Il nostro obiettivo permanente sul
referendum (ormai imminente) prosegue. Oggi riprendiamo un articolo di Tomaso
Montanari e Francesco Pallante pubblicato su Il Fatto Quotidiano del
9 settembre seguito da un breve commento del direttore del giornale, Marco
Travaglio. Ad esso risponde, con un post scriptum per Volere la luna,
Tomaso Montanari.
Il popolo italiano chiamato a decidere,
nel referendum del 20 e 21 settembre, se ridurre di oltre un terzo il numero
dei parlamentari vive un perfetto caso di “democrazia del monosillabo” (Alfonso
Di Giovine). Non potremo distinguere, o argomentare: dovremo scegliere tra Sì e
No, su una questione terribilmente complessa. Benché si tratti di una proposta
puntuale e intellegibile da chiunque – diminuire i deputati da 630 a 400 e i
senatori da 315 a 200 –, le sue implicazioni sono infatti molto meno ovvie,
investendo direttamente democrazia e rappresentanza, e (in dettaglio) il
funzionamento delle Camere e dei loro organi interni, la legislazione
elettorale, lo svolgimento delle campagne, l’elezione degli organi di garanzia
costituzionale.
La conseguenza è che persone affini per
cultura politica si separeranno, ritrovandosi al fianco di soggetti con cui, in
condizioni appena un poco più articolate, nulla vorrebbero spartire. E così,
dal lato del No, ai difensori del parlamentarismo democratico si affiancano gli
interessati difensori della partitocrazia e gli opportunisti della crisi di
governo; mentre, per il Sì, alla gran massa spinta dalla più triviale
propaganda – «costano troppo, sono tantissimi, non fanno niente, rubano tutti»
– si uniscono sinceri difensori del parlamentarismo.
È, questo pasticcio, uno dei motivi per
cui è stato un errore aver voluto cambiare, per l’ennesima volta, la
Costituzione, dividendo il fronte che quattro anni fa aveva saputo fermare la
riforma Renzi non solo sul piano dei numeri, ma, soprattutto, su quello delle
idee. Allora gli italiani capirono che no, non era la Costituzione il male
dell’Italia: era solo il bersaglio di partiti e governi che, non riuscendo a
cambiare il Paese, cercavano un diversivo. «La Costituzione va attuata: non
cambiata», dissero gli italiani quel 4 dicembre.
Ebbene, è vero anche oggi: dov’è il
cambiamento radicale che milioni di elettori si aspettavano dal Movimento
5Stelle? Ancora una volta, la Costituzione diventa il capro espiatorio di un
fallimento politico. Allora si voleva colpire il Parlamento, limitarne
l’autonomia in nome di un decisionismo dell’esecutivo che aveva un nome molto
chiaro: oligarchia. Oggi si torna a indicare nel Parlamento la fonte di tutti i
mali: le forbici che tagliano i seggi parlamentari identificati con altrettante
poltrone esplicitano lo spirito di questa riforma, che è un violento
antiparlamentarismo. Per i 5Stelle, infatti, l’altra metà della riforma è
l’introduzione del vincolo di mandato, che legherebbe i parlamentari agli
ordini dei loro capi. Questo è il punto: con il taglio numerico a essere (ancor
più) tagliati fuori dalle Camere saranno il dissenso, la libertà di giudizio,
il pensiero critico. Avremo meno rappresentanza: non una migliore
rappresentanza. Anzi, con meno posti i capi dei partiti blinderanno i propri fedelissimi.
Nel 2016 un governo aveva legato la sua
stessa sopravvivenza alla riforma costituzionale, e oggi Nicola Zingaretti
candidamente confessa che il Pd vota Sì per tenere in piedi il governo attuale:
confondendo, per l’ennesima volta, l’utile immediato con un vero progetto per
il futuro. Una miopia che è l’esatto contrario della presbiopia dei padri
Costituenti: che scelsero di non essere ostaggio del loro presente, guardando
lontano.
Sono tanti i motivi per cui il nostro
monosillabo sarà dunque un No: non è vero che i parlamentari siano troppi o
costino troppo (tutti i confronti internazionali smentiscono questi argomenti)
e non è vero che producano troppo poco (semmai le leggi sono troppe…). Invece è
vero che, col taglio, i grandi partiti saranno sovra-rappresentati (ancora meno
voce alle minoranze…); che, senza prevedere (stabilmente: cioè in Costituzione)
una legge proporzionale, gli organi di garanzia saranno in mano alle
maggioranze elettorali; che, con collegi molto grandi, la politica sarà ancor di
più venduta ai ricchi. Insomma, avremmo una democrazia ancora più oligarchica
di quella che abbiamo oggi.
Ai sostenitori del Sì, convinti in buona
fede di combattere la “casta”, chiediamo: davvero pensate che in un Paese con i
nostri livelli di povertà e disoccupazione, con il diritto negato a casa e a
salute, con una scuola così umiliata, il successo più importante di chi è al
potere sia cambiare la Costituzione tagliando i vostri rappresentanti in
Parlamento?
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Cari amici, rispetto il vostro
orientamento anche se non lo condivido. Ma ciò che voi difendete non è la
Costituzione del 1948, che non fissava l’attuale numero di parlamentari, ma
un’altra riforma costituzionale: quella voluta da DC&C nel 1963.
Marco Travaglio
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Post scriptum.
Una precisazione su ciò che dice
Travaglio nella sua garbata replica: nel 1963 fu messo un tetto fisso (630+315)
al meccanismo che legava aumento della popolazione e rappresentanti. Se fosse
rimasto vigente il testo della Costituzione del 1948 (che io e Francesco
preferiamo!), con la popolazione di oggi gli eletti sarebbero circa 750+300,
cioè ben di più della situazione attuale (pre-taglio).
Tomaso Montanari
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