venerdì 27 luglio 2018

C’era una volta un movimento globale. Che partiva dal personale - Gianluca Ricciato



Il movimento globale dentro di me iniziò in un preciso momento, anche se ci furono molti altri momenti preparatori. Questo preciso momento avvenne durante una festa di laurea in una casa studentesca bolognese. Una festa in cui tutti erano piuttosto alticci o proprio sfatti dai festeggiamenti. Ma io no, e non perché fossi particolarmente virtuoso, ma perché in quel momento avevo dentro un’inquietudine. Ero nervoso. Era la sera del 20 luglio 2001 e nel salone c’era la TV accesa sugli scontri per le strade di Genova, ed era da poco stata data la notizia di un morto. Forse uno spagnolo, sicuramente uno del blocco nero.
Mentre guardavo la TV apparve una foto di questo presunto spagnolo: di spalle, incollato ad una camionetta dei carabinieri bloccata contro un cassonetto riverso dei rifiuti, intento a scagliarle addosso un estintore rosso da distanza ravvicinatissima. La foto fu mandata in onda a lungo, mentre di sottofondo i commentatori blateravano. La guardai a lungo e iniziai a non credere che quello fosse possibile, che non fosse la realtà. Iniziai a non credere a quella foto perché mi sembrava una fiction. Iniziai a pensare che non era così, che quella ricostruzione che stavano dando non fosse vera. Che fosse falsa. Che fosse una fake news come si dice oggi, una bufala. O meglio, come si dovrebbe dire in questi casi, un depistaggio. E non so perché ebbi questa intuizione, visto che normalmente non è che mi occupi di omicidi o cose del genere. Ma quella intuizione era fondata: quella foto non rispecchiava la realtà, ma la deformava, la depistava. Perché, e questo da studente di filosofia estetica lo sapevo, il rapporto tra immagine e realtà è una cosa complessa e non lineare. Un’immagine può essere usata per imporre un’opinione, travisata, mal compresa o manipolata. 
In quel preciso momento, a quell’ora e in quella festa, iniziò dentro di me il movimento globale.
La mattina dopo più o meno all’alba e con pochissimo sonno prendemmo il treno da Bologna a Genova. Avevamo già saputo che il morto non era spagnolo ma era italiano, genovese, e il suo nome ormai se lo ricordano un po’ tutti in Italia, anche se la maggior parte continua a parlarne a vanvera e questo è il motivo per cui occorre continuare a ripeterlo. Il suo nome era Carlo Giuliani. Durante la giornata del 21 luglio, in cui partecipai alla manifestazione finale a Genova, Polizia, Carabinieri e Finanza, ordinati dai loro vertici e dai vertici dei vertici, continuarono a massacrare migliaia di persone per il solo fatto di essere presenti lì, crearono un agguato ad un incrocio che spezzò il corteo in due e chiusero la seconda parte in un reticolo di strade e mare, massacrando ferocemente e senza pietà tutti quelli che capitarono sotto tiro.
La mia seconda intuizione fu di non fermarmi all’angolo dove i militari avrebbero attaccato, per cui mi ritrovai nella prima parte di corteo che la scampò, sebbene quando arrivammo a Piazzale Marassi arrivarono anche da noi le ondate di gente che scappava dalle cariche e i gas insopportabili che i militari lanciarono senza tregua durante quei giorni. E soprattutto, arrivarono la paura, il terrore, l’assurdità di quello che stava succedendo.
