giovedì 29 settembre 2016

Canta Palestina - Enzo Avitabile e Amal Murkus

Zehra Doğan in galera



Il nostro alleato turco svuota le prigioni dai delinquenti per mettere gli oppositori.
Un modello per i nostri governi europei?

La pittrice e giornalista turca Zehra Doğan arrestata, di Helen Stoilas*
L'artista e giornalista turca Zehra Doğan è tra gli arrestati questa settimana nel giro di vite del presidente Tayyip Erdogan dopo il colpo di stato militare fallito. Mercoledì 27 luglio, oltre a chiudere tre agenzie di stampa, 16 canali televisivi, 45 giornali, 15 riviste e 29 case editrici, secondo i dati ufficiali del governo, 47 giornalisti sono stati arrestati dalla polizia.
Negli ultimi cinque mesi, Doğan, che è il direttore del l'agenzia di stampa femminista Jinha, ha fatto reportages e ha dipinto dal quartiere Nusaybin della provincia di Mardin, una regione in gran parte kurda in cui è stato recentemente imposto un rigido coprifuoco. Secondo i suoi amici su Facebook, è stata arrestata dalla polizia mentre stava seduto in un caffè.
Giovedi, 21 luglio. Doğan è stata portato in tribunale, sulla base di una testimonianza anonima, l’ha descritta e identificata come "una signora minuta con un anello al naso" - Doğan è stata accusato di essere un "membro di un'organizzazione illegale", secondo l’agenzia Jinha.
La sua arte e la scrittura sono state usate contro di lei dalla procura come prova della sua appartenenza al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), un gruppo di sinistra militante che si batte per i diritti dei curdi in Turchia, che il governo ha etichettato come "organizzazione terroristica". La corte ha stabilito che deve essere tenuta in custodia in attesa del processo, che potrebbe richiedere mesi.
"L'arte e dipinti non possono mai essere utilizzati in tal modo," l'avvocato di Doğan, Asli Pasinli, ha detto ai media dopo il suo arresto. "Questo è un attacco all’arte e all’espressione artistica."
*(traduzione mia)

Zehra Dogan: “…è la mia mano che tiene il pennello!” (Free Collective)
Zehra Dogan, giornalista e artista, incarcerata per il suo lavoro di informazione e denuncia sul regime oppressivo turco che la ragazza raccontava attraverso i servizi e i suoi dipinti.
Negli anni Zehra, attraverso la copertura di notizie offerta e il suo tocco artistico, ha riportato la realtà di città assediate come Cizre, Derik, Dargetic e Nusaybin, ritraendo la devastazione portata dai conflitti, la disperazione di mamme che cercano di recuperare i figli minori e le urla delle donne.
Zehra, dopo essere stata arrestata proprio nella città di Nusaybin, in attesa di essere processata per aver mostrato al mondo la realtà dei fatti, ha diffuso una lettera attraverso la quale traspare tutto il coraggio di chi non si piega alle discriminazioni e alle violenze subite da tutta la vita, esprimendo la ferma volontà di continuare la lotta anche dall’interno di uno dei simboli dell’oppressione.
Ho sempre cercato di esistere attraverso i miei dipinti, le mie notizie, e la mia lotta come una donna. Ora, anche se sono intrappolata tra le quattro mura, io continuo a pensare che ho fatto assolutamente il mio dovere in pieno. In questo paese, buio come la notte, dove tutti i nostri diritti sono stati incrociati con sangue rosso, sapevo che stavo per essere imprigionata.
Voglio ripetere l’insegnamento di Picasso: pensi davvero che un pittore è semplicemente una persona che usa il suo pennello per dipingere insetti e fiori? Nessun artista volta le spalle alla società; un pittore deve usare il suo pennello come arma contro gli oppressori. Nemmeno i soldati nazisti hanno cercato Picasso a causa dei suoi dipinti, e tuttavia io sono a giudizio a causa dei miei disegni.
Terrò disegno. Quando una donna rilascia fiumi di colori, è possibile lasciare la prigione. Ma sono solo pennellate …. Non dimenticate mai, è la mia mano che tiene il pennello!

parla Zehra Dogan, alla consegna di un premio (solo per chi sa il turco):

ecco alcuni suoi quadri, arte degenerata secondo la procura, da mettere in galera anche loro, e buttare la chiave ("La corte ha stabilito che Zehra Doğan deve essere tenuta in custodia in attesa del processo, che potrebbe richiedere mesi")















Il prossimo segretario generale dell’Onu sarà un altro sconosciuto - Gwynne Dyer


Alla fine dell’anno Ban Ki-moon lascerà la carica di segretario generale, e per le Nazioni Unite è giunto il momento di scegliere un successore. Al termine dell’assemblea generale che si terrà all’inizio di ottobre sapremo chi sarà. Il che pone due domande: come viene effettuata la scelta, e perché dovrebbe interessare a qualcuno?
Il segretario generale delle Nazioni Unite è, in un certo senso, il funzionario di più alto livello al mondo, ma il processo di selezione si può a malapena definire democratico. La realtà è che si tratta di un processo oscuro quasi quanto il conclave con cui viene scelto il papa.
Sono i quindici membri del Consiglio di sicurezza a scegliere il candidato, anche se tutti e 192 i paesi dell’Onu avranno il diritto di votare per esprimersi sulla loro scelta. Ma solo l’opinione dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza (i cosiddetti p5) conta davvero, perché solo loro hanno il diritto di veto.
Una pallida scelta
È per questo che la scelta non cade mai su chi ha opinioni forti e l’abitudine di agire con decisione. Una persona del genere finirebbe inevitabilmente per infastidire uno dei p5 (Russia, Regno Unito, Francia, Cina e Stati Uniti) o tutti. Perciò tutto il sistema è concepito per evitare che un anticonformista s’infili nei meccanismi e sia nominato.
Il segretario generale non può essere originario di uno di questi cinque paesi (perché potrebbe diventare pericoloso). Inoltre non deve avere carisma. Di solito si sceglie una persona affidabile, ovvero un diplomatico dal curriculum irreprensibile proveniente da un paese di piccole o medie dimensioni. Come l’attuale segretario: un diplomatico di carriera sudcoreano che si è piazzato al trentaduesimo posto nella classifica di Forbes degli uomini più potenti al mondo.
Di solito, quindi, i candidati sono relativamente sconosciuti. Se scorrete la lista attuale, gli unici due nomi riconoscibili anche a un manico della politica internazionale sono l’ex premier neozelandese Helen Clark, oggi amministratrice del Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite, e António Guterres, ex primo ministro del Portogallo e poi Alto commissario per i rifugiati dell’Onu.
Ma chi sono Irina Bokova, Natalia Gherman e Igor Lukšić? Si tratta, nell’ordine, dell’ex ministra degli esteri ad interim della Bulgaria, della ministra degli esteri moldava e del ministro degli esteri del Montenegro. Bokova è anche la direttrice generale dell’Unesco, ma scommetto che non la conoscevate comunque.
Il segretario generale non può agire in maniera indipendente dalla volontà delle grandi potenze
Perché otto candidati su dodici vengono dall’Europa orientale? Perché stavolta è il turno dell’Europa orientale. La regione è sempre stata esclusa durante la guerra fredda, perché i suoi paesi erano sottoposti al controllo sovietico e contravvenivano alla regola non scritta secondo cui il segretario generale non deve venire da uno dei p5.
Ci si potrebbe anche chiedere perché l’Europa dell’est sia considerata una vera e propria regione, visto che la sua popolazione totale è inferiore a quella di paesi come Bangladesh, Brasile, Indonesia o Pakistan. Il motivo è lo stesso: è considerata una regione a parte perché era occupata da truppe sovietiche e la gran parte dei suoi governi erano, in ultima istanza, manovrati da Mosca. Alle Nazioni Unite il peso della storia si sente.
Funzionari di stato
Ma ci sono stati alcuni passi avanti. Quest’anno le donne sono la metà dei candidati, e nel palazzo di vetro si sente che è giunto il momento di una segretaria generale. C’è anche il dichiarato impegno a rendere più trasparente il processo di selezione, che però resterà immutato. Il Consiglio di sicurezza proporrà un unico candidato che non sia sgradito a nessuna delle grandi potenze, e poi l’assemblea generale si limiterà a convalidare la sua scelta.
Si tratta fondamentalmente di un incarico da funzionario di stato, adatto a persone dal carattere prudente. Come potrebbe essere altrimenti? Nessuna grande potenza è disposta a cedere parte della sua sovranità o ad avere un leader indipendente e forte alle Nazioni Unite.
E comunque quale sarebbe il senso di avere un leader simile, dal momento che l’Onu non possiede forze militari o risorse finanziarie proprie? Ne deriverebbe solo frustrazione: il segretario generale non può agire in maniera indipendente dalla volontà delle grandi potenze, le stesse che hanno concepito questo sistema.
Si tratta comunque di un incarico importante, e i candidati non mancano mai. Il segretario generale può parlare a nome del mondo di fronte a gravi violazioni dei diritti umani, e una volta ogni tanto può anche organizzare una missione internazionale per mettere fine agli orrori (quando tutte le grandi potenze sono d’accordo).
E diventa così, in virtù della sua posizione, il simbolo stesso di quel mondo più collaborativo e meno violento a cui aspira la maggioranza dei politici, dei diplomatici e dei cittadini comuni. Ma la realtà è ancora molto diversa.
(Traduzione di Federico Ferrone)

