Fino all’ultima sillaba
(Macbeth, William Shakespeare)
Undici prove di resistenza è il sottotitolo di Cenere
e ghiaccio, la raccolta di saggi messa insieme da Salvatore Mannuzzu nel
2009. Entrambi, titolo e sottotitolo, esibiscono alcune parole-chiave, che ci
aiutano a entrare nel sistema di pensiero dell’autore. Partiamo dal concetto di
“prove”. Esso sembra possedere due tipi di referenza distinti. La prima, di
tipo rematico, fornisce indicazioni ben più che allusive a proposito del genere
letterario d’appartenenza, traducendo in italiano i ben noti Essais di
un antesignano assoluto, e patriarca indiscusso del saggio come Montaigne. La
seconda, di natura tematica, si scinde e si arricchisce della compresenza di
almeno due significati. La prova è infatti il cimento e la
lotta, sempre perigliosi, in cui chi scrive impegna tutto se stesso, la propria
moralità e intelligenza; in breve l’anima. Ma può essere anche intesa nel senso
di (dimostrazione), segno che tangibilmente certifichi qualcosa di oggettivo. E
magari l’esistenza di qualcuno con la (D) maiuscola. In questi saggi il rovello
metafisico e religioso che agita tante pagine romanzesche di Mannuzzu non si
placa di certo; al contrario, producendosi talora in picchi e fibrillazioni,
percorre e innerva, intus et in cute, tutti gli snodi essenziali
della raccolta.
La voluta ambiguità semantica delle “prove” di Mannuzzu è di per se stessa
prezioso grimaldello simbolico, e di metodo, per iniziare a farsi luce in
questo libro assai esigente. Una delle contrapposizioni principali
qui in gioco è infatti quella fra le scelte nette e sicure operate dalla
“giustizia”, e l’ambigua saggezza dell’umana pietà. Proprio nel cuore del libro
alcuni passaggi dedicati alla figura di Monsieur Verdoux proiettano un’ombra
paradossale e kafkiana sullo straniante nesso fra crudeltà e pietà, che spinge
l’assassino ad avvelenare la ragazza che voleva morire. Mannuzzu cita un passo
dal Processo di Kafka, a proposito della colpevolezza
ontologica degli uomini, e collega i paradossi kafkiani a questa cruciale
affermazione di Verdoux: “È con gli uomini che sono in guerra” (Mannuzzu 2009:
75). Si affaccia già qui l’ipotesi, la definisce “grano di veleno”,
dell’irredimibilità umana cui però, si aggiunge, “spetta la sua grazia, al di
là della storia degli uomini” (Ibid). Il sorriso di Verdoux nell’episodio del
vino avvelenato è sintomo di “una perplessità – quasi metafisica; e insieme una
saggezza, una sapienza che sono il massimo consentito. Cioè un’ambiguità
estrema; forse una specie di pietà” (Ibid). L’ambiguità della vita, quella vita
che è “oltre la ragione”, come dice Verdoux, va a cozzare con la tensione a
razionalizzarla in una forma. Ma la sutura fra forma e vita è un anelito
impossibile da appagare. Mannuzzu osserva questa discrasia innanzitutto nella
sfera della giustizia, e con le parole della Ginzburg, ma anche memore di un
certo Satta, scorge nella legge una “forma inidonea a comprendere la vita” (Id:
95). All’astrattezza della legge dovrebbe fare da contrappunto la prova di
resistenza del saggio. Ma anche quest’ultimo, come vedremo, deve accontentarsi
di stringere fra le mani solo frammenti di senso. Questa frustrante esperienza
assume in Mannuzzu forme diverse, ma tutte generate dalla stessa polla sorgiva.
Prendiamo ad esempio il concetto di “amore non corrisposto”, con cui a ben
vedere la raccolta si apre e si chiude. Mannuzzu nel primo saggio, dedicato a
Giobbe, parla dell’impossibilità di essere corrisposti dalla letteratura
nell’amore infinito che le portiamo. Impossibilità costitutiva e ineludibile,
che iscrive questo rapporto asimmetrico sotto l’insegna del desiderio.
Nell’ultimo capitolo del libro questa non corrispondenza tinge di sé la
questione dei rapporti fra gli anziani e il mondo che li circonda: “La domanda
d’amore dei vecchi dunque non riceve risposte umane adeguate” (Id: 146).
Persino in Dio agisce una contraddizione insanabile fra amore e giustizia.
