venerdì 6 luglio 2018

Il copyright non è un diritto, è una minaccia per il futuro dell’Umanità - Andrea Coccia



Nato per difendere per pochi decenni il diritto di riprodurre opere di singoli autori viventi, negli ultimi 30 anni il copyright è diventato un’arma in mano alle mutlinazionali dell’intrattenimento per rendere illegale il motore stesso della cultura umana: la condivisione e la reinvenzione
«La legge statunitense che regolamenta il copyright è stata riscritta in modo tale che nessuno potrà fare alla Disney Corporation quello che Walt Disney ha fatto ai fratelli Grimm». Basterebbe questa frase da sola, recitata nel 2002 da Lawrence Lessig, creatore di Creative Commons, davanti ai partecipanti della Open Source Convention per stabilire una volta per tutte che il copyright, per lo meno così come viene inteso oggi dalle legislazioni di mezzo mondo, non è uno strumento a favore della libertà di espressione e della crescita culturale dell’intera umanità, bensì l’esatto contrario.
La legge a cui fa riferimento Lessig è il famoso Digital Millennium Copyright Act, votato dal Congresso e firmato da Bill Clinton nell’ottobre del 1998, un decreto passato alla storia, però, con un nome molto meno didascalico, ma molto più aderente al significato del provvedimento: il Mickey Mouse Protection Act, la prima legge della storia brandizzata da una multinazionale privata.
Il decreto firmato da Clinton e fortemente voluto dalla stessa Disney, che ci arrivò dopo anni di lobbing, aveva uno scopo ben preciso: aumentava la protezione delle opere intellettuali da 75 a 95 anni dopo la morte degli autori, coprendo le proprietà intellettuali della Disney — un immaginario gigantesco e quasi interamente costruito sulle favole popolari europee — che in quel momento, a 70 anni di distanza dalla nascita di Topolino, rischiavano di diventare di pubblico dominio. Le storie che la Disney aveva reinventato stavano per ritornare patrimonio dell’Umanità e uscendo dal controllo di una multinazionale multimiliardaria che, proprio sull’esclusiva imposta sulle sue storie derivate, aveva fin lì coltivato il proprio impero.
Gli stessi autori che nel 1928 diedero alla luce Mickey Mouse chiamandolo Steamboat Willie, ovvero citando sotto forma di parodia “Steamboat Bill”, il lavoro precedente diBuster Keaton, 70 anni dopo si stavano battendo per una legge che avrebbe vietato quella loro stessa operazione. Un paradosso? Sì, oppure, più semplicemente, una legge ipocrita che tutela la proprietà privata delle idee e colpisce a morte la creatività umana proprio a partire dal suo principio di base: l’imitazione.

Ora forse fa quasi ridere ricordarlo, ma l’intera cultura occidentale, quanto meno fino all’avvento del Romanticismo, è sopravvissuta e si è affinata proprio grazie al cardine inamovibile del principio di imitazione, della copia, del riuso, della condivisione libera e reinvenzione dei saperi. Senza quel principio, tanto per dire, a nessun monaco sarebbe mai venuto in mente di mettersi a copiare codici per farli sopravvivere al proprio tempo e sostanzialmente niente di quanto creato, scoperto o inventato prima del medioevo sarebbe arrivato fino a noi.

Cosa ci si poteva aspettare da una specie, quella umana, che ha costruito la sua emancipazione dalla natura sulla condivisione delle esperienze e sulla memoria collettiva, conservata proprio grazie alla replica dei racconti di generazione in generazione? D’altronde sono solo diversi millenni che viviamo la nostra esistenza culturale in un immaginario che si costruisce e costruisce la sua esistenza e sopravvivenza proprio sulla ripetizione dei pattern e delle storie.
Lo aveva intuito Vladimir Propp studiando le fiabe russe, ma anche uno come il professor Stephen Jay Gould, uno dei più grandi divulgatori del Novecento, che esattamente 4 anni prima della approvazione da parte di Clinton di quella legge liberticida e tirannica, scrisse in un articolo pubblicato sulla The New York Review of Books una considerazione che vale la pena ricordare; «siamo creature che raccontano storie», scrisse, «la nostra specie avrebbero dovuto chiamarla homo narrator».
C’è poco da fare, se questa definizione è vera, allora la difesa del copyright a cui stiamo assistendo negli ultimi 200 anni non soltanto sarebbe anti costituzionale, ma suonerebbe anche come contraria alla natura umana. Se infatti la nostra specie è divenuta tale grazie all’istinto del racconto e della condivisione del sapere, allora qualsiasi tentativo di rinchiudere questo sapere dentro gabbie che proteggono l’interesse e la ricchezza di pochi individui contro il benessere e il futuro dell’Umanità è un atto innaturale.

Un atto che, come scrive un altro lucido analista di questi temi, il professor Henry Jenkins, nel suo libro “Cultura convergente”, non serve «per garantire incentivi economici a singoli artisti, ma al fine di proteggere gli enormi investimenti che le aziende mediatiche hanno riversato su prodotti di intrattenimento a marchio registrato; non per una tutela del diritto d’autore a durata limitata, in modo tale da garantire la libera circolazione delle idee quando siano ancora utili al bene comune, ma perché il copyright sia una tutela eterna; non per l’ideale della comunione culturale, ma per quello della proprietà intellettuale».
Ogni epoca ha la sua battaglia di civiltà, insomma, e la nostra a questo punto sembra proprio essere quella sul copyright e sulla libertà culturale dell’essere umano. È una battaglia che l’invenzione di Internet di qualche decennio fa sembrava aver messo sulla strada giusta, quella della libertà, della condivisione, dell’anonimato, ma che negli ultimi anni è stata deviata su un binario morto, quello su cui abbiamo sacrificato la net neutrality, l’open source e il copyleft, ovvero i cardini dell’Internet libero creato da Timothy Bernard-Lee, che sognava una rete mondiale gratis, aperta e neutrale. Sarà una battaglia lunga e complicata, ma dobbiamo metterci in testa che perderla significherà sigillare la nostra cultura in una cassa da morto d’oro che non avrà frutti, che non si moltiplicherà, che finirà in sé stessa e affonderà nell’oblio insieme a tutti noi.
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