mercoledì 28 settembre 2016

Psiyop: Eperazione Siria – Manlio Dinucci


Le «Psyops» (Operazioni psicologiche), cui sono addette speciali unità delle forze armate e dei servizi segreti Usa, sono definite dal Pentagono «operazioni pianificate per influenzare attraverso determinate informazioni le emozioni e motivazioni e quindi il comportamento dell’opinione pubblica, di organizzazioni e governi stranieri, così da indurre o rafforzare atteggiamenti favorevoli agli obiettivi prefissi».
Esattamente lo scopo della colossale psyop politico-mediatica lanciata sulla Siria. Dopo che per cinque anni si è cercato di demolire lo Stato siriano, scardinandolo all’interno con gruppi terroristi armati e infiltrati dall’esterno e provocando oltre 250mila morti, ora che l’operazione militare sta fallendo si lancia quella psicologica per far apparire come aggressori il governo e tutti quei siriani che resistono all’aggressione.
Punta di lancia della psyop è la demonizzazione del presidente Assad (come già fatto con Milosevic e Gheddafi), presentato come un sadico dittatore che gode a bombardare ospedali e sterminare bambini, con l’aiuto dell’amico Putin (dipinto come neo-zar del rinato impero russo).
A tal fine sarà presentata a Roma agli inizi di ottobre, per iniziativa di varie organizzazioni «umanitarie», una mostra fotografica finanziata dalla monarchia assoluta del Qatar e già esposta all’Onu e al Museo dell’olocausto a Washington per iniziativa di Usa, Arabia Saudita e Turchia: essa contiene parte delle 55mila foto che un misterioso disertore siriano, nome in codice Caesar, dice di aver scattato per incarico del governo di Damasco allo scopo di documentare le torture e le uccisioni dei prigionieri, ossia i propri crimini (sull’attendibilità delle foto vedi il report di Sibialiria e l’Antidiplomatico).
Occorre a questo punto un’altra mostra, per esporre tutte le documentazioni che demoliscono le «informazioni» della psyop sulla Siria. Ad esempio, il documento ufficiale dell’Agenzia di intelligence del Pentagono, datato 12 agosto 2012 (desecretato il 18 maggio 2015 per iniziativa di «Judicial Watch»): esso riporta che «i paesi occidentali, gli stati del Golfo e la Turchia sostengono in Siria le forze di opposizione per stabilire un principato salafita nella Siria orientale, cosa voluta dalle potenze che sostengono l’opposizione allo scopo di isolare il regime siriano».
Ciò spiega l’incontro nel maggio 2013 (documentato fotograficamente) tra il senatore Usa John McCain, in Siria per conto della Casa Bianca, e Ibrahim al-Badri, il «califfo» a capo dell’Isis. Spiega anche perché il presidente Obama autorizza segretamente nel 2013 l’operazione «Timber Sycamore», condotta dalla Cia e finanziata da Riyad con milioni di dollari, per armare e addestrare i «ribelli» da infiltrare in Siria (v. il New York Times del 24 gennaio 2016).
Altra documentazione si trova nella mail di Hillary Clinton (declassificata come «case number F-2014-20439, Doc No. C05794498»), nella quale, in veste di segretaria di stato, scrive nel dicembre 2012 che, data la «relazione strategica» Iran-Siria, «il rovesciamento di Assad costituirebbe un immenso beneficio per Israele, e farebbe anche diminuire il comprensibile timore israeliano di perdere il monopolio nucleare».
Per demolire le «informazioni» della psyop, ci vuole anche una retrospettiva storica di come gli Usa hanno strumentalizzato i curdi (**) fin dalla prima guerra del Golfo nel 1991. Allora per «balcanizzare» l’Iraq, oggi per disgregare la Siria. Le basi aeree installate oggi dagli Usa nell’area curda in Siria servono alla strategia del «divide et impera», che mira non alla liberazione ma all’asservimento dei popoli, compreso quello curdo.
(*) Ripreso dal quotidiano «il manifesto» – del 27 settembre – dove Manlio Dinucci tiene, ogni martedì, la rubrica «L’arte della guerra». Una rubrica che l’anno scorso è diventata un libro del quale non mi stanco di segnalare l’importanza: «L’arte della guerra: annali della strategia Usa/Nato (1990-2015)»; qui in “bottega” cfr 
Scivolando verso la catastrofe armata con la mia recensione (db).

(**) Sono un po’ sorpreso che Manlio Dinucci, sempre così preciso, parli genericamente di “curdi”… è abbastanza evidente che fra le popolazioni curde sparse in diversi Paesi vi sono forze politiche disponibili a fare da sponda agli Usa e a buttarsi in ogni impresa – purchè si possano mettere le mani su un po’ di petroliop e/o di denaro – mentre altri gruppi curdi organizzati da sempre lottano contro ogni imperialismo e dittatura. Mi piacerebbe che Dinucci tornasse sul tema per sciogliere questo equivoco. (db)

perché leggere un libro al giorno - Tai Lopez

Ahmed Nagi marcisce in galera, nel paese dove hanno ammazzato Giulio Regeni


Ahmed Nagi è stato condannato qualche mese fa a due anni di galera, non quella svedese, ma alla galera egiziana, a causa di un libro, o meglio di un capitolo, di un libro, apparso recentemente in italiano, Vita: istruzioni per l’uso (casa editrice Il Sirente).
qui racconta la storia Elisabetta Rossi, traduttrice del libro, e questo è il sesto capitolo, che è costata la galera ad Ahmed Nagi.
raccontare di droghe e sesso spalanca le porte della galera, torturare e ammazzare Giulio Regeni no, nel paese nostro amico.
ma in un articolo apparso qui, su http://www.madamasr.com/ (e pubblicato in Italia da Internazionale) si possono trovare le ragioni della condanna.

