sul fondo del campanile, riposta in
maniera ordinata, piegata su se stessa in cerchio. Il matto avrebbe voluto
piangere.
Andò invece dal prete, che era molto invecchiato dal giorno in cui aveva
nominato il matto campanaro, e cercò di chiedergli dove fossero. Quello cercò
di spiegargli che sarebbero tornate ancora più belle di prima. Il matto
dubitava che sarebbero mai potute essere belle come la prima volta in cui le
aveva fatte ballare, e si sforzò moltissimo per spiegarlo al prete.
Però quello non capiva, perché non era matto.
Non ci sono altre parole per dire l’attesa, se non una precisa descrizione
del matto, seduto sulla porta bassa del campanile, i gomiti sulle ginocchia e
il mento sul palmo delle mani, finché le due sorelle di bronzo non tornarono,
un mese dopo. Né ci sono immagini per dipingere la felicità, se non lo sguardo
lucido del matto, quando vide il riflesso bianco del sole sul bronzo rinnovato
delle campane, come corpi di donne nude al sole.
Le due donne sue.
Le sue sole donne.
La sua gioia immotivata e pura.
Il canto loro, d’amore.
Il paese sotto ad ascoltare.
Le braccia forti del matto a ritrovarle nuove, eppure sempre uguali, eppure
sempre sue.
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