mercoledì 30 settembre 2020

Il discorso smarrito sulla pace e le arti come possibile via d’uscita? - Jan Oberg

Il discorso sulla o per la pace è prevalentemente sparito negli ultimi 20-30 anni. Vale per la ricerca (e le sue possibilità di finanziamento non-governativo), alla politica in generale e ai media.

In politica estera e securitaria, il livello intellettuale è ora tale che non pare neppur strano ai decisori di non procurarsi mai consigli sulla pace o consultare esperti di pace. L’ipotesi fantasiosa è che solo se ci sono sufficienti ‘mezzi di sicurezza’ militari applicati ad abbastanza problemi societari, s’ instaurerà automaticamente la pace.

Non ricordo di aver mai udito un parlamentare o un ministro citare o concettualizzare la pace aldilà del livello del discorso da pranzo di stato – cioè privo di contenuto teorico e fattuale come pure di significato.

I media mainstream hanno nessuno che sappia focalizzarsi sulla pace – figuriamoci che sappia fare giornalismo di pace. I resoconti li domina la guerra militare, politica, psicologica ed economica, come pure gli interventi – di solito nella modalità fake-ed-omissione. Degno di nota è che questo vale anche per chi è fermamente contro questi tipi di politiche: il centro d’attenzione è critico ma di rado costruttivo: che cosa ci si deve e si può fare? Pensate a Chomsky.

Vivendo in Svezia, non ricordo per gli ultimi anni o giù di lì di aver visto una prospettiva di pace applicate al mondo o a uno specifico conflitto da parte di qualunque media mainstream nei paesi nordici. Semplicemente, non ci sono redattori, reporter o giornalisti che siano specializzati in una tale prospettiva. E i “pacifisti” sembrano esclusi da quei media.

Dunque, il discorso sulla pace è svanito, la pace resa invisibile; trattata da grosso benigno Godot a centro stanza, che tutti, sapendolo o meno, fingono che non avverrà mai e sia irrealistico – vale a dire, irrilevante e ben più irrealistico che il perdurante militarismo, nuclearismo, interventismo e la distruzione in corso di quella Natura da cui tutti dipendiamo e con cui dobbiamo avere tutti una società.

Chi fra noi è impegnato in faccende internazionali da circa mezzo secolo viene considerato come superstite di una cultura tramontata – la cultura, il pensiero, la ricerca e l’azione per la pace. Benvenuti al Museo della Pace e ai suoi [reperti]…

In altre parole, nei corridoi dei circoli di potere odierni più o meno kakistocratici (”governanti fra i meno opportuni, capaci o d’esperienza”), la parola ‘pace’ incontra silenzio, viene ridicolizzata, considerata troppo idealistica/irrealistica, fuori tempo e fuori luogo.

Conclusione a tali punti: dovremmo semplicemente continuare nonostante tutto quanto, fare luce in quel buio, perché ‘i tempi cambiano’. Se si lavora per convinzione, passione o talento – come, diciamo, un compositore – non ci si ferma solo perché non si attrae attenzione. Si continua perché appassionati ai propri valori e obiettivi e perché, proprio di questi tempi, si ha da raccontare una storia piacevolmente diversa: che la pace è possibile ma richiede un modo di pensare, una conoscenza diversa e politiche diverse.

Ecco perché dobbiamo cambiare questo fatto: 95% della gente in Occidente dedica 95% delle proprie energie al mondo così com’è – criticando questo o quello, facendo diagnosi e prognosi, predicendo catastrofi, emanando avvertimenti e combattendosi reciprocamente sulla giusta interpretazione o montando cospirazioni e propaganda.  Ma una tale energia negative non ci porterà da nessuna parte:

  • Quando ti ammali, non ti auguri un dottore che faccia solo diagnosi e prognosi ma non ha idee su una cura, non ti pare?
  • L’attenzione focale dovrebbe essere sui migliori futuri possibili – immaginandoli e trovando un percorso per arrivarci – insieme. La cara Elise Boulding ci ha sempre detto giustamente che non ci s’impegna per ciò che non si riesce a immaginare.
  • Ne sappiamo più che abbastanza dei problem d’oggi per occuparci adesso creativamente di quel che potrebbe essere invece di ciò che è … cioè, un po’ di saggezza costruita sulla conoscenza – come E F ”Piccolo è bello” Schumacher si esprimeva: Adesso siamo cisì eruditi che non possiamo fare a meno di saggezza.
  • In breve, energia positive posta nel visualizzare e “visionizzare”…

Il che mi conduce, in quest’articolo come nella mia vita, alla domanda: E dell’arte, che cosa diciamo? Possono le arti diventare uno dei blocchi costruttivi del ponte necessario fra ciò che è e ciò che potrebbe essere? Fra critica e costruttività? Fra qui/ora e visione/strategia? Fra la cecità della valanga d’informazioni e la visualizzazione di un futuro migliore?  Penso di sì, ma con la qualifica “in principio” o “teoricamente”.

L’arte è fondamentalmente un vedere qualcosa di meno o non così prontamente visibile. Riguarda la realizzazione di qualcosa che non esiste ancora ma erompe dall’ immaginazione. Comporta fare cose vecchie in modi nuovi o fare quel che non è mai stato fatto prima.

L’arte si basa su un’urgenza espressiva di natura emotiva/intuitiva di dire qualcosa – anche oltre la realtà empirica – per dare la sveglia ai concittadini globali. E’ la cosa che l’artista fa perché non sa fare di meglio che proprio quella. La vera arte è esistenziale, indifferentemente agli odierni pervertiti “mercato dell’arte” e “industria dell’arte” commerciali (seppur qualcuno che c’è dentro sia davvero un artista genuine, per complicato e contraddittorio possa sembrare).

Se non si sanno udire quelle qualità definenti , che so, nella quinta sinfonia di Beethoven o nella musica-poesia di Dylan, vederle nei dipinti di Helen Frankenthaler, sentirle negli scritti di Tolstoy, o di Elise – e anche di Gandhi – non c’è nulla che possa fare per spiegare che cosa intendo.

Ma ho in mente ancora almeno un problema: perchè tanto delle arti sia focalizzato più, molto di più, sulla violenza, la guerra, il male, la morte, il dramma, le uccisioni, l’aggressione e la sofferenza che sulla riconciliazione il perdono l’armonia, la varietà, lo sviluppo, la cooperazione, la gioia, la convivialità … e la pace? Sui problemi anziché sulle soluzioni? Silla storia / il presente più che sul futuro?

La classica discussione – se gli umani siano fondamentalmente buoni o cattivi – può estendersi a: gli umani fanno attenzione più al bene o al male? Ai problemi o alle soluzioni? Cui è molto più facile rispondere.

Forse adesso pensate che stia esagerando e queste cose non possono semplicemente essere quantificate. Argomento valido, ma credo che dovremmo comunque dialogarne.

Molte delle grandi opere in letteratura, film, musica, e dipinti elaborano temi di violenza e distruzione e traggono ispirazione nel lato buio della natura, nei comportamenti e nelle azioni umane e societarie. Essi pongono la questione sul perché il mondo passato e presente sia male, anziché stimolare la nostra immaginazione per percepire il mondo come potrebbe essere, per parafrasare George Bernhard Shaw.

Ne sono stato rammentato quando andai recentemente al primario festival fotografico di Svezia, se non di Scandinavia, il Landskrona Photo Festival, che visito sempre perché sono anch’io un fotografo d’arte.

Senza dubbio mostra un’alta qualità media, una considerevole varietà, molti tempi altamente topici, tutti gli attributi che definiscono una cura(tela) affinata.

Qual era dunque il mio problema? Beh, che almeno 40 per cento delle opere esposte si focalizzino su guerra, genocidio, massacri, campi di concentramento, sofferenza di particolari gruppi di persone, i dannati della terra. E che molto del resto sia o espressione di temi identitari spoliticizzanti o fotografia sperimentale, costruita, atta al palcoscenico o ibrida, formalistica. E il tutto anche piuttosto smorto! Niente humour, satira, tentativi di dipingere la bellezza, la convivialità, la felicità. O di far pensare lo spettatore alla pace.