Addio alla gioventù in Egitto - Ahmed Nagi
Ho visto per la prima volta il mostro nel 2005, al Cairo, in centro, davanti al sindacato dei giornalisti. Si era radunata una folla di giovani, ragazzi e ragazze, che scandiva “kifaya!” (basta!). Il mostro è piombato giù dagli automezzi della polizia. Era in divisa militare, ma anche camuffato in abiti civili, e picchiava i dimostranti. I maschi venivano trascinati sul selciato, alle femmine venivano strappati i vestiti. È stato molto traumatico. Pensavamo che fosse la cosa peggiore che il mostro potesse farci.
Pensavamo che con l’amore, e incoraggiando gli altri a venire con noi per strada, saremmo diventati più numerosi, che dalle poche centinaia che eravamo saremmo diventati centinaia di migliaia, forse milioni. È così che avremmo sconfitto il mostro. I giovani sono ingenui, hanno buoni sentimenti e un cuore puro.
Avevo incontrato la stessa ingenuità cinque anni prima. Nel 2000 ero uno studente del liceo quando mi unii alle manifestazioni di solidarietà degli studenti con la seconda intifada, che era cominciata dopo due avvenimenti: il criminale di guerra e futuro primo ministro israeliano Ariel Sharon aveva visitato la moschea di al Aqsa scatenando la rivolta dei palestinesi, e un ragazzo di 12 anni, Mohammed al Durrah, era morto tra le braccia di suo padre sotto i colpi dell’esercito israeliano. I nostri insegnanti ci incoraggiavano a manifestare, ma loro non lo facevano. Sfilavamo in piccoli gruppi furibondi chiedendo libertà per la Palestina e giurando che non avremmo mai dimenticato Al Durrah. Le forze di sicurezza ci autorizzarono ad aprire i cancelli delle scuole e dei licei, e a manifestare in gruppi più numerosi percorrendo le strade di Mansoura, dove ho passato gli anni dell’adolescenza.
I ragazzini e gli studenti che mi circondavano erano pazzi di gioia perché avevano ottenuto il diritto di gridare. Per la prima volta si sentivano liberi per strada. Quando i gruppi di studenti in corteo s’incontravano si sorridevano in maniera un po’ scema, come dei bambini, e c’erano saluti e grandi scambi di abbracci un po’ troppo teatrali. A Mansoura, come nel resto del paese, le scuole sono separate per genere. Era straordinario vedere ragazzi e ragazze che si univano in queste manifestazioni, invece delle solite scene di studenti che aspettavano le ragazze davanti alle scuole per rimorchiarle, molestarle o stare un po’ con loro. Ma la folla, le urla e l’entusiasmo, anche se erano giustificati, mi tenevano lontano dal mio stesso gruppo di amici, per non parlare dell’ego improvvisamente gigantesco di qualche essere insignificante che s’improvvisava tribuno.
Cinque anni dopo mi ero laureato, e sapevo che al regime di Hosni Muba­rak quelle manifestazioni contro Israele erano piaciute. Le aveva sostenute e ogni tanto le aveva addirittura istigate. Mubarak voleva che le telecamere filmassero le folle infuriate mentre bruciavano la bandiera israeliana per poter mostrare quelle immagini e rivolgersi alle divinità sulle montagne di Oslo e nelle valli di Washington dicendo: “Finché io sarò qui controllerò questi mostri e gli impedirò di bruciare tutto”. Quando i cittadini hanno cominciato a scendere in piazza per protestare contro Mubarak, le forze di sicurezza erano pronte, e siccome non avevano di fronte dei mostri (non ancora) hanno fatto tutto quel che potevano per farli diventare tali: li circondavano, strappavano i vestiti alle ragazze e aggredivano sessualmente i ragazzi. Ma invece di diventare mostri, i manifestanti hanno preferito entrare in una logica perdente, abbracciando la condizione di vittime.
Ho sempre trovato noiosa la vita pubblica, come una serie di spettacoli teatrali brutti e sempre uguali ai quali siamo comunque costretti a partecipare: le elezioni, i limiti alla libertà in nome della religione e tutte le altre buffonate che tirano in ballo l’idea di nazione, c’invitano all’amore per la patria e ci spiegano come mostrarlo.
Ho conosciuto altre persone a cui tutto questo non piaceva per niente. Abbiamo deciso di fabbricarci le nostre menzogne su internet, una realtà virtuale che era fuori dal controllo delle autorità e in contrasto con il puzzo di chiuso dei nostri padri e dei loro vecchi princìpi morali.
L’Egitto stava attraversando tempi grandiosi. In tv tutti parlavano dell’arrivo della democrazia. Noi, in un angolo cieco dello sguardo dell’autorità, c’inventavamo piccoli luoghi d’incontro dove organizzare delle feste, le nostre feste, e suonare musica vietata alle radio e alle televisioni sia pubbliche sia private perché non parlava d’amore, di lunghe ciglia languorose o di tenerezza. È durante una di queste feste che Alaa Abdel Fattah mi ha proposto di creare un sito che prendesse in giro quello ufficiale del presidente. Ero incaricato di scrivere i contenuti. Facevamo giochi di questo tipo: ci chiudevamo nelle nostre bolle virtuali per sbeffeggiare il re nudo e deridere i cortigiani che continuavano a elogiare i vestiti.
Ho conosciuto la mia prima moglie in un forum online di ammiratori della musica di Mohamed Mounir. Eravamo adolescenti, non avevamo ancora diciotto anni, e in dieci anni spesso turbolenti abbiamo vissuto l’amore, il matrimonio e il divorzio, un ciclo di vita completo. Altri si sono conosciuti nei forum e nei blog dei Fratelli musulmani, dei Socialisti rivoluzionari, del club dei feticisti del piede, dei guerrieri di Bin Laden o su Fatakat, un blog per le casalinghe. Internet ci permetteva di stare lontani dai capelli eternamente neri di Mubarak. Era una nuova casa dove le persone con idee simili potevano ritrovarsi.
Il tenue ronzio delle discussioni di questi gruppi pian piano stava crescendo e i vecchi, con l’aiuto dei loro apparecchi acustici, se ne accorsero. Decisero che quel borbottio veniva da una gioventù occidentalizzata e insolente. Non prendevano sul serio quelle voci, forse non le capivano proprio. Il loro messaggio, comunque, era chiaro: “I vecchi cadaveri dovrebbero lasciare spazio a quelli nuovi”.
Gli zombi erano dappertutto. C’erano il generale zombi, lo sceicco zombi, il presidente zombi, l’imprenditore zombi, il partito di governo zombi, l’opposizione zombi, l’islamista moderato zombi e l’islamista radicale zombi. Quando sei giovane ogni zombi ti propone di diventare anche tu uno zombi e di lasciar perdere l’idea­lismo della morale e dei sogni. Non avevamo scelta, eravamo costretti a vivere con loro, parlargli, mostrarci affettuosi. A volte, per precauzione, elogiarli, diventare discreti e camminare tra loro, con le gambe rigide, le braccia tese e lo sguardo vuoto. Quando rendevamo chiaro il nostro disaccordo o rifiutavamo di ingozzarci con quelle carogne marce che sono le idee di patria e di religione, gli zombi ci rispondevano con la tortura, l’isolamento forzato o l’emarginazione.
“Dovete vivere come hanno vissuto i vostri padri”, dicevano gli zombi. Quella vita descritta tanto bene dal regista Shadi Abdel Salam nel film La mummia, del 1969: una vita da iene, con le ragazze che camminano per strada con le spalle curve in avanti e il capo abbassato senza guardare da nessuna parte, né a destra né a sinistra, mai. Devono lasciarsi rimorchiare e molestare senza lamentarsi, e quando rifiutano di sottomettersi agli zombi le accusano di usare il loro fascino per attirare i criminali e sedurli.
Quando sono cominciate le manifestazioni contro la brutalità e le torture della polizia, c’è chi s’è alzato per accusare i manifestanti di insultare le forze dell’ordine. Ma le proteste hanno continuato a crescere di dimensioni e d’intensità e alla fine hanno cominciato a chiedere la rimozione del leader degli zombi, il gran maestro della tintura per capelli. Gli zombi allora si sono riuniti per lanciare un appello ai giovani: “Cari fratelli, fate come se fosse vostro padre”.
I giovani hanno molti tratti comuni: la passione, l’ipersensibilità e la foga. L’eccesso di sensibilità può fare da carburante alla rivoluzione e far battere più forte il sangue nelle vene delle folle infuriate, ma può anche suscitare dei sentimenti di comprensione, pietà e tenerezza. È proprio per questa sensibilità che il periodo dopo la rivoluzione è stato guidato dal desiderio di riabilitare le vittime della repressione e vendicare la loro morte. Ma per questa stessa sensibilità i figli non hanno ucciso i loro padri zombi.
In molte immagini del libro fotografico di Pauline Beugnies, Génération Tahrir (Le Bec en l’Air 2016) si vedono accese conversazioni tra figlie e madri, tra giovani e vecchi. Le foto non possono trasmetterci il suono, il rumore delle discussioni, gli urli delle opinioni contrapposte. Ma ci mostrano con estrema chiarezza l’immensa autorità dei padri zombi e fino a che punto la generazione dei giovani resta prigioniera dei sen­timenti.
Conoscevo molti ragazzi e ragazze che non hanno esitato a scendere in strada, bruciare pneumatici e mettersi in prima linea nella battaglia contro gli elementi criminali delle forze di polizia. Ma appena il loro telefono squillava, si appartavano in un posto tranquillo per rispondere alla madre: “Sto bene, sono lontano dagli scontri”. Dovevano pensare che la ribellione potesse esistere in una realtà parallela, lontana dalla vita familiare. Ho conosciuto attivisti che si battevano per i diritti degli omosessuali e non temevano di sollevare la questione in una società conservatrice come quella egiziana, che difendevano questi diritti nelle aule di tribunale e davanti alla polizia, ma non riuscivano a trovare il coraggio di dichiararsi omosessuali davanti ai genitori. Ho delle amiche che hanno continuato a mostrare il dito medio alla polizia con la testa alta mentre gli sparavano delle pallottole di gomma, ma che piangevano per le pressioni dei genitori e della società e per la difficoltà di immaginare un futuro che non prevedesse il matrimonio, la maternità o l’integrazione nel ciclo di produzione degli zombi.
Questa esitazione vigliacca spiega perché la nostra generazione ha sempre cercato una via di mezzo, e alla fine è stata privata di tutto dai suoi padri. “Accogliete l’islam moderato, votate per Mohammed Morsi”, ci hanno detto i giovani islamisti. “L’islam è questione d’identità, una bella religione del giusto mezzo che può coesistere con la democrazia. La nostra identità nazionale non c’entra niente con la laicità”. E poi sono tornati i vecchi zombi, hanno detto che non c’era nessuna differenza tra i militanti dello Stato islamico e noi. Eravamo fratelli, dovevamo solo raggiungerli e combattere al loro fianco. Così i giovani democratici dell’élite urbana si sono precipitati tra le braccia di un governo civile guidato da un generale dell’esercito. Ci hanno spiegato che Al Sisi aveva occhi che irradiavano calore e affetto, e che avrebbe salvato la patria facendo diventare l’Egitto uno stato laico. Poi il generale ha proibito ogni dibattito, ci ha tolto la libertà di parola e ci ha sbattuto in galera. Quelli che sono rimasti fuori sono finiti bruciati nelle piazze o davanti agli stadi.
Il generale non era particolarmente intelligente, ma gli sceicchi del Golfo lo sostenevano con entusiasmo, loro, i rappresentanti delle divinità occidentali nella regione. Così gli sceicchi, gli zombi e il generale hanno deciso di togliere ai giovani anche lo spazio virtuale. E su internet è arrivata la censura. Oggi basta un piccolo tweet per finire in carcere. Hanno speso centinaia di milioni per trasformare la rete in un enorme centro commerciale, controllandone il contenuto con l’aiuto di squadre che invadono i social network e impongono delle nuove mode. Se emerge la storia di un nuovo caso di tortura nelle carceri egiziane, viene rapidamente sepolta sotto montagne di post e di clic sull’ultima metamorfosi del sedere di Kim Kardashian.
Qualche settimana fa ho cominciato ad avvertire un doloretto sordo al testicolo sinistro. Il medico mi ha detto che si tratta di varicocele. Mi ha consigliato di non restare in piedi troppo a lungo, di ridurre i rapporti sessuali e di astenermi dalle erezioni prolungate. Quando gli ho chiesto la causa del problema, si è limitato a rispondere, senza alzare gli occhi dal giornale: “Di solito è ereditario. Ma anche invecchiare non aiuta”.
Niente più erezioni prolungate per la nostra generazione. Siamo dispersi in tutto il mondo. Alcuni sono in carcere, altri in esilio. Altri ancora sono pronti ad annegare nel Mediterraneo, o puntano a uscire dall’inferno e raggiungere il paradiso costruendosi una scala di teste tagliate che arriva fino a dio. Quelli che sono rimasti hanno provveduto ad assicurarsi un posto tra gli zombi. Appaiono in televisione come rappresentanti dei giovani, si scattano selfie con generali zombi e sceicchi zombi, e fanno a gara per accaparrarsi le briciole lasciate cadere dagli emiri e dagli sceicchi del Golfo.
Ora è arrivato il momento di documentare, registrare e archiviare quel che è successo. E poi dobbiamo dire addio al nostro passato e alla gioventù.
Diciamo addio ai nostri dolori e ai nostri affanni. Cerchiamo, da dentro, una nuova strada e una nuova rivoluzione. Il pericolo più grande è quello di abbandonarsi alla nostalgia, alle vecchie idee e ai vecchi princìpi, di immaginare che nel passato esista un’età dell’oro, un momento di purezza da ritrovare. Il pericolo più grande è venerare un’immagine. Qualunque forma di venerazione – della rivoluzione, dei martiri o dei valori superiori delle grandi ideologie – rischia di trasformarti in uno zombi senza che tu nemmeno te ne accorga.
(Traduzione di Giuseppina Cavallo)


