Anche
quest’anno è andato in scena lo spettacolo della prova di accesso al corso di
laurea in Medicina: 62.695 candidati per 9.224 posti disponibili. Una metafora dell’Italia, il “numero
chiuso”. Un marchio di fabbrica forgiato nel medioevo delle corporazioni e che
sopravvive al tempo, ai regimi poltici e ai contesti istituzionali. L’Europa ci
sta provando con i bagnini, ma la marea di bandiere inglesi issate sui
gabbiotti quest’estate fa pensare che la partita sia tutt’altro che chiusa.
Si dice
che la cultura liberale abbia vinto e domini oramai incontrastata in tutti i
paesi occidentali. Perlomeno,
così scrive il Financial Times. Il “numero chiuso”, su cui si basa il sistema
di accesso all’educazione superiore in Italia, è la prova che ci sono sacche di
resistenza proprio dove meno te lo aspetteresti. Il “numero chiuso” presuppone,
infatti, che qualcuno, in un Ministero o in un rettorato, sia in grado di
prevedere il futuro - tra dieci anni, poniamo - meglio di quanto non riescano a
fare i cittadini.
Sulla
capacità vaticinatorie dei tecnocrati illuminati e sulla loro abilità di
pianificare i flussi economici qualche dubbio è lecito, non foss’altro per l’imperitura
memoria dei “successi” conseguiti dai paesi del socialismo reale. D’altro
canto, sulla base di quale modello economico o sociologico si preveda una
riduzione della domanda dei servizi sanitari da qui ai prossimi anni? La popolazione sta invecchiando e con l'età aumentano le malattie
croniche. Questo, peraltro, accade a livello mondiale, non solo
nazionale.
Mancano le
aule e i professori? Sì, è vero sono anni che la “domanda” è superiore
all’offerta di posti disponibili (il rapporto è pari circa a 6 a 1). D’altro
canto, però, i consumatori sanno leggere la realtà e i suoi trend meglio dei
produttori. Si costruiscano quindi le aule, si assumano e si formino
professori, ricercatori. È un processo lungo? Sì, lo è, ma se non si inizia,
non si arriva mai. Altrimenti, si smetta con la retorica che non si investe sul
futuro e l'istruzione. Servono tanti soldi? Sì, ma i soldi ci
sono. Il bonus ai diciottenni, la decontribuzione, le altre misure di incentivo
alla produzione e agli investimenti “tradizionali” lo dimostrano. È
una questione di priorità, di sapere come spendere i soldi. Una politica
liberale dovrebbe guardare dove c'è la “domanda” per orientare l’”offerta” dei
servizi pubblici. Da duecento anni a questa parte abbiamo dimostrato che il
mercato è un sistema migliore di allocazione delle risorse rispetto alla
volontà del monarca o del sacerdote o del tecnocrate pianificatore. Perché
tornare indietro?
Tra l'altro,
se vogliamo continuare sulla strada del numero chiuso, perlomeno smettiamo di
dire ai nostri ragazzi che la loro casa deve essere il mondo e non il paesello
dove sono nati e cresciuti. Chi ha il coraggio di affermare
che in Inghilterra o in Cina, tra dieci anni, non ci sarà un posto per un nostro
laureato?
La
faccenda in realtà ha un puzzo vecchio, molto vecchio. La cultura delle
corporazioni prevede
infatti la creazione di monopoli, attraverso barriere all’ingresso. La
giustificazione tipica è quella di mantenere elevato il livello di qualità dei
servizi offerti al cittadino consumatore. Il che potrebbe anche starci - per un
numero ristrettissimo di attività altamente specialistiche - se le regole
fossero puramente meritocratiche e la qualità venisse controllata non solo
all’ingresso ma anche nel durante. E invece troviamo una esplosione di
corporazioni anche nei settori meno specialistici. Dinastie di faramcisti,
notai, bagnini. E poi nelle corporazioni si entra ma non si esce mai. Alzi
la mano chi ha visto un ordinario di Università andare ad insegnare in un liceo
o in una scuola media dopo anni di comprovata sterilità scientifica.
Quante
volte abbiamo sentito ripetere «siate affamati, siate folli»? Non c’è un politico “giovane”, un
manager “giovane” o un tecnocrate con il complesso dell’imprenditore mancato
che non l’abbia pronunciata o abbia sognato di farlo alla prima convention
utile. I giovani italiani, quelli giovani veramente, si trovano invece le porte
sbarrate. Lo sappiamo tutti che nella vita quello che conta è la
determinazione. E un elemento fondamentale per la determinazione è provare a
realizzare il proprio sogno, anche per quanto riguarda il corso degli studi.
Chiunque abbia insegnato sa quasi tutti i propri studenti potrebbero passare
qualunque esame se solo lo volesse.
A 19 anni
non dovrebbero esistere soluzioni di ripiego. Tutti dovrebbero avere una
chance. È uno spreco
immenso di capitale umano e sociale costringere migliaia di ragazzi ogni anno a
rinunciare ai propri sogni, senza dargli la possibilità di capire se essi corrispondano
alla realtà. Uno spreco con effetti economici. Perché un paese a “numero
chiuso” è un paese che non può crescere.
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