Voglio dire, qual è lo scopo di mostrare un’altra serie di immagini (documentarie) di scheletri di vari massacri nelle anguste, buie celle carcerarie di una fortezza? Che si ipotizzi magari, ingenuamente, come per i film e le foto su Hiroshima e gli hibakusha, che mostrandole il pubblico me sarà inorridito e diventerà più critico di guerre e altri tipi di violenza?  Fa parte della più ampia “industria della violenza” in cui troviamo anche i musei delle guerre e dei massacri nonché l’Olocausto?  O è che ci colpisce emotivamente e fa “automaticamente” più strada, un po’ come se un fotografo riprende ritratti di celebrità anziché di non-celebrità, diventa più facilmente famoso?

Perché a questo mondo ci sono tante più immagini di distruzione che di costruzione, di violenza anziché di pace?

L’importantissima gara World Press Photo contest ne è un altro esempio – peggiore. Datene giusto uno sguardo: è zeppo di violenza e sofferenza, e io sono relativamente sicuro che chi gestisce queste gare e festival non è neppure consapevole di tale distorsione o ne abbia almeno trattato. Come se la realtà o l’ immaginazione o l’impulso creativo non potessero venire espressi anche mediante immagini di bellezza e di pace?

Viviamo in un’era influenzata molto più dalle immagini che da testi o suoni e siamo diventati tutti una specie di fotografo. Quel che le centinaia di immagini percepiamo più o meno consciamente durante una giornata mediante le varie sorte di media ci dicono sul mondo è estremamente importante nel plasmare la nostra visione del mondo. Beh, potrete dire, è sempre andata così, che il negativo ci ha dominati e affascinati, nevvero?     Se è così, diventiamo un po’ più creativi di pace e riequilibriamo il tutto!

http://serenoregis.org/2020/09/25/il-discorso-smarrito-sulla-pace-e-le-arti-come-possibile-via-duscita-jan-oberg/

Scopri quanti ti spiano mentre visiti il tuo sito preferito - Riccardo Luna

Ieri sera ad un certo punto negli Stati Uniti su Twitter è tornato un trending topic dal nostro recente passato: Cambridge Analytica. Decine di migliaia di persone si sono messe a condividere post sulla società che qualche anno fa aveva trovato il modo di profilare gli utenti di Facebook per mandare a ciascuno di loro messaggi in grado di condizionarne il voto.


L’emittente tv Channel 4 era riuscita a mettere le mani sul documento utilizzato nel 2016 dal team elettorale di Donald Trump per profilare 200 milioni di elettori americani, dividerli in gruppi politicamente omogenei, puntare il gruppo non di quelli che avrebbero potuto votare per il candidato repubblicano, ma di quelli che avrebbero potuto non votare per la candidata democratica Hillary Clinton; quel gruppo è stato chiamato “deterrence”, scoraggiamento, perché ciascuno di loro su Facebook ha visto messaggi che puntavano a convincerli a non andare alle urne, scoraggiandoli; in quel gruppo c’erano 3,5 milioni di neri americani, molti dei quali poi in effetti alla urne non ci sono andati. E Trump è diventato presidente degli Stati Uniti. Fine della storia triste. In fondo Facebook dopo ha cambiato le regole di utilizzo della piattaforma e Mark Zuckerberg ha chiesto scusa pubblicamente. Vuol dire che le nostre democrazie sono di nuovo al sicuro?

In questi giorni si dibatte molto di The Social Dilemma, un documentario prodotto da Netflix nel quale una dozzina di pentiti della Silicon Valley raccontano come hanno sviluppato e gestito gli algoritmi con i quali la nostra vita digitale è in ogni istante memorizzata, analizzata, segmentata e utilizzata per condizionarci. Il punto non è se il documentario sia o meno riuscito nel suo scopo, il punto è: non è che per caso quello che Cambridge Analytica poté fare nel 2016 con un uso disinvolto delle larghissime maglie che Facebook aveva all’epoca, adesso è diventato semplicemente legale? E’ diventato la regola e non più l’eccezione? 

Qualche giorno fa The Markup ha rilasciato uno strumento che potrebbe avere la risposta. 
The Markup è un nuovo giornale online nato con l’obiettivo di smascherare e raccontare il vero funzionamento dell’economia digitale. “Big Tech is watching you, we are watching Big Tech” è lo slogan. Lo strumento si chiama Blacklight ed è semplicissimo da usare: scrivi il nome di un sito ed in meno di un minuto quello ti dice quante persone ti spiano quando lo visiti. Spiare è un termine forte ma rende l’idea: parliamo dei “cookie”, pezzettini di software che ti agganciano e ti seguono ovunque vada nel web; e parliamo degli “ad tracker”, registratori del tuo comportamento online utilizzati dalle grandi multinazionali che vendono la pubblicità, quelli che se in una mail hai scritto Maldive, ti propongono subito un viaggio alle Maldive adatto alla tua capacità di spesa. 

The Markup ha testato Blacklight sui 100 mila siti più popolari del Web e ha scoperto che l’87 per cento usa qualche forma di profilazione degli utenti; moltissimi avvisano direttamente Google e Facebook di ogni visita; i più scaltri hanno software che registrano tutto anche se uno ha deciso di bloccare i cookie. Se ne fregano e ti fregano. 

Ho provato Blacklight sui 100 siti più visitati d’Italia e il risultato è lo stesso: a parte Wikipedia e il sito dell’Inps, tutti gli altri hanno “cookie” e “ad tracker”; c’è chi ne ha diverse decine. Ai primi posti ci sono quelli che quando atterri sul loro sito ti accolgono con il messaggio rassicurante “noi abbiamo a cuore la tua privacy, vuoi ricevere tutti i cookie o scegliere quelli che preferisci?”. Al che noi clicchiamo rapidamente su “tutti” per iniziare a leggere o guardare quello che cercavamo e decine di pezzetti di software iniziano a seguirci e profilarci per sempre a nostra insaputa ma non senza la nostra sbrigativa complicità.

Che altro potremmo fare? Moltissime cose: forse basterebbe meno ipocrisia da parte di chi gestisce un sito, basterebbe imporgli di farci  accogliere con un messaggio onesto che dicesse “vuoi essere seguito e profilato da decine di cookie di queste società elencate non sapendo bene che fine faranno i tuoi dati personali?”. Servirebbe una presa di coscienza collettiva del fatto che la vita digitale è meravigliosamente comoda e solo apparentemente gratuita, visto che si regge su presupposti fondamentalmente sbagliati e pericolosi. Perché non si tratta solo di farci andare alle Maldive, ma di mettere qualcuno in condizione di farci votare per un candidato o non farci votare affatto. 
Ecco ho l’impressione che Cambridge Analytica ai tempi ci abbia indignato parecchio, ma che non abbiamo risolto il problema. Lo abbiamo solo reso legale. 

da qui

PETER WEISS E IL ROMANZO PIÙ IMPORTANTE DEL SECOLO MAI TRADOTTO IN ITALIA (SVEGLIATEVI GENTE!)

L’altare al Pergamonmuseum di Berlino pare qualcosa che precede l’uomo. La Gigantomachia, in effetti, sembra profezia in marmo, dove serpe e dio, leone e tormento, gloria e punizione sono intrecciati in evidenza, appunto, disumana. È come il dispiegarsi della storia, il caos a zanne, sulla fatua volontà umana. Davanti all’altare di Pergamo, del II secolo prima di Cristo, s’innalza uno dei romanzi più clamorosi del secolo scorso, Die Ästhetik des Widerstands, “Estetica della Resistenza”, pubblicato in tre tomi (usciti rispettivamente nel 1975, 1978, 1981), scritto da Peter Weiss. Fu un evento. Sconvolgente. Di cui noi non abbiamo compreso la forza, l’impeto, l’importanza. Come se ci avessero negato, chessò, la ‘Recherche’ di Proust, i libri di Thomas Mann, quelli di Philip Roth.