qui si può vedere il film citato nell’articolo:


(così ne avevo scritto nel 2010:
Un film del 1969, di Shadi Abdel Salam, prodotto da Roberto Rossellini. Un film diverso da quelli che vediamo di solito, un capolavoro, che, diceva un critico, non fa ridere gli egittologi. Dentro ci sono molte cose importanti, chi avrà la pazienza di vederlo anche solo da Internet non resterà deluso, è Cinema)

al Cairo, esposizione delle tavole ispirate al libro:



martedì 27 settembre 2016

Mia figlia follia - Savina Dolores Massa

Maddalenina è sola, e inutile, abbandonata da tutti.
forse puzza, disturba, dice fesserie, la scema del villaggio, sopportata.
vive nei suoi pensieri, e quello che fa, pensa e immagina è vero, per lei.
una storia tragica, quella di Maddalenina, tutti pensano che sia pazza, Savina Dolores Massa no, non la abbandona e non pensa che sia pazza, solo diversa.
Maddalenina ha vissuto, se prendete il libro e leggete la sua storia la conoscerete.
buona lettura - franz





inizia così:

Ho deciso che le bambole e le persone sono diverse. Le mancavano i capelli da una parte, forse glieli aveva mangiati un cane. Gli occhi sembravano come i miei quando li apro molto molto per farci stare più cose. I suoi occhi erano azzurri. Non credere, figlia mia, che gli occhi azzurri sono più belli di quelli neri. Gli occhi decidono il colore: se si nasce di notte sono neri, se di giorno azzurri. Chi ha gli occhi verdi è perché non voleva nascere né di giorno né di notte, ma è nato per forza e quelli si è trovato.


…L’ho scoperta leggendo “Mia figlia follia”, romanzo in cui i personaggi si muovono annusando e interpretando l’aria come si faceva un tempo da bambini, quando scendevamo giù al fiume a inseguire lucertole e formiche, in pomeriggi estivi di salsedine e sudore, terra arida nuvole e sole. Questa l’atmosfera in cui dispiega le sue ali Maddalenina, una cinquantenne bambina che: “prova ad avere un mondo nel cuore e non riesce a esprimerlo con le parole, (mentre) la luce del giorno si divide la piazza tra un villaggio che ride e lo scemo, che passa, e neppure la notte (la) lascia da sola / gli altri sognan se stessi e (lei) sogna di loro”. Così forse l’ avrebbe cantata F. De Andrè. Le fa da specchio Maria Carta, l’aggiusta ossa, una sorta di madre elettiva, che la ascolta divenendo cassa di risonanza dei suoi pensieri. La loro lingua ricama la vita strampalata che si dipana intorno al cortile, e se è amorevolmente strasbagliata, è incredibilmente umana e incisiva: lingua impastata con dosi perfette di italiano e dialetto; capace di dipanarsi secondo il ritmo sincopato di un “susino secco”, che forse non è secco, mentre si sviluppa l’epopea di una piccola città, metafora del mondo intero. "Qualcuno, potrebbe chiedermi: «Ma, tu, non fai altro che parlare del villaggio?». Bene, gli risponderò che Tolstoj, Leone Tolstoj, mi ha detto all’orecchio: «Descrivi il tuo villaggio e diventerai universale; se cerchi di descrivere Parigi, diventerai provinciale». Così Francesco Masala, spiegava la sue scelta di raccontare la vita di Arasolè, in appendice al suo romanzo “Quelli dalle labbra bianche”.
Allo stesso modo non è provinciale l’umanità che si dispiega fra le pagine di “Mia figlia follia”, dove creature ricche di sentimenti, ma anche tignose e fragili, rappresentano uomini e donne che lottano per la sopravvivenza in un arcano mondo che ondeggia fra l’onirico e il concreto, personaggi che si definiscono attraverso pezzi di vite altrui. Briciole di pane che, passando di bocca in bocca, anzichè consumarsi divengono pagnotta grassa e fumante. Così L’amore fatto di illusione e rimpianti si affastella in un particolare universale che, sa di magico Il tanto necessario a far intuire fantasmi di Janas. Tutto questo in un Ballo tondo che chiude il cerchio entro cui si agita la vita.