Ma non è di questo che voglio parlare, di questo ho già parlato tanto, e tante e tanti lo hanno fatto meglio di me, ad esempio Heidi e Giuliano Giuliani. Io andai a Genova senza un particolare motivo, senza far parte di alcuna organizzazione, senza nemmeno considerarmi di una particolare parte politica, sebbene avessi una mia personale cultura che poteva essere associata alla sinistra, vagamente. Ma non me ne interessava. Mi interessava invece il fatto che avevo iniziato a smettere di credere: che i modi in cui vivevamo fossero gli unici e fossero quelli giusti, per esempio. Per vivere intendevo proprio tutto: mangiare, bere, curarsi, fare le amicizie, fare le relazioni, studiare, lavorare. Venivo da una specie di nichilismo che oscillava tra l’asfissia e il divertimento, e che si sviluppava principalmente nelle serate e nelle nottate bolognesi. Poi successe che fui vittima di un incidente automobilistico, e durante le cure per l’incidente ebbi una malattia causata da un medicinale, una malattia che porto ancora dentro di me. Questo accadde esattamente un anno prima del G8 di Genova, nel luglio 2000. E successe anche che tempo dopo trovai il rimedio alla mia malattia causata dalle cure convenzionali per l’incidente, un metodo di cura che non posso nemmeno nominare senza perdere credibilità agli occhi dei più, ma che seguo e che funziona da molti anni.
Ma successe molto altro, nell’anno precedente al luglio 2001. Successe che mentre iniziavo a preoccuparmi di qualunque cosa riguardasse il mio stile di vita, alcune persone intorno a me, principalmente donne, mi fecero capire che tutto quello che dicevo, facevo e consumavo aveva una ripercussione su di me, sugli altri e sul mondo esterno. Cosa che sembra ovvia a dirsi ma è esattamente il contrario dei pensieri e delle azioni che la società dei consumi e il capitalismo ci hanno abituato ad essere. Se mangiavo una banana, o se bevevo un caffè, o se consumavo prodotti imballati nella plastica, o se aprivo le finestre con i termosifoni sparati a 30 gradi in casa, quello che facevo aveva un legame con me, gli altri, il mondo intorno, la politica economica, le guerre, le migrazioni, la povertà, le malattie, la vita e la morte. E questi legami, ogni giorno, venivano negati da un apparato informativo potentissimo pronto a costruire depistaggi per fare in modo che le conseguenze delle nostre azioni non fossero visibili, in modo da poter continuare a vivere, mangiare, bere, consumare, relazionarci, studiare e lavorare nel modo in cui abbiamo sempre fatto. Noi, piccola parte di popolazione mondiale con accesso illimitato a molti più beni rispetto alla sussistenza.
In quel periodo, Dario Fo, Franca Rame e Jacopo Fo scrissero un testo che si intitolava: Voti ogni volta che fai la spesa.
Due anni prima del G8 di Genova, a Seattle, la città dov’era nata la musica grunge, un gruppo di ragazzi e ragazze vestite di nero aveva simulato un’impiccagione appendendosi ad un’insegna della Shell, per portare l’attenzione sul fatto che le multinazionali petrolifere Shell ed Eni avevano saccheggiato e inquinato il territorio del delta del Niger; massacrato la popolazione che ci viveva, gli Ogoni, grazie ad accordi con le oligarchie corrotte nigeriane; e non paghi avevano poi fatto giustiziare gli oppositori, tra cui il famoso poeta Ken Saro Wiwa che denunciò nei suoi testi quei fatti.
Qualche anno prima ancora, nello stato messicano del Chiapas, un inedito esercito di indigeni che si rifaceva ad un guerrigliero contadino morto quasi cento anni prima, Emiliano Zapata, e con a capo un eccentrico personaggio in passamontagna che si faceva chiamare Subcomandante Marcos, era riuscito ad attirare l’attenzione del mondo sul fatto che depredare territori, dissolvere comunità, imporre stili di vita univoci, blaterare di democrazia e di diritti quando si stanno compiendo genocidi, non era più una cosa che quella comunità e nessuna comunità che fosse tale poteva più accettare. Grazie alla sua lotta gli zapatisti del Chiapas riuscirono a continuare ad esistere e a crescere liberamente, ad essere comunità e non accozzaglia di individui massificati e in guerra tra loro, come sono ormai le nostre società “civili”.