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Peter Weiss (1916-1982), presumo, lo conosciamo tutti: è il grande, contradditorio, centrale drammaturgo tedesco di La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat L’istruttoria. Un tempo Weiss era molto tradotto, di solito da Einaudi, da Feltrinelli, da Cronopio. Qualcosa si trova ancora. Tra i testi da tradurre, forse sfiziosi, c’è il carteggio con Hermann Hesse, che ha legato i due dal 1937 al 1962, è edito da Suhrkamp. Beh, io non ne sapevo nulla finché Giovanni Pacchiano, studioso e lettore fenomenale, non mi ha lanciato l’amo. “Sto leggendo in francese L’esthétique de la résistance… lo trovo straordinario e ricco di spunti”. Cerco. In Francia lo traduce Klincksieck, il romanzo conta quasi 900 pagine. Tre anni fa “Le Monde” lo ha inserito in una aristocratica classifica di “grandi romanzi da riscoprire”. “Questo è un romanzo di culto… una delle opere fondamentali della letteratura del XX secolo… spesso comparato alla ‘Recherche’ di Proust e all’Ulisse di Joyce”, leggo tra le note. Parole, parole, parole. Calco il giudizio di W.G. Sebald, allora: “Peter Weiss ha cominciato a scrivere Estetica della Resistenza quando aveva più di cinquant’anni, compiendo un pellegrinaggio tra gli aridi meandri della storia culturale contemporanea, accompagnato dal terrore notturno, carico di un mostruoso peso ideologico. Siamo al cospetto di un capolavoro, che non è espressione di effimero desiderio di riscatto, ma di una volontà di stare, alla fine dei tempi, dalla parte dei vinti”.

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Mi muovo in ambito anglofono. The Aestethics of Resistance è pubblico dalla Duke University Press, dal 2005. Il secondo volume della trilogia è uscito quest’anno. In questo modo Robert Cohen cerca di centrarne la ‘trama’: “Estetica della Resistenza inizia con un’assenza. Manca Eracle, il grande eroe della mitologia greca. Lo spazio occupato un tempo dall’enorme fregio che raffigurava la battaglia dei Giganti contro gli dèi è vuoto. Più di duemila anni fa, quel fregio adornava le pareti esterne del tempio di Pergamo, in Asia Minore. Verso la fine del XIX secolo i resti dell’antico monumento furono scoperti dall’ingegnere tedesco Carl Humann, quindi spediti in Germania. I frammenti ricomposti nel Pergamonmuseum, costruito appositamente a Berlino, capitale della Germania guglielmina, sono l’emblema delle rivendicazioni del potere imperiale tedesco. Nell’autunno del 1937 tre giovani sono davanti al fregio. Due di loro, Coppi e il narratore, il cui nome non è mai menzionato, sono lavoratori. Il terzo, un sedicenne di nome Heilmann, è ancora studente. Coppi è un membro dell’illegale Partito Comunista, Heilmann e il narratore sono simpatizzanti. Tutti e tre militano nella resistenza antifascista. Durante una lunga discussione, i tre amici tentano di interpretare gli eventi raffigurati nel fregio in relazione al loro impegno nella lotta politica quotidiana. Eppure, non riescono a rintracciare Eracle. A parte un frammento del suo nome e la zampa in pelle di leone, nulla resta del condottiero degli dèi nella battaglia contro i Giganti. Il ‘capo’ del 1937, d’altronde, è una forza onnipresente, anche nelle sale del Pergamonmuseum, dove i soldati delle SS si aggirano, con le insegne naziste ben visibili, tra i visitatori. Sotto la pressione del presente, vite in perpetuo pericolo, i tre antifascisti leggono lo spazio vuoto del fregio come un presagio”. Estetica della Resistenza è un romanzo europeo, del pensare: discute Marx e Picasso, si muove tra Germania, Francia, Spagna, ragiona su alcune opere emblematiche, il tempio di Angkor Wat in Cambogia, Dürer, Géricault, il dadaismo, il ‘realismo socialista’. Le fonti letterarie principali di Weiss sono la Divina Commedia e Franz Kafka.  

 

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Un frammento dalla descrizione dell’altare di Pergamo, per capirci. “Tutto intorno a noi si elevano corpi di pietra, si ammassano in turbe, si intrecciano e si spaccano in frammenti, accennando ai loro corpi con un busto, un braccio, l’anca esposta, un vortice di schegge, sempre in gesti di guerra, mentre schivano, colpiscono, si riparano, allungati e ripiegati, piedi che scattano, schiena contorta, polpacci imbragati, il tutto in un unico oceanico moto. Una lotta gigantesca, abnorme emerge dal fondo grigio, richiamando la perfezione, sprofondando nell’informe. Una mano si spalanca dal suolo accidentato, pronta ad afferrare, attacca la spalla di un corpo spiantato, viso che abbaia, crepe che sbadigliano, bocca che grida, occhi atterriti, volto accerchiato dalla barba, pieghe tempestose di un abito, ogni cosa prossima alla sua estremità, alla sua origine”.

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Il romanzo ha una eminenza ‘politica’, agisce – perché questo è il genere romanzo – per scavare uno scandalo. In una recensione uscita su “The Nation” (ottimo titolo: Fighting the AbyssNoah Isenberg ne scrive così: “I passi più avvincenti – i più riusciti – del romanzo sono quelli in cui Weiss offre un esame dettagliato dei capolavori di Delacroix, Goya, Géricault, Munch… e del loro rapporto con le lotte contemporanee. Così, ad esempio, scrive del Guernica di Picasso: ‘Il dipinto presentava qualcosa di assolutamente nuovo, di incomparabile. Con crudeltà, con violenza, le ombre nette e i coni di luce, arti e facce mastodontiche s’intersecano, mentre diagonali e verticali contraddicono una densità profonda, immobile. L’aria è grave del canto metallico dei grilli’. Queste e altre analisi egualmente sontuose pareggiano i proclami politici (‘Restiamo schiavi salariati che non guidano i processi di produzione’) e tradiscono l’autentico genio di Weiss per la descrizione visiva, vivida, costante nel suo lavoro”.

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Esito. Rischiamo che Estetica della Resistenza sia il libro più importante del secolo non tradotto in Italia. Il problema, d’altronde, è di soldi, economie, salari, cultura vs. convenienza, etc. etc. Insomma, puro Peter Weiss. Olè. (d.b.)

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martedì 29 settembre 2020

L’Italia anticipò in Etiopia gli orrori della guerra mondiale - Anne Colamosca

All’inizio del 1934, mentre gli Stati uniti e l’Europa erano impantanati nella Grande depressione, il leader fascista Benito Mussolini veniva acclamato da diversi magnati dei media e intellettuali pubblici occidentali. Di fronte al dramma della crisi economica, si elogiavano i «successi» dello stato corporativo mussoliniano – che teoricamente surclassava il modello economico delle democrazie occidentali.

Eminenti autori come Sir Philip Gibbs parlavano ai lettori del New York Times della «mente acuta, sottile e previdente» di Mussolini. Il re d’Inghilterra Giorgio V descriveva l’Italia come una nazione «retta dalla saggia guida di un grande statista». E fedeli accademici di tutto il mondo sfornavano numerosi articoli in sostegno alla «creatività» di Mussolini nel dare slancio all’economia interna italiana. Ma non tutti si erano lasciati ingannare. A. L. Rowse, un accademico un po’ snob dell’All Souls College di Oxford, lo descrisse oculatamente come un «macellaio basso e tarchiato, con una mascella prominente e mal rasata».