La storia si svolge in un tempo e in un luogo indefiniti, ma non del tutto, per chi conosce luoghi e personaggi dei luoghi. Il racconto è percorso da un dialogo costante con Maria Carta, un’anziana guaritrice, muta: dunque, non propriamente un dialogo ma l’interlocuzione con un’alterità che potrebbe definirsi memoria comunitaria, che si dipana lentamente compattando una sorta di tessuto connettivo della storia. O meglio, delle storie, robustamente descritte che s’intrecciano esplodendo, da ultimo, come bengala nella nera notte dell’epilogo imprevisto del romanzo, di cui non diremo.
Una storia, come in Undici – precedente romanzo dell’autrice – che non racconta di un’umanità baciata dalla fortuna e del successo, ma di quella ai margini, miserabile, imperfetta e respingente. Deandreianamente, del resto, è “dal letame (che) nascono i fiori”. Eppure proprio quel fondo creaturale che tutti accomuna, negli istinti (“E’ possibile che l’istinto sia l’unico sentimento sincero, fra i tanti esistenti?”) e nei sentimenti, sa renderci partecipi delle vite e dei destini dei protagonisti, della loro sofferenza e disillusione, dell’immancabile declino della parabola esistenziale.
La scrittura è uno dei punti di forza di questo romanzo, con la sua affabulazione giocosa e godibile, la fluidità del dettato, l’originalità e forza descrittiva; ne avvertiamo la distanza da certo immaginario scontato e prevedibile, dalla povertà sintattica che contraddistingue molta narrativa seriale. Uno stile maturo e sicuro, insomma, anche nell’azzardo inventivo.



In un’ora qualunque del principio dell’anno che scorre, ricevetti una telefonata. Signora Massa?, Sì, risposi, un po’ stranita e preoccupata. Mi chiamano tutti Savina quelli che mi telefonano. La voce d’uomo proseguì, Sarebbe disposta a partecipare ad una Rassegna Letteraria che sto organizzando nella provincia di Olbia?, Volentieri, fu la mia risposta, Bene, le comunicherò più avanti i dettagli.
Questo avvenne.
L’anno continuò a scorrere tra laboratori, presentazioni dei miei romanzi, spettacoli teatrali, preparazione di copioni, desideri di ricci, baci appassionati al mio cane Gnu, caminetto spento per assenza di legna da ardere, letture di libri, telefonate con chi mi chiama Savina, insomma, tutte quelle cose che fanno le persone. Comprese, quando è possibile, le pennichelle del pomeriggio. Da una di queste ultime fui risvegliata malamente dallo squillo del telefono, a marzo. Signora Massa? Sì, risposi, un po’ stranita, attaccata all’ultimo malosogno e preoccupata: mi chiamano tutti Savina quelli che mi telefonano. Sono Massimetti. Dunque dunque, era il mio pensiero agitato, Chi sarà mai questo signor Massimetti. Dormivo ancora, la voce impastata simile a quella della mia tartaruga d’acquaquando si risveglia dal letargo e chiede, Gamberi. Ma si ricorda di me?, dice il signor Massimetti, Le chiesi di fare una presentazione del suo romanzo nella provincia di Olbia. Mentre cerco di risvegliare la memoria, immagino la faccia di Massimetti stizzita perché evidentemente non lo ricordo e prima di rispondere un cortese bugiardo, Sì, ho il tempo di associarla, la sua faccia, a quella della mia tartaruga d’acqua quando si risveglia dal letargo e chiede, Gamberi, e io le rispondo, Non ce n’é. Provo con astuzia a condurre il signor Massimetti verso la concretezza della questione, così che io possa concedergli risposte assennate. Ricorda?, mi dice ancora. Sì sì, rispondo e intanto provo a farmi una sigaretta necessaria ogni qual volta mi telefona un estraneo. Che non mi chiama Savina e quindi mi mette in allarme. Lui prosegue, La Rassegna prevede una serie di incontri con gli autori nelle scuole superiori della provincia di Olbia. La sua presenza con il romanzo Mia figlia follia è prevista per il 14 aprile in un Liceo di Arzachena. Con il cordless tenuto tra orecchio e clavicola, con cartina filtro e tabacco in una mano, la testa del mio cane che non mi abbandona mai nell’altra, io mi sposto verso il calendario per verificare se il giorno 14 di aprile io non possa essere in qualche altro angolino e, Va bene, sono libera. Ormai sono sveglia e lucida quanto basta per fissare un impegno. È possibile che lui, all’altro capo del telefono, abbia udito suoni di antri pitici e guaiti di cane e urla di tartaruga che in quei giorni ancora dormiva ma che, seppure in sogno, chiedeva distintamente, Gamberi! Insomma, per non farla lunga, visto che lunga la farò più avanti, il signor Massimetti direttore artistico della Rassegna Letteraria “Sfogliare con classe” mi domanda l’indirizzo e-mail perché tutto sia chiaro per iscritto, perché probabilmente ha creduto che una che intitola un romanzo Mia figlia follia, qualche rotella l’ha perduta di sicuro. Conclude la telefonata dicendomi, Signora Massa, guardi che la nostra è una Rassegna seria, se conferma la sua presenza non può mancare. Signor Massimetti caro signor Massimetti, io sono una persona seria, ecco che cosa dissi nel salutarlo. Pensai anche di chiedergli se gli piacevano i gamberi, ma non lo feci.
Nei giorni successivi io e il signor Massimetti ci scambiammo le promesse di fedeltà tramite posta elettronica. A onor del vero devo anche confessare che chiesi al Direttore Artistico un rimborso benzina, non lo faccio mai, ma Arzachena dista dalla mia città ben 197 Km, e non è questo periodo di vacche grasse. Mi rispose, Certamente, avrà un rimborso di 30 euro. Accettai abbastanza umiliata. Forse con 30 euro di benzina sarei riuscita a raggiungere Arzachena, e dico forse. Certamente non sarei potuta tornare, ma è possibile che questo ai direttori artistici e a chi promuove Rassegne non importi. Né importerà di sicuro che la mia tartaruga d’acqua potrebbe essere più felice, potesse mangiare gamberi di tanto in tanto.
Perché vi sto raccontando tutto questo? Perché amo narrare storie, io. E non ho il dono della sintesi. La sorte mi ha donato molte parole in testa, e ringrazio. La sorte mi ha donato anche la lingua, e fino a quando ci sarà libertà d’espressione in questo nostro Paese in disuso, la userò. In data 6 aprile il signor Massimetti mi telefona “mortificato” (lo riconosco subito), e mi dice, L’Assessore alla Cultura della Provincia di Olbia, Giovanni Pileri, che avrebbe dovuto presentarla con il sottoscritto, ha chiesto la sua esclusione dalla Rassegna in quanto reputa “osceno e pericoloso per le menti dei ragazzi della scuola” il suo romanzo Mia figlia follia. Alla mia domanda, Quali sarebbero le parti pericolose?, il signor Massimetti “afflitto” risponde, La scena di un incontro carnale omosessuale.
Bene, il mio carattere mi ha spinta inizialmente ad un fragoroso scoppio di risa. Poi. Poi ho sentito qualcosa mordicchiarmi il fegato. Sembravano dentini di topo. Poi ho annusato nell’aria un, e questo davvero osceno, tanfo di censura, di offesa, di focherello su un romanzo e di intervento improprio su una scelta letteraria compiuta da altri (il signor Massimetti – direttore artistico).  Con denaro pubblico. 
Come verrà giustificata la mia assenza pubblicizzata in locandina? La signora Massa è stata colpita dalla lebbra? È improvvisamente deceduta mentre faceva orripilanti giochi erotici con un Cero? Incornata da un toro? Divorata da locuste affamate? Affogata da una torta ai pinoli? 
O scomparirò come una brutta malattia dalla locandina?
Il mio romanzo può piacere o meno: su questo nulla da dire. Ma nel momento in cui la mia scrittura è stata scelta, ritengo indecente un intervento “dall’alto” per farmi tacere. Per far tacere qualunque espressione letteraria, anche quando è piccola come la mia. Tutto qui. Sono arrabbiata? Molto. E non per la mia persona che, fortunatamente, ha ancora cento spazi per esprimersi, ma per il gesto poco nobile verso la libertà del linguaggio nella letteratura e non solo. Sono arrabbiata quando penso “alle menti dei giovani” deliberatamente tenute distanti dalle verità della vita. Deliberatamente fatte immergere in ben altri “osceni” contesti di finzioni. 
Per chi non ha voluto comprenderlo, aggiungo che il sincero significato del mio romanzo è la denuncia verso qualunque forma discriminatoria, assieme alla protezione delle differenze. Ciò che ha vissuto Mia figlia follia è un piccolo esempio di quanto ancora ci sia da parlare. Se, si potrà parlare. 
Questo mio intervento lo dovevo a Maddalenina, protagonista del romanzo, donna scacciata da una parola di moda in questi tempi, Vattene.