Nella sua esistenza questa comunità ha continuato e continua a dire che la scelta delle armi, quando c’è stata, non è stata una cosa voluta dalla popolazione; che le gerarchie, a partire da quelle dei ricchi sui deboli, degli uomini sulle donne, dei bianchi sui neri, sono forme della società da superare, altrimenti è inutile parlare astrattamente di diritti e di democrazia. E soprattutto affermò, e continua ad affermare, che quella cosa che gli stati ricchi hanno accettato, perseguito e chiamato “globalizzazione”, cioè la svendita del mondo, delle risorse e delle persone al potere economico e finanziario, non è semplicemente una scelta politica di cui possono parlare solo gli esperti designati, ma è una forma transnazionale di oppressione, inedita, multiforme, mutevole e complessa. E per questo il contrasto alla globalizzazione necessita di cambiamenti personali profondi e strategie collettive inedite, per funzionare. Non di proclami e bandiere del passato.
Perché quell’oppressione, quello stile di vita, quel modo competitivo e dominatore di fare le relazioni tra di noi e con il mondo non umano, ce l’abbiamo dentro, lo agiamo e lo subiamo, e non cambia se non decidiamo di cambiare.
Non ci fu solo questo naturalmente, nella preparazione generale di quel movimento che i piccoli scrivani italiani si divertirono a chiamare “no global”. Ci fu anche, ad esempio, una scienziata indiana, ecologista e femminista, che diceva, e continua a dire, che il problema principale dei cosiddetti Ogm, cioè della produzione e somministrazione globale e incontrollata di alimenti e prodotti transgenici, non era tanto quello a breve termine sulla salute o sull’ambiente del singolo prodotto, ma quello più grande legato alla decisione ratificata in inediti trattati sovranazionali, di poter brevettare l’esistente, cioè creare esseri viventi di proprietà di gruppi potentissimi di potere. Quei trattati, ça va sans dire, erano stati ideati, voluti e imposti dagli stessi potenti beneficiari, grazie a politici di destra o di sinistra, ormai valvassini e ininfluenti. Per la cronaca, si chiama Vandana Shiva quella scienziata, e potete trovare oggi, 2018, il suo nome, su beceri siti e riviste che la osteggiano come dispensatrice di fake news e di complotti, siti e riviste amati e letti dalla massa di individui della destra capitalista e da quella della sinistra geneticamente modificata, i cui stili di vita sono gli stessi e le loro finte opposizioni sono funzionali agli interessi della dittatura globale, oggi pienamente affermata, grazie anche al massacro di quei giorni del luglio 2001.
Il fatto è, appunto, che quel coagulo di persone e realtà che sfilarono a Genova aveva avuto un’intuizione sorprendente, di cui forse non se ne rendeva nemmeno conto: è inutile continuare a sventolare vessilli, bandiere, parole d’ordine, idee, schemi, convegni, assemblee, formazioni politiche legate ad un’epoca del capitalismo che non esiste più. E soprattutto è inutile staccare quello che diciamo e pensiamo da quello che facciamo e viviamo, primo perché sono già collegate, anzi uno dei problemi è proprio il fatto che siamo vittime del tentativo di scollegarle – l’alienazione, qualcuno ne aveva già parlato; sia perché è quello che facciamo e viviamo ad alimentare questo sistema, semplicemente. E da soli non ne usciamo, e non ne usciamo nemmeno dividendoci e facendoci la guerra tra poveri, rinchiudendoci in gruppuscoli nemici del mondo esterno. Ne usciamo ricreando comunità, riprendendoci l’umanità, riconnettendo noi al mondo, alla Terra, alla vita. Quello che ci hanno scippato nelle nostre vite alienate.
Quell’alienazione non finì, naturalmente. Il fatto di avere ragione, sull’entità di quel massacro genovese e sull’entità della violenza della dittatura globale, non servì a costruire l’altro mondo possibile. Eppure.