Mussolini è stato a lungo il preferito di alcuni membri dell’establishment inglese e statunitense, come il magnate dei media Lord Beaverbrook, Adolph Ochs del New York Times, Henry R. Luce del Time, il rettore della Columbia University Nicholas Murray Butler e Winston Churchill. Quest’ultimo nel 1927 diceva di non poter fare a meno di restare affascinato «dai modi semplici e gentili di Mussolini». Persino i progressisti americani, incluso Lincoln Steffens e il redattore del New Republic Herbert Croly, elogiavano pubblicamente Mussolini.

Ammiratori di tal fatta riconoscevano a Mussolini il successo nell’aver «salvato» l’Italia non solo dalla bancarotta dopo la Grande guerra, ma anche dall’avanzata bolscevica. I due anni di scioperi tra il 1919 e il 1920 conosciuti come «biennio rosso» avevano spaventato a morte banchieri, industriali e proprietari terrieri italiani; la loro risposta era stata quella di finanziarie le truppe paramilitari fasciste di recente formazione, per distruggere il potente movimento dei lavoratori. Nelle elezioni del maggio 1921, Mussolini strinse un accordo politico con i partiti di governo e spazzò via le paure di molti contadini e italiani di classe media riguardo alla violenza e alla presa di potere dei radicali di sinistra. Il 28 ottobre del 1922, il re – secondo alcuni, spaventato all’idea di una guerra civile – invitò Mussolini a formare il governo.

Un atto che ebbe conseguenze drastiche: per il 1926 il regime a partito unico fascista aveva ormai preso forma. Per la fine del decennio, la sfaccettata sinistra politica italiana, fatta da socialisti, comunisti e anarchici, era stata cancellata. Erano stati uccisi, esiliati o incarcerati, in una campagna dalla brutalità incessante e rimasta largamente impunita in tutto l’occidente. La stampa internazionale non voleva essere associata agli antifascisti; in ogni caso, si pensava che gli italiani fossero politicamente troppo «immaturi» per vivere in democrazia.

La sinistra italiana aveva subito un trauma. Era stata la morte cruenta del deputato socialista Giacomo Matteotti nel 1924 – rapito in pieno giorno e ammazzato – a terrorizzarli davvero. Mussolini inizialmente si disse dispiaciuto per la morte di Matteotti, sostenendo di non averci nulla a che fare. L’esimio storico dell’Università di Firenze e socialista Gaetano Salvemini presentò dei documenti che provavano il ruolo chiave di Mussolini nel terribile omicidio. Ma anche lui fu presto arrestato e imprigionato.

Uomo dalla corporatura massiccia, con una barba lunga, spessa e scura, Salvemini era originario di Molfetta, in Puglia, un paese del profondo Mezzogiorno – origine atipica per un letterario o un accademico di quegli anni. Prima dell’arresto, i fascisti avevano interrotto per settimane le sue lezioni, agitando i manganelli e urlando insulti come «scimmia di Molfetta» contro lo storico, mentre i suoi studenti provavano a difenderlo. Salvemini disse a un amico che non sapeva se sarebbe tornato a casa vivo il giorno dopo; aveva già subito un trauma terribile anni prima, nel 1908, quando sua moglie e i suoi cinque figli erano morti in un terremoto.

Il processo contro Salvemini ebbe un esito sorprendente: il giudice gli concesse la «libertà provvisoria» e, attraverso una diffusa rete di antifascisti, Salvemini riuscì a scappare in esilio nel 1925. Dopo nove anni passati tra Londra e Parigi, nel 1934 si trasferì negli Stati uniti, dove insegnò ad Harvard. La prima cattedra di storia della civilizzazione italiana fu creata appositamente per lui – un pulpito particolarmente prestigioso dal quale continuò la sua battaglia indefessa contro Mussolini. A questo scopo furono decisivi gli eventi della guerra italo-etiope, un massacro brutale di violenza coloniale che servì da preludio al più grande conflitto della Seconda guerra mondiale.

Un diversivo

Già nel 1927, Salvemini aveva pubblicato The Fascist Dictatorship in Italy, che contraddiceva la visione per cui Mussolini aveva «salvato» l’Italia dal bolscevismo. Ma l’opinione pubblica estera non era cambiata. Iniziò a cambiare nel 1934, quando Mussolini annunciò di voler invadere l’Etiopia per «civilizzare» il suo popolo. Questo mise la Lega delle Nazioni in agitazione; malgrado l’Etiopia fosse l’unico membro africano della Lega, ci fu ben poca reazione a livello internazionale. Nell’ottobre del 1935 Mussolini iniziò l’invasione.

Già prima dell’invasione, Salvemini aveva finito di scrivere Under the Axe of Fascism, che fu pubblicato qualche mese dopo l’inizio della guerra. Offriva una critica meticolosamente documentata del fascismo, indirizzata a quelli che un Salvemini profondamente frustrato riteneva essere europei e statunitensi completamente ignari – malgrado il libro fosse diventato subito un best seller.

Nel libro, Salvemini descriveva la grave disoccupazione e i tagli salariali che avevano colpito gli italiani della classe lavoratrice, e la brutalità senza fine della polizia e dell’Ovra, i servizi segreti fascisti. Supportato da risme di statistiche e aneddoti su singole vite distrutte dal regime, il libro concludeva che l’invasione dell’Etiopia era pensata per deviare l’attenzione pubblica da un’economia domestica fallimentare – era, in pratica, una bufala politica, del tipo reso famoso dal film dei tardi anni Novanta Sesso e potere. E, per la prima volta dal colpo di stato di Mussolini nel 1922, l’opinione pubblica iniziò a cambiare.

Per decenni, la guerra italo-etiope è stata largamente ignorata, almeno dall’accademia anglofona. Ma negli ultimi due decenni c’è stato un numero crescente di studi importanti, insieme a lavori letterari originali in lingua inglese che hanno dato corpo alla vecchia visione salveminiana sulla brutalità come tratto essenziale del fascismo italiano. Smentendo la visione per cui Mussolini sarebbe stato relativamente mansueto se paragonato a Hitler o Stalin, questi studi e lavori letterari sempre più numerosi hanno aiutato a produrre un quadro dettagliato e chiaro – anche se profondamente doloroso – di un’invasione che si stima abbia ucciso circa 760 mila etiopi e ne abbia feriti innumerevoli altri.

Solo negli ultimi due anni, due donne etiopi di alto profilo hanno prodotto lavori acclamati che descrivono la guerra, così com’è vista dai loro parenti che l’hanno vissuta (molti altri, soprattutto uomini etiopi, avevano già pubblicato sul tema, in particolare sulle loro esperienze «di crescita»). Il memoir di Aida Edemariam, The Wife’s Tale, e il romanzo The Shadow King di Maaza Mengiste – quest’ultimo in lizza per il Booker Prize – sottolineano l’importanza di questa guerra coloniale per comprendere la violenza fascista e il razzismo contemporaneo.

La prospettiva etiope

The Wife’s Tale: A Personal History è la storia della nonna paterna di Edemariam, Yetemengu, che l’ha cresciuta, e di cui ha ripercorso la vita pian piano durante gli anni dell’infanzia. In seguito, Edemariam ha lasciato l’Etiopia per studiare a Oxford e diventare infine articolista e redattrice del Guardian. Il suo libro è un memoir lirico, finemente scritto, che si snoda per gran parte del Ventesimo secolo, anche se l’invasione e l’occupazione italiana giocano un ruolo chiave nella storia di sua nonna (nel 2019, Edemariam ha vinto l’ambito premio letterario Ondaatje, assegnato all’opera letteraria che riesce meglio ad evocare lo «spirito del luogo»). Attraverso la voce della nonna, ha descritto il momento dell’attacco italiano:

La città si era svuotata e un giorno, finalmente, capimmo perché: comparvero sei macchie nel cielo, più veloci e precise di qualunque uccello, e diventavano grandi, sempre più grandi, finché non si udì il boato… Le strade si riempirono di donne, bambini, preti, malati, e mentre il frastuono aumentava la gente si buttava nei fossi, si schiacciava contro le pareti, dietro gli alberi… una pioggia scura iniziò a cadere dall’alto, una grandine metallica che esplodeva con un rumore orribile quando colpiva terra. Quante capanne presero fuoco, con donne e bambini ancora dentro.