Tommy Emmanuel suona la chitarra





L’oscena ipocrisia di fronte al Sultano - Alessio Di Florio

  
Se non fosse che sono avvenimenti drammatici e disumani, e che siamo di fronte al rischio di un velocissimo precipitare nella peggior china che la storia abbia mai conosciuto, potremmo quasi scambiarla per una moderna versione comica dello smemorato di Collegno. La narrazione, o presunta tale, del “fallito golpe” in Turchia a metà luglio e degli eventi successivi di larga parte della classe politica e dei grandi media sta portando avanti un vero e proprio teatrino. E che può essere definito solo nella maniera più negativa consentita dalla lingua italiana. Un teatrino che sarebbe già grave se fosse animato solo da incapacità di lettura e di conoscenza. Ma che purtroppo è ancor peggiore, perché guidato da ben precisi interessi speculativi, economici e politici. Nella notte del “fallito golpe” abbiamo sentito giornalisti annunciare che Erdogan era finito, che apparteneva al passato, malcelando la soddisfazione per la vittoria degli alfieri della libertà e della laicità. Tempo qualche ora e si è passati alla celebrazione della vittoria della democrazia e di Erdogan. Ora, sono giorni e giorni che ci raccontano delle retate, delle preoccupazioni per i diritti umani violati, delle torture, del timore che Erdogan possa portare la Turchia verso un suo dominio assoluto.
Quest’indignazione prêt-à-porter, questo improvviso stupore per quanto sta accadendo in Turchia, è una delle apoteosi del teatrino. Erano il 1998 e il 1999 quando vennero pubblicati due libri (oggi quasi introvabili), L’Utopia incarcerata, Diyarbakir, Kurdistan: le “loro” prigioni Se questa è Europa. Viaggio nell’inferno carcerario turco. L’autore è lo stesso, Dino Frisullo, così come identica è la vicenda che vi viene raccontata:  i quaranta giorni nelle carceri turche dopo l’arresto durante le celebrazioni del Newroz (il capodanno kurdo) 1998. La repressione del popolo kurdo e degli oppositori, il divieto persino di parlare la lingua curda (basti pensare a quel che ha subito Leyla Zana negli anni), la brutalità carceraria erano già quotidianità della Turchia in quegli anni. Ma l’Italia, e le cancellerie europee, hanno sempre poco più che ignorato quel che stava accadendo. Continuando a raccontare la favoletta della Turchia grande alleato “moderato” che presto sarebbe anche entrato nell’Unione Europea. Eppure basta scorrere le rassegne stampa per scoprire che chiusure di televisioni e giornali, arresti di oppositori e giornalisti indipendenti, non sono certo iniziati dopo il “fallito golpe” ma sono quotidiani esercizi del potere politico turco.

Mentre Dino alzava la voce della denuncia dal carcere di Diyarbakir, ci fu un “alto esponente” del nostro Paese che chiese al governo turco “tenetevelo quel comunista” con disprezzo. Qualche mese dopo l’Italia permise l’arresto di Ocalan, il più rappresentativo leader curdo. Un anno dopo, tra i commenti sprezzanti e offensivi di parte della classe politica italiana, fu concesso l’asilo politico al leader curdo. Ma chi lo ha letteralmente tradito, permettendone l’arresto, non è mai stato chiamato a risponderne. Oggi Ocalan, dopo che per anni i suoi legali hanno denunciato le condizioni in cui sopravvive nel carcere di Imrali, è detenuto in un isolamento sempre maggiore. Per cinque anni non ha potuto ricevere visite neanche dalla famiglia, per due dai suoi avvocati. I kurdi sono gli unici finora che combattono (e hanno battuto) l’Isis sul campo. Ma la Turchia che li bombarda e reprime è sempre rimasta un “alleato fedele e moderato” (senza dimenticare che esistono inchieste e documentazione del sostegno e appoggio verso l’Isis stesso dal territorio turco …), e il principale partito kurdo nella lista nera del “terrorismo internazionale”.  A gennaio Istanbul è stato teatro di un attentato, immediatamente condannato dal leader dell’HDP Demirtas. Eppure per ore e ore stampa e televisioni italiche ogni “treperdue” hanno nominato e tirato in ballo  i curdi, il PKK, i marxisti-leninisti (mancavano solo gli anarchici… ), senza mai citare le dichiarazioni di Demirtas. L’unico concetto che si è saputo esprimere è che forse (ma senza molta convinzione) l’attentato non è opera di terroristi curdi, del PKK o marxisti-leninisti e che sono tra i nemici della Turchia, alleato Nato a rischio destabilizzazione per colpa del “Califfato” ma anche dei curdi (perché l’Isis e chi li combatte per lor signori pari sono). Tornando al dopo “golpe fallito” è da notare che le “preoccupazioni” e gli “allarmi” per la “deriva autoritaria” di Erdogan non è ancora stata seguita (in nessuno dei parlamenti nazionali, Italia compresa, e in quello europeo) da alcun atto col quale chiedere la fine dell’accordo col quale l’Unione Europea sta regalando alla Turchia oltre 6 miliardi per fare da gendarme dei migranti.
E proprio il comportamento di certi esponenti “politici” italiani nei confronti del terrorismo Isis è un’altra faccia della stessa medaglia. Continuano, per meri interessi politici di piccola bottega, a ripeterci lo stesso mantra dal 2001 ad oggi. Ma la loro “guerra permanente” non ha fatto altro che alimentare il terrorismo, massacrare milioni di persone nel mondo e renderlo più insicuro. Anche se non lo ammetteranno mai, gli unici in questi anni ad aver preso decisa posizione contro i terrorismi e ad aver cercato di impegnarsi nell’opposizione sono stati i pacifisti, i difensori dei diritti umani, coloro che si impegnano contro le guerre e le sue criminali conseguenze. Continuano a chiedere al “mondo musulmano” di prender posizione, ignorando le tantissime che in questi anni ci son state eccome (una delle prime voci contro il massacro di Rouen è stata del locale imam che ha ricordato gli ottimi rapporti, e le collaborazioni, con il sacerdote assassinato). Posizioni così numerose che in queste settimane la Giorgio Pozzi Editore ha pubblicato un libro che raccoglie solo fatwe “delle autorità religiose musulmane contro il califfato di Al-Baghdadi”. Offendono e denigrano tutti coloro che non si arruolano nella loro pseudo-guerra santa, soprattutto cattolici, che accusano di tacere sui massacri di cristiani nel mondo. Eppure continuano ad affermare, dopo l’assassinio brutale di padre Jacques Hamel, che per la prima volta il “terrorismo islamico” ha colpito una Chiesa e un sacerdote. Ignorando quel che accusano altri di ignorare. Nel dicembre scorso fu arrestato un militante francese di estrema destra (pare ex iscritto al Front National) con l’accusa di aver fornito alcune delle armi della strage a Charlie Hebdo. Perché non è mai stato chiesto a Marine Le Pen e alla destra francese di dissociarsi? I grandi sponsor e finanziatori di Daesh sono da cercarsi anche tra lepetromonarchie alle quali Stati Uniti e stati europei (Italia compresa) vendono armi a tutto spiano.  Quando un’interrogazione parlamentare mesi fa sollevò il caso alla ministra Roberta Pinotti, la risposta fu che è tutto legale e regolare. E finì là. Nessuna indignazione, nessuna richiesta di dissociarsi, nulla di nulla. Diritti umani, violazioni della libertà, repressione, sostegno al terrorismo, a nulla fu dato peso. È tutto “legale e regolare”. Come con la Turchia in questi anni.

