(Articolo
pubblicato su il manifesto del 14 luglio 2018)
Pare che al
vicepresidente Di Maio sfugga il significato di 'proprietà transitiva' e, ancor
di più, quello di 'sillogismo aristotelico'. Solo così si spiegano la netta
presa di posizione del nuovo governo contro la ratifica del Ceta (trattato di
libero scambio Ue-Canada) e il contemporaneo via libera alla firma del Jefta
(accordo di libero scambio Ue-Giappone), il cui negoziato verrà chiuso con una
grande cerimonia a Tokyo il 17 luglio prossimo.
Ciò che non
manca sicuramente al vicepresidente Di Maio è l'utilizzo dell'arrampicata sugli
specchi -scuola retorica di lunga data- per spiegarne le ragioni:
“Assieme alla firma, stiamo inviando delle osservazioni precise che riguardano
agricoltura, piccole imprese e una serie di interventi necessari”, ha infatti
dichiarato.
Non sa, o
finge di non sapere, che il Jefta, come il Ceta, non sono emendabili e che
tutte le raccomandazioni o dichiarazioni che si vogliano accludere alla
sottoscrizione dello stesso, hanno effetti pratici nulli e applicabilità zero,
perché esterne al testo legale del trattato firmato.
Eppure non
stiamo parlando di un accordo secondario: il Pil del Giappone è tre volte
quello del Canada e il trattato ha un valore complessivo pari a un quarto del
Pil globale.
Mentre va
rammentato al cantore della democrazia diretta Di Maio che il Jefta, come tutti
i trattati cugini, è un negoziato segreto, reso pubblico grazie a un gesto
-illegale ma legittimo- di Greenpeace, giova ricordare allo stesso, in estrema
sintesi, le insidie contenute nello stesso: a) non riconosce il principio
europeo di precauzione a tutela di ambiente e salute; b) spinge la
liberalizzazione dei servizi; c) attacca l'agricoltura di qualità (protegge
solo 18 indicazioni geografiche tipiche su 205); d) abbatte i controlli alle
frontiere sui prodotti agroalimentari, aprendo un'autostrada alla
contaminazione da Ogm, di cui il Giappone è leader brevettuale; e) abbassa
ulteriormente le tutele sul lavoro (il Giappone non ha ratificato due delle
otto convenzioni fondamentali dell'Organizzazione Internazionale del
Lavoro).
In più, non
occupandosi di investimenti, non sarà soggetto alla ratifica dei parlamenti
nazionali.
Decisamente
un bel capolavoro per un vicepresidente, il cui Movimento di appartenenza aveva
sottoscritto in campagna elettorale la piattaforma “Ionontratto” e che, nel
contratto di governo, aveva inserito il No a Ttip, Ceta e “ai trattati di
medesima ispirazione per gli aspetti che comportano un eccessivo affievolimento
della tutela dei diritti dei cittadini”.
E infatti
l'intergruppo parlamentare No Ceta, composto da deputati e senatori di tutti
gli schieramenti politici, ha immediatamente chiesto a Di Maio la sospensione
del via libera dato alla firma del Jefta, mentre da giorni la campagna Stop TTIP/Stop CETA ha chiesto un incontro
urgente con lo stesso. Ad oggi senza risposta.
La battaglia
contro il Jefta si sposta verso il Parlamento Europeo che dovrà votare
l'accordo entro dicembre 2018, ma il segnale che arriva dal vicepresidente Di
Maio è molto preoccupante, sia per la gravità dell'accordo in sé, sia per come
il Governo italiano affronterà, aldilà delle dichiarazioni, il processo di
bocciatura del Ceta, sia, infine per i numerosissimi altri acccordi che sono in
dirittura d'arrivo: Mercosur (America Latina), Vietnam, Singapore, Australia e
quello con i Paesi del Mediterraneo.
La netta
impressione è che o sui trattati di libero scambio si inverte la rotta o siamo
all'assoluta continuità con tutti i governi precedenti. E perché le stelle non
diventino meteore, al vicepresidente non basterà qualche 'coup de theatre' sui
vitalizi, né tantomeno la vergognosa campagna razzista di spostamento della
collera sociale verso chi cerca un futuro migliore e, per farlo, non può che
salire su un barcone.
da qui
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