Il romanzo di Mengiste, The Shadow King, ha come protagonista una donna ispirata alla sua bisnonna Getey – chiamata nel romanzo Hirut. Mengiste, nata in Etiopia, si è trasferita a New York con i genitori da bambina, ma è ritornata spesso nella terra natale. Con una borsa Fulbright, ha passato anni a fare ricerche tra Addis Ababa e Roma. Solo molto tempo dopo aver iniziato i suoi studi Mengiste ha saputo che la sua bisnonna era una guerriera. Come ha fatto notare lo storico Bahru Zewde in A History of Modern Ethiopia:

Non solo ci sono state molte donne guerriere etiopi, ma hanno giocato un ruolo fondamentale nel movimento di resistenza nato dopo la presa del potere italiana. In ragione della loro capacità di passare inosservate, avevano un ruolo cruciale… [infiltrate] nelle reti organizzative dei nemici, passavano informazioni fondamentali sui punti di forza del nemico, i movimenti di truppe e le operazioni pianificate.

Nel romanzo di Mengiste, Hirut viene catturata, svestita, e fotografata per delle cartoline che i soldati italiani potevano mandare a casa – probabilmente pensate per mostrare le «caratteristiche da troietta» delle donne africane. Hirut è stata un’adolescente orfana e impoverita, che ha combattuto per il suo paese pistola alla mano dal 1896. Suo padre aveva usato quella stessa arma per decenni, nella resistenza vittoriosa contro una precedente invasione italiana – una resistenza che aveva umiliato l’estrema destra italiana e garantito a Mussolini il sostegno necessario all’invasione ingiustificata del 1935.

«Lo Stato italiano era quasi in bancarotta quando nel 1936 fu proclamato ufficialmente l’Impero Italiano», scrivono Ruth Ben-Chiat, professore alla New York University, e Mia Fuller, professoressa a Berkeley, nell’introduzione al volume del 2005 Italian Colonialism. «A quegli italiani che credevano nel colonialismo, l’impero promise una via di fuga da una posizione internazionale subordinata e uno strumento per propagandare la potenza italiana e la modernità». Come spiegano gli autori, questa «modernità» assumeva le forme più brutali:

Gli italiani utilizzavano metodi di uccisione industriali (come l’irpite, cioè il gas mostarda) che vengono più comunemente associati ai soldati di Hitler o Stalin e non alle truppe di Mussolini… In realtà, il massacro in Etiopia era così distante dall’auto-percezione italiana di una dittatura «umana» che è stato cancellato dalla memoria popolare e ufficiale. Fino al 1995, il governo italiano e gli ex-combattenti… hanno negato l’utilizzo di gas mortali nell’Africa orientale.

In un articolo tratto dalla stessa raccolta, l’accademico Alberto Sbacchi scrive di come:

il 23 dicembre del 1935, le truppe italiane rovesciarono dei barili progettati per rompersi al contatto col suolo… che sparavano un liquido incolore… e un ufficiale commentò, “qualche decina dei miei uomini ne furono investiti, i loro piedi, le loro mani, le loro facce erano coperte da vesciche… non sapevo come combattere questa pioggia che bruciava e uccideva”… Per la fine del gennaio 1936, soldati, donne, bambini, bestiame, fiumi, laghi e pascoli erano stati sistematicamente spruzzati col gas.

Questa barbarie fu perpetrata per la più infima delle cause. «La guerra etiope non fu voluta né dai comandanti in campo né dagli industriali», scrisse Salvemini in Under the Axe of Fascism:

Questa guerra fu voluta principalmente da Mussolini e dai leader del Partito fascista… perché qualcosa doveva esser fatto per restaurare il prestigio del regime… Sempre più persone in Italia si chiedevano a cosa servisse quella dittatura… Durante il 1934 un’inerzia mortale e invincibile si stava diffondendo sempre più nella gran parte della popolazione italiana.

La guerra arriva a casa

Nell’estate del 1935 la guerra imminente aveva attirato giornalisti da tutto il mondo nella capitale etiope. Molti si annoiavano ad Addis Abeba, mentre le truppe italiane erano bloccate in aree remote del paese a causa del cattivo tempo, dei dissidenti locali o di problemi logistici. Evelyn Waugh – a quel tempo un giovane reporter del Daily Mail londinese – era noto per essere favorevole al regime. Scrisse che gli etiopi erano «ingenui come bambini con i nasi schiacciati alle finestre dell’asilo nido che aspettano l’arrivo della pioggia». Lo scenario, aggiungeva, «era di uno squallore fatiscente». Waugh credeva con tutto il cuore che la colonizzazione avrebbe portato grandi benefici a quella «nazione indisciplinata dalla pelle nera».

Ma George Lowther Steer, un reporter molto stimato del Times di Londra (che un osservatore definì «ardentemente pro-etiope») non si lasciò convincere dalle bugie di Mussolini, furioso com’era per la palese ingiustizia della guerra. Scrisse che l’esercito etiope «non somigliava affatto a nessun altro esercito del mondo», e notò che: 

Vestiti ciascuno secondo il proprio gusto, senza alcuna insegna militare, seguiti da branchi di animali – scimmie e asini – e dalle loro donne, dai loro bambini che portavano i fucili, dai loro servitori e schiavi, [questi soldati] somigliavano più a un popolo che sta migrando.

La violenza della guerra si trasferì presto all’Europa. Come spiega Neela Srivastava nel suo recente libro Italian Colonialism and Resistances to Empire, 1930-1970, quando Steer ultimò il suo Caesar in Abyssinia, libro in cui esprimeva la sua condanna a Mussolini, stava ormai seguendo la Guerra civile spagnola. Fu l’articolo di Steer sul «bombardamento di Guernica da parte dell’aviazione tedesca che causò un’ondata di indignazione globale e ispirò Picasso a dipingere uno dei suoi capolavori più famosi, Guernica». Ma Srivastava fa anche capire quanto sia stata piccola la finestra d’opportunità che gli antifascisti ebbero per attirare l’attenzione sugli orrori della guerra etiope. I membri della stampa internazionale erano ansiosi di spostarsi in Spagna e in Germania – considerati luoghi in cui avvenivano eventi di gran lunga più importanti.

Tutte le strade portano a Roma

È stato durante quel periodo che il New Times and Ethiopia News, o Nten, divenne uno degli strumenti principali della campagna per attirare l’attenzione sull’Etiopia. Fu scritto e pubblicato dall’ex-suffragetta Sylvia Pankhurst, buona amica di Salvemini e compagna da tanti anni dell’anarchico italiano Silvio Corio, che aveva complottato per rovesciare Mussolini.

I lettori di Pankhurst erano pochi ma influenti, per certi versi simili a quelli dell’I.F. Stone’s Weekly, che sarebbe apparso quindici anni dopo. Malgrado i tanti soldi investiti dalle più importanti testate occidentali, fu l’Nten di Parkhurst che gli attivisti neri come Marcus Garvey e i molti abitanti di Harlem leggevano per carpire cause ed eventi che avrebbero aiutato a formare un movimento Pan-Africano.

Il ruolo di Pankhurst è spiegato nella sua ottima, stringata biografia del 2013, scritta dalla storica Katherine Connelly: Sylvia Pankhurst: Suffragette, Socialist and Scourge of Empire. Malgrado la censura e la sospensione dei servizi del telegrafo da parte dei fascisti, l’Nten fece dei servizi incredibili sulla furia omicida durata tre giorni ad Addis Ababa, una rappresaglia per il tentativo di omicidio del comandante fascista Rodolfo Graziani – ben noto dalle sue precedenti azioni in Libia per il suo sadismo contro gli Africani. 