Eppure tutto è cambiato. Lo sappiamo tutti che tra l’inizio e la fine dell’estate 2001, cioè tra il 20 luglio e l’11 settembre, è cambiato tutto. L’asfissia sorridente di fine Novecento, la finta felicità neoliberista, la festa necrofila celebrata sui resti del mondo che avevamo saccheggiato, l’acquario in cui stavano annegando le nostre esistenze, diventato sempre più piccolo e malandato, fu mandato in mille pezzi in quei mesi tra il massacro di Genova, l’attacco alle Torri Gemelle e la guerra in Afghanistan. La verità, con tutta la sua difficile comprensione e accettabilità, insorse. Oggi, possiamo fare finta di credere alle verità assolute di una Repubblica, di un Mentana, di un Burioni, di un Piero Angela, di un D’Alema, di un Saviano, di un politico, scienziato, economista, giornalista, intellettuale quasi sempre ancora maschio, oppure femmina capace di arrampicarsi e sottomettersi alle logiche del dominio. Credere ad ognuno di questi automi del dogma progressista, interno agli interessi dell’economia capitalista globalizzata, che ci vaneggia di verità, di diritto, di scienza e di progresso. Foraggiato dalle multinazionali petrolifere, agrochimiche, farmaceutiche, alimentari, della comunicazione. E deridere pavlovianamente ogni giorno chi, come me, scrive questo. Possiamo fare finta, e ad alcuni viene molto bene.
Ma c’è una parte interiore ineludibile ormai che sa che tutto questo è una fiction, anche se l’ossessione, l’alienazione e gli psicofarmaci ci aiutano a crederci ancora. Possiamo prendercela con gli esiti nefasti di questo scoperchiamento di verità, esiti che erano anche prevedibili: il popolo che si sente tradito e diventa reazionario, i fascisti risorti dalle fogne che parlano ossessivamente di Piano Kalergi e Soros, oppure si appropriano di battaglie che dovrebbero essere le nostre, deformandole e depistandole. Ma sappiamo che fanno parte della fiction anche loro, come sappiamo che fa parte della fiction anche denunciare come bufala, su Twitter o su Facebook, qualsiasi versione non approvata dai media di regime, proprio noi che per anni abbiamo combattuto i depistaggi, sostenuto la controinformazione, urlato don’t hate the media, become the media.
Sappiamo che è una fiction anche questa cosa del fascismo come ritorno del passato, della partita tra centrodestra e centrosinistra, perché dal movimento altermondialista in poi, cioè dalla ri-connessione delle lotte sociali, indigene, ecologiste, sindacali, femministe, antiproibizioniste, antirazziste, lo scenario dell’azione politica è cambiato e non si può parlare un linguaggio decontestualizzato, vivere una vita decontestualizzata, fare finta di essere nel ‘900 continuando a propagandare modelli mentali dell’800.
Pena creare mostri, come sta succedendo, anzi diventare mostri noi stessi.
Come ci arrivammo alle soglie di quel luglio 2001 l’ha descritto in modo mirabile Massimo Palma in Happy Diaz, facendo un ritratto della crescita musicale ed esistenziale della nostra generazione (la mia, la sua, quella di Carlo Giuliani, delle nate e dei nati nella seconda metà degli Anni Settanta, ma non solo, direi anche intorno a quelle date). Un libro da avere.
Una notte che si compiva davvero solo la mattina del sabato, nei ritorni a casa ciondolanti nelle città ancora deserte. Mentre la notte brulicava di esseri viventi, con la sensazione di compiere un rito e la devozione di piegarsi a una routine di sigarette, di attesa fuori dai locali, di tensione da ravvivare con una parola fuori posto, un’ironia malferma, o un brano poco noto messo su nella macchina gremita di teste. Lo officiavano tutti questo rito, i cinici, i taciturni, i ridanciani, i fascinosi. Consapevolmente, ripetevano le formule magiche del bivacco all’appuntamento, della chiacchiera per guadagnare tempo, della birra distensiva, ogni venerdì, senza mai pensare ad alcuna santità del rito stesso, mai a un entusiasmo, a un’identificazione simbolica. Era partecipazione quotidiana, ritualità senza mitografia. Santità degli anti-simboli: le rosticcerie, le cornetterie, le sigarette scroccate. E l’elettricità chimica.