lunedì 26 settembre 2016

Il presidente nuovo sarà quello vecchio - Antonio Tricarico


La settimana scorsa è scaduto il termine per la presentazione delle domande per l’ambita posizione di Presidente della Banca mondiale. L’unico a farsi avanti su proposta del governo statunitense – serve infatti un esecutivo che avanzi le candidature – è stato proprio l’attuale capo dell’istituzione, Jim Yong Kim. Dopo i cinque anni al vertice, Kim si affaccia al secondo mandato senza avere rivali. Una farsa che in Banca mondiale va avanti da parecchi anni, dal momento che per tradizione è il governo americano di fatto a nominare il Presidente – così come i governi europei “indicano” il Direttore del Fondo monetario internazionale.
Questa volta tutti si attendevano che emergesse un candidato più forte e credibile. Anche perché Kim ha clamorosamente fallito. Il dottore americano di origini sudcoreane, fortemente voluto da Barack Obama per il suo passato nella lotta all’Hiv, ha infatti deluso tanti, che ne hanno chiesto le dimissioni, o quanto meno un non rinnovo del suo mandato. In primis l’Associazione dello staff della Banca stessa, che ha criticato ferocemente la sua riforma della struttura interna e la mancanza di leadership su molti dossier. Inoltre Kim è stato giudicato in maniera negativa da diverse organizzazioni della società civile internazionale, che sotto la sua guida hanno constatato un annacquamento delle politiche ambientali e sociali, un utilizzo di nuovi strumenti finanziari opachi e un ritorno del sostegno alle grandi dighe in Africa e altrove, progetti che comportano spesso pesanti impatti ambientali e sociali. Kim ha fatto inorridire molti attivisti quando recentemente ha affermato che lo sviluppo comporta inevitabilmente spostamenti di massa.

Per dovere di cronaca va aggiunto che mai come negli ultimi cinque anni la Banca mondiale ha vissuto accesi conflitti Nord-Sud al suo interno, o per meglio dire paesi occidentali contro paesi emergenti. Diversi dossier sono stati fermati proprio dall’opposizione dei governi del Sud globale che oramai contano davvero, Cina in primis.
Nonché la World Bank per la prima volta vive la competizione di nuove istituzioni finanziarie internazionali create fuori dall’orbita statunitense, quali la Banca Asiatica per gli Investimenti nelle Infrastrutture e la Nuova Banca di Sviluppo dei paesi BRICS. Una competizione tutta geopolitica, più che riguardo cosa queste realtà vogliano finanziare, dal momento che parliamo sempre di grandi opere vecchio stile condite della solita ideologia liberista – vedi il nuovo mantra del settore privato come unico e indiscutibile motore di sviluppo.

Così la “vecchia” World Bank compete al ribasso, anch’essa tornando a finanziare mega opere infrastrutturali, facendo un po’ meno attenzione all’ambiente e ai diritti sociali, non parlando di diritti umani per non urtare le sensibilità di alcuni, sebbene a parole la difesa del clima e dei diritti delle donne sono la priorità. Che succederà a questo punto? Kim facilmente otterrà il secondo mandato, già agli incontri di ottobre di Banca e Fondo monetario. Per i governi del Sud una Banca mondiale debole, ma che presta sempre tanto, è utile. I paesi del Nord, quali quelli europei, cercano sempre di prendere sufficienti appalti per le loro imprese, cercando di far contribuire un po’ di più i paesi emergenti. Insomma, tutto cambi affinché nulla cambi alla Banca mondiale.

domenica 25 settembre 2016

Hei, c'è un cane che ha morso un uomo - Emanuele Giordana



Ci sono notizie di serie A e notizie ritenute di serie B che non leggeremo mai anche se riguardano milioni di lavoratori indiani nello sciopero quantitativamente più grande del mondo. Milioni di bambini in fuga. Milioni di afgani sfollati. Milioni di risarcimenti che non arrivano. Oscurati dall’arrivo sul mercato del nuovo iPhone o dalla somiglianza con una star 

Dice un vecchio adagio che se un cane morde un uomo non è una notizia ma solo un fatto logico e abitudinario. Se invece un uomo morde un cane allora c’è quell'elemento di “notiziabilità” che le fa meritare un titolo. Anche in prima pagina. Ma non è vero. Se, come dicono i manuali di giornalismo, una notizia è tale se è una novità, se è importante per il grande pubblico, curiosa, stimolante e numericamente consistente, allora c’è qualcosa che non va nell’informazione mainstream. Forse è sempre stato così, perché dietro alla pubblicazione di una “notizia”, c’è sempre una scelta umana, ma oggi può bastare la nascita dell'ultimo telefonino per oscurare 150 milioni di indiani in sciopero o la somiglianza con Angiolina Jolie per far apparire la giovane curda Asia Ramazan Antar la clone di una star e non una combattente che ha sacrificato la vita per difendere la sua gente. Moralismo? No, solo senso della realtà e… della notizia. Facciamo qualche esempio. Esempi che hanno – non sempre – scatenato di recente sane e furiose reazioni in Rete, nel mondo virtuale dove girano valanghe di bufale ma anche un’attenzione critica che prima non aveva canali per esprimersi

Iphone e cortei

Il 2 settembre scorso in India, qualcosa come 150 milioni di lavoratori sono scesi in sciopero. 150 milioni (180 secondo altre fonti) non sono pochi nemmeno per un Paese che conta oltre un miliardo e 250 milioni di anime, considerato che nell’Unione, tra l’altro, i lavoratori sindacalizzati sono solo il 4% della forza lavoro. Il17mo sciopero generale indiano, da che nel 1991 l’economia è stata liberalizzata, sarebbe stato il più numericamente importante nella storia del Paese. Ma, notava il sito Alertnet, la vicenda non ha “bucato il video” come si dice in gergo: «La sensibilità dei singoli giornalisti – scrive il professor Vijay Prashad - solo raramente sfonda il muro di cinismo costituito dai proprietari dei media e dalla cultura che vorrebbero creare... Per loro le lotte dei lavoratori sono un inconveniente… lo sciopero è un disturbo, un fastidio trattato come arcaico, un residuo d’altri tempi e non il mezzo necessario per esprimere frustrazioni e speranze. Bandiere rosse, slogan e discorsi son vissuti con imbarazzo. Ed è come se, girando lo sguardo altrove, in qualche modo si riuscisse a farli sparire». Lo sciopero per altro è andato benissimo: dai lavoratori del Gujarat, dove il premier Narendra Modi ha iniziato la sua scalata politica, ai tessili del Tamil Nadu o ai metalmeccanici del Karnataka; bancari, autisti, operai delle aziende elettriche, impiegati. Ma senza copertura o con giusto qualche richiamo con foto. L’obiettivo non era secondario: a parte le rivendicazioni locali, l’insieme degli scioperanti rivendicavamo maggior democrazia e tutele ambientali sul posto di lavoro e una miglior distribuzione della ricchezza. Con un manifesto in 12 punti di cui, alla viglia dello sciopero, il governo aveva accettato qualche minima richiesta. Non sufficiente a fermare la chiusura delle fabbriche.


C’è chi fa le pulci

Fair, un’associazione americana che dal 1968 si occupa di censura, accuratezza e parzialità dei media, ha fatto le pulci anche ai giornali non indiani: non una menzione dai network americani Abc, Cbs, Nbc, Cnn, Fox, Msnbc. Npr. Anche giornali importanti come New York Times, Washington Post o USA Today si sono limitati a riprendere note d’agenzia, per altro scarse. Nessuno aveva sentito il bisogno di far muovere inviati o corrispondenti. In Italia? Lasciamo perdere.