Accaddero alcune cose sorprendenti. Nel gennaio del 1936, il Time nominò Haile Selassie, l’imperatore dell’Etiopia, come Uomo dell’Anno. Questo dopo aver riverito Mussolini per oltre un decennio. Il caporedattore degli esteri del Time, Laird Goldsboroughuomo di estrema destra, iniziò a essere emarginato dall’editore della rivista, Henry LuceLasciò infine la rivista nel 1938 dopo aver provato – e aver fallito – a candidare Mussolini per il Premio Nobel per la Pace, una mossa esagerata persino per un uomo di destra come Luce.

Come sottolineano James Dugan e Laurence Lafore in Days of Emperor and Clown, «la vecchia tradizione liberale di simpatia verso il fascismo era ancora viva alla fine del 1935, ma le cose stavano cominciando a cambiare». Nel novembre di quell’anno, il New Republic propose una spiegazione più sofisticata della guerra, che mostrava in modo più chiaro e con maggiore ostilità di aver compreso la natura del fascismo. E, nel gennaio del 1936, aveva dato grande importanza a un articolo di Salvemini e Max Ascoli che criticava duramente Mussolini.

«Lo strano destino dell’Etiopia aveva iniziato a realizzarsi», aggiungono Dugan e Lafore. «Stava paradossalmente creando l’Asse Roma-Berlino, rendendola terrificante e dunque potente. Ma stava anche cominciando quel lavoro che prima o poi avrebbe smosso le coscienze dell’occidente e avrebbe posto fine al fascismo…».

Ci sarebbero voluti ancora molti anni prima che questo scontro avesse luogo. Da parte sua, la determinazione antifascista di Salvemini non fece che acuirsi nel 1937, quando Mussolini fece uccidere il suo caro amico Carlo Rosselli e suo fratello Nello in un attentato in Normandia, in Francia. Come al solito, fu Salvemini, fra i tanti amici dei fratelli Rosselli, a pubblicare un articolo che accusava formalmente Mussolini di averli fatti assassinare, come Stanislao Pugliese spiega nel suo libro Carlo Rosselli: Socialist Heretic and Antifascist Exile. «L’idea di Salvemini era che ‘tutte le strade portano a Roma’». E, aggiunge Pugliese:

La stampa fascista provò a collegare gli assassinii ai conflitti interni alla comunità antifascista. Il recente omicidio degli anarchici Camilo Berber e Francesco Barbieri per mano degli agenti di Stalin in Spagna diede ‘credibilità’ a questa storia. E tuttavia divenne presto evidente che gli assassini erano membri del Cagoule francese, una setta segreta di estrema destra. Malgrado i tentativi del regime di accusare la sinistra, la prova della mano fascista (se non proprio di Mussolini) nell’assassinio fu fornita dal regime stesso.

Nonostante le crescenti conferme delle sue accuse contro il regime di Mussolini, Salvemini fu odiato da molti esponenti della destra in tutto l’occidente, inclusi gli Stati uniti. Qui, molti emigrati italiani erano pro-Vaticano e pro-Mussolini. Ma Harvard fu, per molti aspetti, un santuario dell’antifascismo italiano. Un collega ricorda: «[Salvemini] ha avuto solo amici qui, nessun nemico».

Nel 1945, il regime fascista finalmente finì. Dopo aver vissuto in esilio per quasi venticinque anni, nel 1948 Salvemini tornò a casa e fu invitato a riprendere la sua vecchia cattedra universitaria, anche se aveva ormai più di settant’anni. Ricominciò a insegnare, iniziando con le parole «come ho detto nella scorsa lezione». Insegnò per alcuni anni, circondato da studenti e amici antifascisti, felici di averlo di nuovo a casa. Ma la morte di Mussolini non significò la fine dell’impegno politico di Salvemini. A quel punto, il socialista dedicò la sua attenzione agli onnipresenti Stati uniti – e all’inizio della Guerra fredda.

 

*Anne Colamosca è una critica e scrittrice indipendente. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è di Gaia Benzi.


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La banda unica in Italia: come si espropria un bene comune – Andrea Fumagalli

Ha trovato uno scarso eco sui media l’accordo tra Tim e Cassa Depositi Prestiti (Cdp) per la creazione di un’unica società che gestisca la banda larga in Italia, ovvero l’acceso a Internet[1]. La notizia è circolata solo il giorno (27 agosto 2020) in cui il governo ha dato parere positivo e il via libera alla creazione di una newco che avrà il controllo della rete unica. Il 1° settembre 2020 i CdA di Tim e di Cdp hanno contemporaneamente approvato il piano e siglato una lettera di intenti per arrivare a primavera 2021 alla creazione della nuova società, che si chiamerà AccessCo.

Per raggiungere tale scopo, Tim farà affidamento a FiberCop (la società che cura l’ultimo miglio della rete, quello dagli armadietti in strada alle case), a cui sarà conferita la rete secondaria di Tim sulla base di un valore d’impresa di circa 7,7 miliardi di euro (per un valore azionario minore, pari a 4,7 miliardi di euro: il che fa presagire un aumento futuro del valore delle azioni per la gioia degli azionisti).

In FiberCop entra anche il fondo d’investimento privato americano Kkr con il 37,5% (1,8 miliardi) e Fastweb che acquisisce il 4,5%. Ne consegue che Tim deterrà il 58% della nuova società.

Secondo fonti informate, si prevede che FiberCop avrà un profitto lordo (Ebidta) di circa 0,9 miliardi (pari al 19% del valore azionario, livello assai alto) con un cash-flow positivo  a partire dal 2025 e non richiederà quindi iniezioni di capitale da parte degli azionisti.

Solo successivamente alla creazione della nuova FiberCop, entra in gioco l’accordo tra Cdp e Tim per la messa in opera della rete unica, non oltre il primo trimestre 2021. Il Cda di Tim al riguardo, ha approvato e dato il via libera alla firma di una lettera d’intenti con CDP Equity (CDPE, la finanziaria di Cassa Depositi Prestiti), con lo scopo di realizzare un più ampio progetto di rete unica nazionale con la nuova società AccessCo, esito della fusione tra FiberCop e Open Fiber. Open Fiber è di proprietà di Cdp e di Enel, che sarà probabilmente costretta a cedere la propria quota.

Secondo quanto previsto dall’intesa, TIM deterrà almeno il 50,1% di AccessCo e attraverso un meccanismo di governance condivisa con CDPE si dice che sarà garantita l’indipendenza e la terzietà della società. Indipendenza da chi? Probabilmente da qualsiasi ingerenza pubblica. In proposito, sono previsti meccanismi di maggioranze qualificate e regole di controllo preventivo, ancora in fase di definizione.

In conclusione ecco ciò che al momento appare certo:

  1. Il nuovo assetto azionario di FiberCop fa presagire il guadagno di laute plusvalenze. Già per questi movimenti, il titolo Tim ha avuto in borsa un forte rialzo dal 26 al 28 agosto, passando da 0,36 a 0,42 euro/azione (+ 13,5%) per poi assestarsi a inizio settembre stabilmente sopra il valore di 0,40 euro per azione e oggi intorno a 0,38. Le prospettive per FiberCop sono più che lusinghiere nel medio periodo, visto l’elevata redditività.
  2. La società che gestirà la banda unica (AccesCo) opererà in regime di monopolio e la sua governance è ancora tutta da decidere, anche se appare certo che la maggioranza relativa (51%) è ad appannaggio di FiberCop, quindi di Tim, il cui potere di controllo è comunque condizionato dal 37,5% da fondo di investimento americano Kkr. In ultima analisi, un fondo speculativo come Kkr arriverà a detenere il 19% della società italiana che ha in mano esclusive il controllo della rete digitale italiana.

* * * * *

Una volta spiegato l’assetto societario che caratterizzerà la nuova società che gestirà la banda unica, vale la pena svolgere alcune considerazioni.