Questa “sfasatura irrimediabile” (Id: 62), per dirla con le parole dedicate al
pittore Francis Bacon, questa discrasia fra vita e forma, seppur declinata in
diverse modalità, è uno dei perni attorno a cui si muove la ricerca saggistica
di Mannuzzu, e forse l’intera sua ricerca artistica. È a questa frattura, in
fin dei conti, che lo scrittore cerca di resistere. Ma non è facile, bisogna
attraversare un varco molto stretto, situato al punto di confluenza fra la
cenere e il ghiaccio. Ecco dunque le parole-stemma del titolo della raccolta
pronte a designare due sfere di valori distinte, e in parte contrapposte, ma
che in ogni caso per Mannuzzu devono essere tenute insieme. Allora vediamo
sfilare dinanzi ai nostri occhi una galleria di personaggi e uomini, di cui
possiamo di volta in volta misurare la tenuta in rapporto al gioco di queste
due istanze vitali. Da una parte il desiderio, l’eccesso, l’amore per
l’infinito, la vita che, come una candela accesa da due lati, brucia di
passioni assolute; e ancora le contraddizioni che rimangono insolute, e
l’ostinato procedere dell’esistenza senza fine e senza un fine: la cenere di
ciò che, per fortuna, si consuma. “Il peccato imperdonabile è quello che non si
consuma, che non diventa mai cenere” (Id: 83) scrive Mannuzzu. Dall’altra parte
il ghiaccio come simbolo dell’equilibrio, della pazienza, della capacità di
resistere, come ci insegna Giobbe, alla “prova logorante del quotidiano” (Id:
20). E saremo messi di fronte all’esploratore Nansen, imprigionato nei
ghiacciai artici, alla lotta contro il tempo, solitaria e molecolare, di
Gramsci nella cella-trincea, oppure al caso di Anna Frank, bambina adulta,
secondo l’intuizione che Mannuzzu recepisce dalla Ginzburg, cresciuta senza
invecchiare, e soprattutto sola davanti al suo diario; forma quest’ultima, che
per Mannuzzu rappresenta, da sempre, “un lungo atto di resistenza” (Id: 80). E
la vediamo infatti Anna Frank, come intrappolata in un cubetto di ghiaccio,
fatto di memoria e scrittura, navigare nel tempo, e quindi “procedere, con
equilibrio innato” (Id: 82), dice il saggista.
Con molto meno equilibrio procedono invece i personaggi del desiderio e
dell’eccesso. Diciamo che, specularmente alla Frank, essi invecchiano senza
crescere. Abbiamo dunque Don Giovanni, perso nei suoi cataloghi infiniti; la
sua efferata parodia, incarnata dal chapliniano Monsieur Verdoux; il Valerio
Garau di Procedura, per spostarsi un attimo al romanzo più noto di
Mannuzzu; e infine il Don Chisciotte proclamato in un saggio “santo”, perché
fedelissimo martire della religione del desiderio e della libertà. Nella
lettura di Don Chisciotte ritorna il concetto chiave di “ambiguità”; la
grandezza del personaggio consiste infatti nell’“essere fra”, nel vivere tra
reale e irreale, “fra comico e tragico: fra queste due insufficienze” (Id: 40).
Don Chisciotte può vivere solo morendo. Egli ci è “maestro di desiderio, di
eccesso, di assoluto. Desiderio che solo la perdita di tutto e la morte possono
soddisfare” (Id: 43). Ed ecco, a fargli subito da eco, la cenere incandescente
di Don Giovanni, che si congeda dalla vita con queste parole: “Bisogna
ringraziare quando si perde tutto: è il più bel regalo che possono farci”
(Ibid). Qui davvero “ripeness is all”, ma in un senso altro, tremendamente
tautologico, per cui la maturità è tutto, in quanto è fine di ogni cosa. Si
crede spesso di poter procedere all’infinito, e per di più senza mai
progredire, fino a quando ci si para davanti all’improvviso, liberatoria, e
segretamente invocata, la fredda mano del Convitato di pietra.
Abbiamo osservato la dialettica fra cenere e ghiaccio, fra eccesso ed
equilibrio in figure in cui la prevalenza dell’una o dell’altro era abbastanza
netta e percepibile. Ma in Mannuzzu è vivo e sentito il bisogno di tentare una
sintesi, ancorché impossibile. Ed è per questo motivo che, procedendo tra le
stratificazioni plurime di senso che si riverberano dal nostro libro, possiamo
rintracciarne infine il nocciolo più nutriente nei tre saggi che si occupano di
Giobbe, di Francis Bacon, e della Ginzburg. In queste figure di desiderio e
pazienza, l’amore per la vita che brucia e la tensione alla forma trovano una
sintesi più equilibrata e profonda.