Se si esclude qualche sito specializzato (anche italiano), 150 milioni di persone in sciopero semplicemente non c’erano. Oscurate. Da cosa? Fair fa un parallelo con la notizia dell’imminente uscita dell’ultimo iPhone di Apple. «Questo – scrive il direttore di Fair.org, Jim Naureckas - fa notizia»: per Cbs nel suo programma Money Watch e così per Npr nelle rubriche Morning Edition e All Things Considered. Iphone guadagna un titolo di prima in USA Today e nel Wall Street Journal o nella business section del New York Times.

Bambini in fuga

Anche i minori, nonostante sia un tema che suscita almeno compassione, sono abbastanza oscurati. Poca luce per l’ultimo rapporto su bambini e adolescenti “sradicati” appena pubblicato dal Fondo dell’Onu per l’infanzia che spiega come quasi 50 milioni di ragazzi e bambini attraversino frontiere o scappino dai conflitti. E’ un calcolo “prudente” dice un rapporto che segnala come 28 milioni di ragazze e ragazzi di età compresa tra 0 e 18 anni abbiano dovuto scappare da violenza e insicurezza, mentre altri 20 milioni – accompagnati o soli – hanno comunque dovuto abbandonare le loro case: «Rifugiati, sfollati interni o migranti – scrive Unicef – però, prima di tutto, bambini: senza eccezione e senza che sia importante chi siano e da dove vengano». Nel 2015 la maggior parte fra loro proveniva da dieci Paesi ma il 45% di tutti quelli sotto mandato dell’Acnur hanno origine da due sole nazioni: Siria e Afghanistan. Della Siria siamo abbastanza consci ma dell’Afghanistan assai meno perché quella guerra è ormai uscita dai riflettori. Oscurata dall’indifferenza per un conflitto considerato chiuso. Eppure ogni giorno alle frontiere afgane si affacciano migliaia di persone, bambini compresi, che la nuova politica pachistana sta cacciando dal Paese dove, dall’invasione sovietica, si sono installati 2,5 milioni di afgani, un milione dei quali senza documenti.

Sfollati afgani


Secondo il sottosegretario generale per gli Affari umanitari (Ocha) Stephen O’Brien è necessario un intervento urgente per far fronte a quello che si pensa potrebbe presto essere il numero degli sfollati che attraversano la frontiera col Pakistan : un milione di persone entro dicembre. L’inverno, ha detto O’Brian, rischia di vedere centinaia di famiglie esposte con un flusso dalla frontiera pachistana di 5mila persone al giorno (già 245mila dall’inizio del 2016) che si aggiungeranno al milione di sfollati interni, in una situazione in cui 2,7 milioni di persone sono malnutrite: fra queste, un milione di bambini sotto i 5 anni. 120mila tra loro rischiano di morire di fame. Uscita se non altro su alcuni giornali locali, la notizia ha fatto rimandare a marzo la scadenza che i pachistani avevano fissato per i rimpatri. Il milione di sfollati è per ora rimandato a primavera.

Talebani sempre cattivi

Se restiamo in Afghanistan c’è anche un’altra notizia che è stata completamente oscurata. Anche dalla stampa locale: la smentita dei talebani sull’azione di commando che lunedi 5 settembre ha semidistrutto un ufficio dell’Ong “Care” a Kabul, dove alcuni militanti, con l’aiuto di un autobomba, avevano preso d’assalto Sharenaw, zona di ambasciate e Ong, sventrando diverse strutture. Care aveva messo le mani avanti sostenendo che a loro avviso l’obiettivo era altro e i talebani hanno chiarito che il target era «un centro di intelligence militare gestito dall’ex capo dell’intelligence dell'amministrazione di Kabul nella quale c’è anche una branca dello spionaggio straniero… la Ong ha sede in una strada della zona militarizzata e non aveva nulla a che vedere col piano. L’obiettivo – scrivono - non era Care International». Vero o falso che sia, la guerra afgana è anche una guerra di bugie visto che per il ministero dell'Interno l’obiettivo era senza dubbio Care pur se la Ong aveva smentito. I talebani hanno polemizzato anche con Amnesty, accusata per aver definito la loro azione un “crimine di guerra”. Amnesty però ha chiesto un’indagine indipendente per chiarire le responsabilità anche se purtroppo questo genere di proposte non vengono mai messe in opera. Restano, con tutte le altre, oscurate.

Incidenti ignoti


Anche l’esplosione alla Tampaco Folis in Bangladesh del 10 settembre è passata quasi inosservata. Come sempre in questi casi, il numero dei morti è andato aumentando sino ad arrivare a 26, un bilancio che potrebbe crescere. Il fuoco è divampato a Tongi, una quindicina di chilometri dalla capitale Dacca e c’erano almeno tre elementi di “notiziabilità”: il numero appunto delle vittime che, nel caso di esplosioni, tende sempre ad aumentare in seguito alle ustioni. Il fatto che la fabbrica lavorava per colossi internazionali come Nestlé o British American Tobacco. Il fatto che si tratta del più grave incidente da quello che nel 2014 uccise oltre mille persone nel collasso del Rana Plaza, un edifico che conteneva diverse fabbrichette tessili e che crollò perché la proprietà aveva deciso di innalzare l’altezza del palazzo. A ben vedere in realtà, nemmeno la vicenda Rana Plaza ebbe, soprattutto in Italia, una grande copertura mediatica. Figurarsi un incendio con “solo” 26 vittime. Fortunatamente del caso di sono occupate diverse associazioni e organizzazioni sindacali locali e internazionali che ormai tengono il Bangladesh sotto stretta sorveglianza. Worker Rights Consortium, International Labor Rights Forum, Clean Clothes Campaign, Maquila Solidarity Network hanno preso subito posizione chiedendo conto a Nestlé e Bat del perché facciano lavorare per loro azienda che non hanno standard adeguati di sicurezza. E’ per altro un caso  comune - come nella Tampaco Foils - l’esplosione di boiler e l’incendio che ne consegue che divora rapidamente strutture spesso fragili e inadeguate. Il problema è che che l’accordo sulla prevenzione degli incendi non prevede la prevenzione di queste esplosioni (Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh). Il caso Tampaco potrebbe essere la spinta a rivederlo.

A che serve una campagna

Stampa, televisione, radio possono fare molto. Ma ciò che fa davvero sono le mobilitazioni di associazioni e sindacati. Che a loro volta hanno però bisogno che i media si accorgano delle loro battaglie. I risultati si vedono. Grazie a una campagna durata quattro anni e dopo mesi di negoziato – raccontano alla Campagna “Abiti puliti” -  è stato raggiunto finalmente un accordo per il pagamento di altri 5 milioni di dollari di risarcimenti ai sopravvissuti e alle famiglie delle vittime del più grande disastro industriale del Pakistan, avvenuto l’11 settembre 2012. Vi persero la vita più di 255 lavoratori e oltre 50 rimasero feriti nell’incendio divampato nella fabbrica tessile Ali Enterprises a Karachi. Alcuni lavoratori arsero vivi dietro finestre sprangate e porte bloccate mentre altre rimasero inferme dopo essersi lanciate dai piani più alti. Adesso, il distributore tedesco KiK, unico acquirente conosciuto della Ali Enterprises, ha accettato di versare una quota aggiuntiva di 5,15 milioni di dollari nel fondo per la perdita di reddito, cure mediche e costi di riabilitazione per i feriti e i familiari delle vittime. Precedentemente KiK aveva pagato un milione. La nuova decisione si deve alla campagna promossa da National Trade Union Federation, Piler, IndustriALL Global Union, Clean Clothes Campaign e altre alleanze tra cui UNI Global Union. All’accordo hanno contribuito anche IndustriALL, l’International Labour Organization (ILO) e una richiesta del Ministro dello sviluppo e della cooperazione economica tedesco. Poche settimane prima dell’incendio, l’azienda aveva ricevuto la certificazione SA8000 dalla società di revisione Sai (Social Accountability International) che aveva affidato l’incarico all’ente di certificazione italiano Rina: Teoricamente la fabbrica aveva presumibilmente soddisfatto gli standard internazionali in nove aree, compresa salute e sicurezza. Teoricamente.