Un libro, che però, si ferma di fronte alle alternative possibili, dicendo che quella generazione è rimasta afasica. Chi lo sa. Io però di cose ne ho sentite tante, e di pratiche ne ho viste tante, e ci ho anche partecipato, pratiche che sono cresciute grazie anche alla difficile genesi movimentista genovese. Anzi, credo che quelle pratiche abbiano iniziato a modificare la società, e che il movimento globale sia solo all’inizio. Si è detto che quel movimento – il movimento dei movimenti lo chiamavano molti – sia stato per la prima volta un’entità politica che chiedeva qualcosa per gli altri e non per sé. Io ho un’idea diametralmente opposta. E’ secondo me invece una delle poche realtà politiche esistite nell’Occidente contemporaneo, insieme ad alcune pratiche ecologiste e femministe, che non attacca solo un potere esterno, ma affronta il problema del potere interno a sé. Il “Berlusconi dentro di me”, come diceva Gaber. Che non inneggia a un sol dell’avvenire, non teorizza uno schema di nuovo modello di società, ma connette la realtà e le pratiche esistenti, e soprattutto denuncia la complicità nostra, interiorizzata, la connivenza sia con il potere agito contro gli altri (popoli), sia auto-agito contro noi stessi. Che dice, semplicemente, che quando la nostra vita diventa una vita di merda facciamo male a noi e facciamo male al mondo, e che un altro mondo è possibile. Ma non un altro pianeta, ma questo mondo, questa vita, questa giornata, queste ore vissute diversamente, riempite del senso di cui sono state svuotate dalla società dei consumi.
Che fare allora? Rovescio all’indietro la domanda, parlando di me, che è l’unica cosa che posso fare. Ognuna e ognuno che si è sentita parte del movimento, potrebbe fare una storia diversa, ma in qualche modo interconnessa, magari in modo conflittuale, a quella che sto facendo io.
Che cos’era il movimento globale dentro di me?
– Era una ragazza che entra in una botteghina di Via Mascarella gestita da un cileno fuggito da Pinochet venticinque anni prima, esce con una barretta di cioccolata, me la fa assaggiare e io, drogato di cioccolato da quando sono nato, mi fermo e dico che non ho mai assaggiato una cioccolata simile. E da allora non compro più barrette di cioccolata che non provengano da lì, cioè quelle spacciate alle masse via etere, quelle che hanno solo il 30% di cacao, tra l’altro ricoperto di pesticidi, che per essere coltivato a costo quasi zero si serve di paramilitari mandati ad intimidire gli schiavi indigeni che coltivano quel cacao, i cui mandanti speculano in borsa con i profitti del loro mercato criminale. Per chiudere il cerchio.
– Era un opuscolo arancione, comprato in quella botteghina o in un’altra simile del Commercio Equo e Solidale, un opuscolo compendio di un libro più grande e intitolato Mini guida al consumo critico e al boicottaggio, lasciato sul davanzale della finestra nel cesso della mia casa bolognese, e così letto da decine di altre persone durante i loro bisogni fisiologici.
– Era Indymedia come home page, sempre e ovunque, e la condivisione di informazioni dentro un ambiente virtuale stimolante e auto-protetto da chi ci stava dentro, cioè da noi.
– Erano le vecchine del quartiere Bolognina che varcarono per la prima volta la soglia di un centro sociale, l’XM24, il giovedì pomeriggio verso le 17, perchè riconobbero sulle bancarelle lì piazzate qualcosa di diverso, introvabile, o forse perso nella loro memoria, cioè cibo vero.