Siamo di fronte ad un atto di saccheggio (despossession) di un bene comune. Oggi, possiamo dire che l’accesso a Internet possa essere annoverato tra i diritti fondamentali dell’individuo. Piaccia o non piaccia, la possibilità di accedere alla rete è diventato oggi sempre più fattore di discriminazione non solo tecnologica (digital divide) ma anche culturale e sociale e definisce una nuova divisione del lavoro su base cognitiva, definendo nuovi processi di gerarchizzazione e di potere.

Crediamo che le esperienze della didattica a distanza nelle scuole e università e di smart-working sperimentate grazie all’emergenza Covid-19 abbiano ben evidenziato queste nuove forme di segmentazione sociale, con la conseguenza di aumentare la diseguaglianza. Da questo punto di vista, il diritto alla connessione libera e gratuita dovrebbe essere uno degli obiettivi delle forze che si definiscono progressiste e riformiste. Non è così.

La creazione di un monopolio pubblico-privato nella gestione di un diritto così fondamentale può essere considerato un caso da manuale del modo con cui la teoria del New Public Management è diventata la bussola per gestire la governance delle public utilities (servizi di pubblica utilità).

Essa detta nuove regole di gestione del settore pubblico, sull’esempio delle pubbliche amministrazioni anglo-sassoni, dove comincia a diffondersi il sistema di workfare, integrando le gestioni tradizionali di un ente pubblico con una metodologia più orientata al risultato economico (o al limite ad annullare le possibili perdite). Al riguardo è interessare citare un documento del Formez (www.governance.formez.it, sito della Presidenza del Consiglio dei ministri, alla sezione ‘documenti/Significati di Governance’, 2012), all’interno del sito governativo della Presidenza del Consiglio, che meglio di ogni altra analisi chiarisce gli intendimenti del nuovo paradigma manageriale pubblico, che tende sempre più a sdraiarsi su quello privato:

“La crisi finanziaria, che ha colpito gli stati capitalistici a partire dagli anni ’80, e soprattutto negli anni ’90, ha indotto l’autorità pubblica a cercare di svolgere un ruolo di timoniere (steering) e coordinatore, legando le risorse pubbliche a quelle private. L’idea dello steering ha indotto una ridefinizione dei ruoli dei soggetti pubblici: all’autorità politica compete di operare ad un livello strategico, svincolandosi dalla gestione operativa che deve essere svolta dalla macchina amministrativa, mentre le azioni politiche ed amministrative si aprono e favoriscono la concertazione tra pubblico e privato, abbandonando la visione adversarial dei rapporti tra l’autorità pubblica e il business privato… È in questo contesto che si è diffusa la teoria del NPM [New Public Management, ndr.], che mette in discussione l’esistenza di una cultura e di forme di gestione specifiche della Pubblica Amministrazione sostenendo la necessità di applicare ad essa, adattandoli opportunamente, i principi e le tecniche del management privato. L’applicazione dei principi della aziendalizzazione, dal canto suo, ha favorito lo sviluppo di alcuni dei tratti distintivi della governance: l’attenzione alla partecipazione degli stakeholders; il coordinamento dei diversi interessi in gioco; l’applicazione sistematica dei principi di efficacia, efficienza, coerenza e trasparenza dell’intervento pubblico”.

Il cambiamento postulato dal New Public Management ha cominciato a investire così tutto il sistema, compreso il rapporto tra politica e pubbliche amministrazioni, costituendo in sostanza un abbandono del dirigismo centralista delle organizzazioni pubbliche: il rapporto Stato-Mercato si declina così in direzione del privato.

Il dibattito attuale parte da questa constatazione: molti beni pubblici e liberi non sono più tali in quanto soggetti a processi di “enclosures”, come nel caso dell’acqua, o di cartolarizzazioni, nel caso di alcune proprietà demaniali o privatizzazione e liberalizzazione, nel caso delle public utilities e oggi dell’accesso a Internet.

La possibilità di usufruire di tali bene di pubblica utilità è così sottoposto alle esigenze di profitto o direttamente del privato (quando la privatizzazione è arrivata a compimento) o di un pubblico che ha introiettato la metodologia della governance privata, volta non all’efficienza, ma al puro profitto, a dispetto delle esigenze sociali, anche se la proprietà rimane formalmente statale (e allora si parla di liberalizzazione). Cassa Depositi e Prestiti, dopo la sua trasformazione in SpA, incarna perfettamente questa tendenza.

Nel caso della banda unica, inoltre, assistiamo anche all’estensione verso nuovi orizzonti del “divenire rendita del welfare”, un processo che ha interessato in misura maggiore finora la previdenza e la sanità, gli ambiti in cui il processo di valorizzazione privata è più marcato. Le innovazioni che hanno accompagnato l’ascesa dei mercati finanziari, come nuovo motore regolatore l’accumulazione, hanno consentito la capitalizzazione del sistema previdenziale da parte delle grandi società di intermediazione finanziaria. Il passaggio dal sistema a ripartizione al sistema a contribuzione ha di fatto permesso di quotare le aspettative di vita degli individui e incentivare la speculazione finanziaria su asset non più riconducibili solo all’attività di produzione ma direttamente alla vita degli individui.

Grazie alla sua finanziarizzazione (in grado di garantire servizi previdenziali più elevati a chi detiene quote di risparmio più elevate) il Welfare e le public utilities non svolgono più il ruolo di ridistribuzione del reddito ma, all’opposto, ne favorisce la concentrazione, alimentando la segmentazione del lavoro e la precarizzazione della vita.

Il settore in cui risulta più evidente il ruolo “produttivo” del Welfare contemporaneo è quello della sanità, grazie soprattutto alla diffusione delle nuove tecnologie algoritmiche di raccolta e manipolazione dei big data. Tale raccolta di dati si sviluppa principalmente nella fase di prevenzione e monitoraggio della salute dei cittadini, con la funzione di indirizzare la ricerca farmaceutica privata verso gli investimenti più redditizi.

L’ingresso dell’industria dei big data ha portato nel settore dell’industria sanitaria le principali società dell’elettronica in grado di sviluppare dispositivi e sensori che raccolgono dati e le principali società dell’informatica, dotate dell’infrastruttura per analizzare le grandi quantità di informazioni raccolte. Praticamente, tutte le principali corporation che operano nel comparto dell’elettronica informatica hanno aperto una divisione Health, in proprio o in collaborazione con università, enti di ricerca, società farmaceutiche.

Con la governance privatizzata della rete, grazie alla nuova società AccessCo, il cerchio si chiude. Si crea, infatti, in tal modo un’infrastruttura digitale in grado di supportare le strutture di welfare come modo di produzione e ambito di valorizzazione capitalistica delle nostre vite. L’emergenza sanitaria ha accelerato questo processo, senza trovare un’adeguata risposta e comprensione dei fenomeni in atto da parte delle forze antagoniste.

Lungi dal muoversi verso una maggior consapevolezza del comune e dei beni comuni, mi sembra di ravvedere una elevata capacità del capitalismo (soprattutto delle piattaforme) di cogliere ogni opportunità per ampliare la sua base di accumulazione e consolidare la propria struttura di potere.

Corollario

Quest’estate, i giornali hanno riportato la notizia di un incontro, a Marina di Bibiano, tra Beppe Grillo e l’attuale sindaco di Milano, Giuseppe Sala. Tra i vari temi trattati, c’è stato anche la possibile nomina di Sala al vertice della società AccessCo. Nessuno ha mai smentito, e si avvicina ormai la scadenza elettorale che dalla scelta di Sala sarà investita.

