Nato per difendere per pochi decenni il diritto di
riprodurre opere di singoli autori viventi, negli ultimi 30 anni il copyright è
diventato un’arma in mano alle mutlinazionali dell’intrattenimento per rendere
illegale il motore stesso della cultura umana: la condivisione e la
reinvenzione
«La
legge statunitense che regolamenta il copyright è stata riscritta in modo tale
che nessuno potrà fare alla Disney Corporation quello
che Walt Disney ha fatto ai fratelli
Grimm». Basterebbe questa frase da sola, recitata nel 2002 da Lawrence
Lessig, creatore di Creative Commons,
davanti ai partecipanti della Open Source Convention per stabilire una volta
per tutte che il copyright, per lo meno così come viene inteso oggi dalle
legislazioni di mezzo mondo, non è uno strumento a favore della libertà di
espressione e della crescita culturale dell’intera umanità, bensì l’esatto
contrario.
La
legge a cui fa riferimento Lessig è il famoso Digital
Millennium Copyright Act, votato dal Congresso e firmato
da Bill Clinton nell’ottobre del
1998, un decreto passato alla storia, però, con un nome molto meno didascalico,
ma molto più aderente al significato del provvedimento: il Mickey
Mouse Protection Act, la prima legge della storia
brandizzata da una multinazionale privata.
Il
decreto firmato da Clinton e fortemente voluto dalla stessa Disney, che ci
arrivò dopo anni di lobbing, aveva uno scopo ben preciso: aumentava la
protezione delle opere intellettuali da 75 a 95 anni dopo
la morte degli autori, coprendo le proprietà intellettuali
della Disney — un immaginario gigantesco e quasi interamente costruito sulle favole
popolari europee — che in quel momento, a 70 anni di distanza dalla nascita
di Topolino, rischiavano di diventare di
pubblico dominio. Le storie che la Disney aveva
reinventato stavano per ritornare patrimonio dell’Umanità e uscendo dal
controllo di una multinazionale multimiliardaria che, proprio sull’esclusiva
imposta sulle sue storie derivate, aveva fin lì coltivato il proprio impero.
Gli
stessi autori che nel 1928 diedero alla luce Mickey Mouse chiamandolo Steamboat
Willie, ovvero citando sotto forma di parodia “Steamboat
Bill”, il lavoro precedente diBuster Keaton,
70 anni dopo si stavano battendo per una legge che avrebbe vietato quella loro
stessa operazione. Un paradosso? Sì, oppure, più semplicemente, una legge
ipocrita che tutela la proprietà privata delle idee e colpisce a morte la
creatività umana proprio a partire dal suo principio di base: l’imitazione.
Ora
forse fa quasi ridere ricordarlo, ma l’intera cultura occidentale, quanto meno
fino all’avvento del Romanticismo, è sopravvissuta e si è affinata proprio
grazie al cardine inamovibile del principio di imitazione,
della copia, del riuso,
della condivisione libera e reinvenzione dei saperi.
Senza quel principio, tanto per dire, a nessun monaco sarebbe mai venuto in
mente di mettersi a copiare codici per farli sopravvivere al proprio tempo e
sostanzialmente niente di quanto creato, scoperto o inventato prima del
medioevo sarebbe arrivato fino a noi.
Cosa
ci si poteva aspettare da una specie, quella umana, che ha costruito la sua
emancipazione dalla natura sulla condivisione delle esperienze e sulla memoria
collettiva, conservata proprio grazie alla replica dei racconti di generazione
in generazione? D’altronde sono solo diversi millenni che viviamo la nostra
esistenza culturale in un immaginario che si costruisce e costruisce la sua
esistenza e sopravvivenza proprio sulla ripetizione dei pattern e delle storie.
Lo
aveva intuito Vladimir Propp studiando
le fiabe russe, ma anche uno come il professor Stephen Jay
Gould, uno dei più grandi divulgatori del Novecento, che
esattamente 4 anni prima della approvazione da parte di Clinton di
quella legge liberticida e tirannica, scrisse in un articolo pubblicato sulla
The New York Review of Books una considerazione che vale la pena ricordare;
«siamo creature che raccontano storie», scrisse, «la nostra specie avrebbero
dovuto chiamarla homo narrator».
C’è
poco da fare, se questa definizione è vera, allora la
difesa del copyright a cui stiamo assistendo negli ultimi
200 anni non soltanto sarebbe anti costituzionale,
ma suonerebbe anche come contraria alla natura umana.
Se infatti la nostra specie è divenuta tale grazie all’istinto del racconto e
della condivisione del sapere, allora qualsiasi tentativo di rinchiudere questo
sapere dentro gabbie che proteggono l’interesse e la
ricchezza di pochi individui contro il benessere e il futuro dell’Umanità è
un atto innaturale.
Un
atto che, come scrive un altro lucido analista di questi temi, il
professor Henry Jenkins, nel suo libro
“Cultura convergente”, non serve «per garantire incentivi economici a singoli
artisti, ma al fine di proteggere gli enormi investimenti che le aziende
mediatiche hanno riversato su prodotti di intrattenimento a marchio registrato;
non per una tutela del diritto d’autore a durata limitata, in modo tale da
garantire la libera circolazione delle idee quando siano ancora utili al bene
comune, ma perché il copyright sia una tutela eterna; non per l’ideale della
comunione culturale, ma per quello della proprietà intellettuale».
Ogni
epoca ha la sua battaglia di civiltà, insomma, e la nostra a questo punto
sembra proprio essere quella sul copyright e sulla libertà
culturale dell’essere umano. È una battaglia che l’invenzione
di Internet di qualche decennio fa sembrava aver messo sulla strada giusta,
quella della libertà, della condivisione, dell’anonimato, ma che negli ultimi
anni è stata deviata su un binario morto, quello su cui abbiamo sacrificato
la net neutrality, l’open source e il copyleft,
ovvero i cardini dell’Internet libero creato da Timothy Bernard-Lee, che
sognava una rete mondiale gratis, aperta e neutrale.
Sarà una battaglia lunga e complicata, ma dobbiamo metterci in testa che
perderla significherà sigillare la nostra cultura in una cassa da morto d’oro
che non avrà frutti, che non si moltiplicherà, che finirà in sé stessa e
affonderà nell’oblio insieme a tutti noi.
da qui o da qui
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