– Ed ero io che non riuscivo ad arrivare mai prima delle 20 all’XM, quando cioè le vecchine avevano già saccheggiato tutto, e allora mi toccavano i resti che comunque erano tutto quello che mi serviva per la settimana, pane, verdure, vino, formaggi. Coltivati senza pesticidi e senza sfruttamenti. Restavo a mangiare e bere con le varie cricche fino a mezzanotte, a mangiare pizze con farine integrali e a bere vini biologici, anche se non certificati. Nacque lì così una rete di produttori e produttrici, consumatori e consumatrici che si chiama Genuino Clandestino, viva e vegeta. E vincente.
– Era svegliarmi il venerdì e andare a comprare Carta, una rivista senza padroni nata come costola del Manifesto, ma che era riuscita ad andare avanti rispetto alle rigidità del Manifesto, oggi come oggi ormai evidenti, purtroppo, e parte del problema di una sinistra in balia dei cambiamenti che non ha voluto fare. Solo che Carta, senza padroni e senza un popolo abbastanza grande che ci credesse, è durata solo pochi anni, gli anni in cui l’onda italiana del movimento globale è esistita davvero.
– Era fare giornalismo sociale a Piazza Grande, un giornale di strada in cui abbiamo parlato di Critical Mass biciclettare che occupavano le strade, di lotte transgender e femministe, di leggi proibizioniste oscene, di razzismo, in cui scrissi il reportage del Forum Sociale Europeo di Firenze, inviato a Fortezza da Basso, novembre 2002, scrissi di Don Luigi Ciotti che parlava di istituzioni totali, carceri che diventano società malate e società malate che diventano carceri.
– Era riconciliarsi con un mondo cattolico fatto di Don Luigi Ciotti, padre Alex Zanotelli e Don Andrea Gallo, compagno anarchico e prete dei Caruggi quest’ultimo. Andrea Gallo e Faber, Via del Campo, i tossici, le prostitute e la città da cui è nato tutto quello di cui sto scrivendo in questo articolo.
– Fu risvegliarsi il giorno dopo del Forum di Firenze con Radio Popolare come radio-sveglia, che parla di un pm, tale Fiordalisi – indagato in passato per rapporti con la malavita e più recentemente in Sardegna per manipolazione di documenti – che impugna un fascicolo rifiutato dalle procure di Napoli e Genova, un fascicolo esilarante, frutto probabilmente di qualche feconda mente dei servizi deviati, che si inventa un’associazione terroristica clandestina chiamata “Rete No Global” (c’era il sito della rete, visibilissimo, e i partecipanti facevano conferenze pubbliche all’Università per lo più). E fa mettere dentro, questo buontempone, decine di persone in tutta Italia con ipotesi di reato fantasiose che servono a colpire il più grande successo pacifico del movimento altermondialista in Italia, cioè l’altro mondo praticato in quei giorni a Fortezza da Basso, durante il Forum Sociale Europeo di Firenze. Accuse decadute, ovviamente, ma intanto il depistaggio era stato creato e le vittime massmediatiche riportate nell’alienazione del “nulla può cambiare nella tua vita di merda”. Tecnicamente, io lo chiamo tecnonazismo.
– Era entrare a lavorare in un’associazione che propaganda il risparmio energetico, le energie rinnovabili, va in giro per l’Italia a mostrare che si può fare, e che è inutile autoproclamarsi contro la guerra e contro il razzismo continuando a consumare energia in questo modo, che è il nodo del problema, e da questo nasce un nodo più grande, quello della crescita economica, o come direbbe Pasolini della modernità senza sviluppo: una dittatura globale che crea schiavi ignoranti di ultima generazione e cerca di diffondersi a macchia d’olio ovunque, con l’imperativo ottusamente progressista, pavlovianamente scientista e profondamente populista della “crescita infinita”. In un mondo finito.
