A giugno la meglio gioventù d’Italia cambia pelle: finisce la scuola. Per
noi adulti ex scolari è l’occasione per chiederci come sta la scuola,
laboratorio di futuro. L’occasione quest’anno ce la dà il rapporto su povertà
educativa e resilienza di buona scuola(pubblicato da Save the
Children). Un pugno nello stomaco. Dopo poche righe scopriamo che è
tragicamente bassa la capacità di riscatto che le scuole garantiscono ai nostri
ragazzi provenienti da ambienti familiari disagiati. La scuola è zoppicante e
non offre un salvagente ai ragazzi che hanno il disagio sociale in tasca. Loro
hanno più del triplo di probabilità di non raggiungere le competenze minime
rispetto ai coetanei delle famiglie più benestanti. Altro che buona
scuola (che pur c’è): qui siamo in mezzo a un dramma. Se la scuola
smette di essere strumento di rimozione degli ostacoli alla diseguaglianza (Piero
Calamandrei) e si adegua al dannato “resti quel che nasci”, che
scuola è mai? Che ce ne facciamo?
Ma l’allarme non finisce qui ed esplora altri sentieri più bui, ponendo
questioni come: se la scuola fallisce, i ragazzi predestinati alla povertà
educativa, trovano gocce di riscatto da qualche altra parte? I ricercatori sono
tombali: dove c’è degrado del contesto socio-urbano c’è basso riscatto
educativo. Pare che non basti la favola dell’edilizia scolastica o della
lavagna tecnologica, ma occorra occuparsi anche dell’ambiente urbano dove i
ragazzi vivono il loro tempo, perché questo funziona da fattore protettivo,
offrendo resilienza.
Se la scuola fallisce, è il “fuori scuola” l’àncora di salvezza che
potrebbe fare da comunità educante. Una sorta di scialuppa compensativa che
porta in salvo qualche ragazzo dal naufragio del disagio sociale. Se la città
pubblica surroga bene un pezzo di responsabilità educativa, si creano migliori
possibilità di uscire da quel tunnel da predestinati all’insuccesso (che poi
diventa l’insuccesso del Paese).
Ma cosa c’è fuori dalla scuola di cui prendersi cura? I luoghi che
abitiamo, il Paesaggio che vediamo, le strade che percorriamo, i marciapiedi
dove camminiamo, i campetti da calcio dove giochiamo, le (non) ciclabili dove
pedaliamo, le piazze, i giardini, i parchi, i campi sportivi, insomma c’è, ci
dovrebbe essere, la città pubblica di qualità. Se questa funziona, raddoppia o
triplica la possibilità di riscatto dei ragazzini disagiati. Vi rendete conto?
Investire in biblioteche, cultura, sport, qualità dello spazio pubblico è un
salvagente per il Paese. Da nessuna parte del rapporto si legge che salviamo i
nostri ragazzi continuando a consumare suolo, fare autostrade, parcheggi, case
inutili al posto di campi utili, aggiungere cemento al cemento, occuparci di
rendita immobiliare. Ho letto invece che visite a musei, a beni archeologici, a
parchi, a monumenti e belle piazze raddoppiano la resilienza educativa.
Un ragazzo con meno di 15 anni di una famiglia disagiata che vive in un contesto
urbano con pochi spazi e opportunità per lo sport ha il doppio delle
probabilità di non farcela a scuola
Mi pare chiaro che noi urbanisti, noi professori, noi sindaci, noi politici
e noi governanti dobbiamo ossessivamente trovare il modo di prenderci cura
della scuola assieme all’ambiente che gli sta attorno. Di nuovo si tratta di
ribaltare le agende politiche e culturali e lavorare senza sosta ai fattori
protettivi, culturali e materiali, che fungono da antidoto resiliente al
predestino dei ragazzi. I compiti delle vacanze li abbiamo noi, non i nostri
ragazzi. Eppure nessun politico ne parla, tanto sono presi da loro stessi e
dalle solite cose che fanno gola ai votanti. Già perché, ora che ci penso, gli
scolari non votano: perché perdere tempo con loro? E così la povertà educativa
dilaga silenziosa e si trasmette per via ereditaria. Una politica che non è
buona a salvare i propri figli più soli, non porta lontano il Paese.
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