 

NOTE

[1] Una nota critica è quella di Paolo Maddalena, sul suo blog a MicroMega: “La fibra ottica: un altro pezzo d’Italia svenduto agli stranieri”

 

da qui

intervista a Julio Cortázar


lunedì 28 settembre 2020

Tridico e gli imbecilli – bortocal

ogni giorno il sistema dei media ha una nuova vittima sacrificale da gettare in pasto nell’anfiteatro al pubblico informe degli imbecilli.

chi lo manovra guadagna miliardi, e senza lavorare, ma oggi ha scoperto che il direttore dell’INPS guadagnava – figuratevi – addirittura 60mila euro l’anno, cioè 5mila euro al mese.

lordi.

netti, non arriva a 3mila euro.

ma vi sembra ragionevole, perdio?

. . .

non voglio discutere se 150mila euro lordi di stipendio siano o no più che tantini, per qualunque lavoro, ma forse vanno collocati in un quadro dì insieme, non vi pare?

vanno confrontati con gli stipendi di chi fa lavori di complessità analoga, o forse persino minore: quelli di un magistrato, di un ambasciatore, di un generale, faccio per dire.

In linea di massima, un ambasciatore guadagna dai 180 ai 200 mila euro netti l’anno, senza contare le agevolazioni di cui gode, come ad esempio il diritto di abitazione e le indennità di trasferta. Inoltre, la retribuzione degli ambasciatori italiani è di gran lunga superiore rispetto a quella di molti altri Paesi europei: gli ambasciatori italiani guadagnano più del doppio di molti colleghi europei, e addirittura tre volte rispetto allo stipendio degli ambasciatori tedeschi. Il nostro ambasciatore a Berlino, per esempio, porta a casa, solo di extra, più di 30 mila euro netti al mese, mentre Angela Merkel, a capo di 80 milioni di tedeschi, ne guadagna solo 9 mila.

. . .

non vi fa senso che a guidare la protesta sia uno come Salvini che da deputato ne guadagna quasi 20mila al mese esentasse e senza fare molto altro che bere mojito in spiaggia e andare a suonare il citofono a una famiglia di extra-comunitari che chiedere se spacciano?

quanto guadagna un calciatore? diminuiamo gli stipendi troppo alti, sono il primo a dirlo, ma tutti e col sistema più giusto che ci sia: aumentando le tasse sui redditi alti.

tutti, perché tutto il resto è fuffa, se non barbarie.

pigliarsela con uno a caso solo per attaccare il governo è veramente penoso: ma che bella scusa per distrarre del tema dei compensi dei parlamentari, fra l’altro.

da qui

La nomina di Vincenzo Paglia da parte del ministro Speranza è un obbrobrio - Paolo Flores d’Arcais

La nomina di Vincenzo Paglia a presidente della “Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana”, decisa dal ministro della sanità Roberto Speranza, è un obbrobrio.

Il comunicato governativo parla di “monsignor” Vincenzo Paglia, per ignoranza o per furbo minimalismo. Il titolo che spetta a Vincenzo Paglia è infatti quello di S.E.R., cioè Sua Eccellenza Reverendissima, in quanto Vincenzo Paglia è Arcivescovo. Bastava compulsare l’annuario pontificio. S.E.R. Vincenzo Paglia non è solo il Gran cancelliere del Pontificio Istituto Teologico per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, è soprattutto il Presidente della Pontificia Accademia per la vita. Gli incarichi che ha avuto e ha ne fanno, in termini secolari, uno dei più importanti ministri del governo del Papa.

Per quale motivo il ministro della salute di un governo democratico, per il quale perciò la laicità è una precondizione irrinunciabile, ha l’impudenza di nominare un “ministro” del Papa alla testa di una commissione particolarmente importante, visto che dovrà dar vita alla riforma dell’assistenza alla vecchiaia, di cui il Covid ha mostrato le carenze spaventose e per la quale, ovviamente, uno Stato democratico dovrebbe puntare sul servizio pubblico, di alto livello ed eguale per tutti?
Nel mondo della medicina, della sociologica, del welfare, dell’assistenza agli anziani, in tutto l’apparato scientifico e amministrativo dello Stato italiano, c’è davvero tale indigenza di personalità preparate, che non resta altro che ricorrere non già alla “Réserve de la République”, come si dice in Francia, ma alla “Réserve du Pape”?

Come cofondatore della Comunità di Sant’Egidio, Paglia ha accumulato certamente grandi e meritevoli capacità nell’aiuto agli strati emarginati della popolazione (quelli di cui in un paese civile si dovrebbe occupare il welfare, che vergognosamente manca per ferocia liberista, dunque tanto di cappello alla carità di fede, che surroga), come componente della commissione avrebbe avuto la possibilità di offrirla alla riflessione di tutti. Ma il presidente della commissione è colui che indica l’orientamento generale, sintetizza la pluralità degli apporti, ha una funzione cruciale nel renderli operativi. Possibile che il ministro Speranza non si renda conto del macigno di conflitto di interessi (fossero anche solo spirituali), tra un importante incarico governativo e il ruolo ancor più eminentemente governativo di Vincenzo Paglia nella compagine di Papa Francesco?

Di sicuro S.E.R. Vincenzo Paglia si adopererà perché nessun anziano possa mai decidere liberamente, una volta avute le condizioni di assistenza materiali e morali migliori possibili, di porre fine a un’esistenza che non viva più come vita ma come tortura. Paglia è infatti un intollerante fautore dell’obbligo di vivere anche in condizioni di fine vita che risultino, a chi vi è immerso, tra sofferenza fisiche e psicologiche inaudite, insopportabili. Con che diritto, sul fine vita di un anziano che, ripeto, malgrado tutte le cure e l’assistenza migliore, fisica e affettiva, non voglia più restare al mondo perché considera questa una condizione di tortura, Paglia potrebbe imporre che “l’amaro calice” vada bevuto fino all’estremo della feccia? Perché questo, ovviamente indorato dei più bei sermoni, costituisce il cuore del suo libro contro l’eutanasia, “Sorella morte”.

Nel frattempo, a poche ore di distanza, è uscito un ponderoso documento della Congregazione vaticana per la dottrina della fede, il benemerito ex Sant’Uffizio, insomma, che definire intimidatorio è poco. Non si occupa affatto della fede, cioè di peccati e vita eterna. Non di peccati (il termine mi sembra ricorra una sola volta nell’ampio stralcio pubblicato dal “Foglio”), che sarebbe sua competenza, ma di crimini, la cui definizione è competenza della legge, cioè, in democrazia, dei cittadini attraverso i propri rappresentanti (e nel rispetto dei diritti civili che nessuna maggioranza può limitare o conculcare: tra cui il diritto a porre fine alla propria vita, ho dimostrato nel mio libro “Questione di vita e di morte”, Einaudi 2019).

I fulmini del Sant’Uffizio vengono esplicitamente scagliati anche contro le legislazioni che si limitino a considerare accanimento terapeutico l’idratazione e la nutrizione artificiale rifiutate dal paziente (tramite eventuale testamento biologico). E naturalmente bollano di crimine contro l’umanità, di omicidio, anche le limitatissime fattispecie di suicidio assistito che in Italia una sentenza della Corte Costituzionale, e sulla scia alcuni tribunali ordinari, hanno depenalizzato e rese lecite.

Lascia anche sgomenti che nel mondo politico, dei famosi “rappresentanti” (di una popolazione le cui scelte secolarizzate sono largamente maggioritarie, come testimoniato da ogni indagine sociologica, e da una frequenza alla Messa e ai Sacramenti sempre più minoritaria e residuale), non si sia levato un coro di voci, indignato e deciso a mettere fine a queste continue prevaricazioni clericali. Ma metto già in conto che queste mie ovvie considerazione saranno bollate di “laicismo”, mentre la vera laicità è … e bla e bla e bla.

Sia chiaro, Vincenzo Paglia è persona degnissima. E sul piano personale è anche un amico, da decenni. Ma “amicus Plato, sed magis amica veritas”, e in questo caso, stimato ministro Speranza, Ella la più elementare e doverosa laicità se la è messa sotto le suole delle scarpe, nominando a presidente della commissione un arcivescovo e “ministro” del Papa.

(*) ripreso da Micromega

da qui