– Era dire che la crescita deve essere interiore e collettiva, che va recuperato lo spirito empatico che ci hanno scippato, che bisogna andare oltre il limite mentale di una tecnologia distruttiva perché la tecnologia, la cultura, la scienza, il progresso possono e devono svilupparsi in armonia con l’esistente, se vengono tolti dalle mani dei vecchi gerarchi arroganti che le controllano e le curvano a loro vantaggio, e come tantissime culture indigene della storia umana ci hanno insegnato. La decrescita, invece, va applicata tutto quello che di nocivo sta producendo questa economia per i popoli e per il mondo. Ed è emergenza, non più urgenza.
In quegli anni iniziò a girare questa storiella.
Sul molo di un piccolo villaggio messicano, un turista si ferma e si avvicina ad una piccola imbarcazione di un pescatore del posto. Si complimenta con il pescatore per la qualità del pesce e gli chiede quanto tempo avesse impiegato per pescarlo.
Pescatore: ’Non ho impiegato molto tempo’
Turista: ’Ma allora, perché non è stato di più, per pescare di più?’
Il messicano gli spiega che quella esigua quantità era esattamente ciò di cui aveva bisogno per soddisfare le esigenze della sua famiglia.
Turista: ’Ma come impiega il resto del suo tempo?’
Pescatore: ’Dormo fino a tardi, pesco un po, gioco con i miei bimbi e faccio la siesta con mia moglie. La sera vado al villaggio, ritrovo gli amici, beviamo insieme qualcosa, suono la chitarra, canto qualche canzone, e via così, trascorro appieno la vita.’
Turista: ’La interrompo subito, sa sono laureato ad Harvard, e posso darle utili suggerimenti su come migliorare. Prima di tutto lei dovrebbe pescare più a lungo, ogni giorno di più. Così logicamente pescherebbe di più. Il pesce in più lo potrebbe vendere e comprarsi una barca più grossa. Barca più grossa significa più pesce, più pesce significa più soldi, più soldi più barche! Potrà permettersi un’intera flotta!!
Quindi invece di vendere il pesce all’uomo medio, potrà negoziare direttamente con le industrie della lavorazione del pesce, potrà a suo tempo aprirsene una sua. In seguito potrà lasciare il villaggio e trasferirsi a Mexico City o a Los Angeles o magari addirittura a New York!! Da lì potrà dirigere un’enorme impresa!…
Pescatore: ’ma per raggiungere questi obiettivi quanto tempo mi ci vorrebbe?’
Turista: ’25 anni forse’ Pescatore: ’….e dopo?’ Turista: ’Ah dopo, e qui viene il bello, quando i suoi affari avranno raggiunto volumi grandiosi, potrà vendere le azioni e guadagnare miliardi!!!!!!!
Pescatore:’…miliardi?…….e poi?’
Turista: ’Eppoi finalmente potrà ritirarsi dagli affari, e concedersi di vivere gli ultimi 5/10 anni in un piccolo villaggio vicino alla costa, dormire fino a tardi, giocare con i suoi bimbi, pescare un po’ di pesce, fare la siesta, passare le serate con gli amici bevendo e giocando in allegria!’ (Anonimo)
Il senso di questa storiella è chiaro ed è diventato evidente dall’estate 2001, ma ce lo neghiamo ogni giorno. Il movimento globale, altermondialista, il movimento dei movimenti, vive e lotta ogni giorno in svariate parti del mondo. Le pratiche di fuoriuscita dal modello distruttivo sono in corso anche in Italia, numerose. Quando finiremo di negare quello che sappiamo, si risveglierà anche in Italia il coagulo politico che permetterà a queste pratiche di essere un movimento popolare.

* uscito precedentemente sul blog Fiabe Atroci di Gianluca Ricciato


verso la fine si parla di una storiella anonima, in realtà è un racconto formidabile  di Heinrich Böll (http://www.labottegadelbarbieri.org/prima-lezione-di-economia)

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