Il capitolo su Giobbe è, a parte le due pagine di preambolo, il primo del
libro. E non solo per ragioni cronologiche, mi sembra, ma per un ordine di
motivi non distante, immagino, da quello che ha spinto un grande scrittore
italiano del nostro tempo ad aprire la propria antologia personale con il Libro
di Giobbe – mi riferisco alla Ricerca delle radici di
Primo Levi. Levi ha riconosciuto infatti alla storia di Giobbe un’ideale
“primogenitura” nei confronti di tutti gli altri testi che intendeva
raccogliere, e compiendo una piccola forzatura rispetto all’ordine dato alla
materia, ha inaugurato la sua “ricerca” con la figura del giusto sofferente.
Per Mannuzzu la centralità di Giobbe scaturisce dal fatto che in esso si
intersecano le ragioni della cenere e quelle del ghiaccio, il fuoco del
desiderio e la questione della resistenza al dolore1. La domanda
centrale che secondo Mannuzzu il libro biblico ci pone è infatti questa: “Può
Giobbe continuare ad amare Dio, malgrado tutte le sue disgrazie? Esiste negli
uomini l’amore gratuito, fuori dalle aspettative d’una contropartita?” (Id:
20). Giobbe è definito “campione del desiderio” (Id: 15), e si imbatte anche
lui nel problema, che ormai sappiamo essere cruciale, dell’amore non
corrisposto. Eppure, al contrario di Don Giovanni, non si arresta di fronte all’aporia,
ma la supera. Giobbe, nota Mannuzzu, finisce infatti per accettare il limite
che Dio ha posto all’umana sete di sapere. Capisce di essere chiamato a
ingaggiare la prova più dura, quella del tempo, o meglio la “prova logorante
del quotidiano” (Id: 20). Passa sì, attraverso la rabbiosa invettiva, e il
processo a Dio – Mannuzzu scrive anche “procedura” – ma alla fine si ritrova
creatura umana, consapevole dei propri limiti. Polvere e cenere gli si
trasformano in mirabili strumenti di consolazione. Giobbe si innamora della
finitezza umana. E, con il Kafka qui citato dal saggista, si affeziona persino
a quella corda tesa non in alto, ma “appena al di sopra del suolo” che pare
destinata “a fare inciampare” (Id: 31). Quella corda che forse solo Kafka poteva
scorgere con occhio sicuro, e con la quale sembra davvero che Mannuzzu abbia
stretto assieme, in un amalgama riottoso e indocile, i saggi di questa
raccolta.
In particolare mi sembra decisivo il legame con le pagine dedicate alla
Ginzburg, vero polo magnetico, o vertiginoso maelström, dell’intero
libro. Qui, a partire dal “pretesto”, ma nel senso per nulla diminutivo in cui
lo intende Lukács nel suo Essenza e forma del saggio (Lukács
1911: 33), del libro della scrittrice sul caso di Serena Cruz, Mannuzzu rimette
al centro dello sguardo due questioni fondamentali: quella dei rapporti fra
forma e vita, e quella dei rapporti fra uomo e Dio (Ginzburg 1990). Il saggio
si articola in tre movimenti distinti, ma connessi. All’inizio c’è il ritratto
della Ginzburg; nella parte centrale il commento al libro; alla fine si
azzardano delle considerazioni religiose.
Parto dal ritratto della scrittrice. Mannuzzu cerca di coglierne il profilo
sfuggente, situandosi sul discrimine incerto fra figura pubblica e dimensione
intima, domestica. Ma è a quest’ultima che si volge con decisione dopo aver
confessato l’estrema difficoltà di conoscere una persona. Ancora una volta è
solo grazie alla polvere dei dettagli insignificanti che si può tentare di
risalire “da pochi frammenti reali e il meno possibile contaminati, al disegno
di una vita” (Mannuzzu 2009: 88). Ecco dunque la Ginzburg nella stanza da
pranzo della sua casa romana. La descrizione che se ne dà non è per nulla
illustrativa, ma straniante. Anzi, per essere più precisi, sono i rapporti che
si instaurano fra gli oggetti e la persona a stagliarsi sul fondo di una
“sfasatura” sorda, a bassissima definizione, ma ben percepibile. Vediamo. Del
dipinto raffigurante Re Lear prima si dice solo che veniva sottoposto a
periodiche puliture con l’ausilio di cipolle e patate, e poi si aggiunge che
l’opera non ha più molto rilievo. Dei quadri di De Pisis e Morandi si
sottolinea il fatto che furono spostati di parete per due volte. “Solo un tale
futile incidente. O ancora meno” (Id: 89). E allora tocca al guizzo del gatto
ereditato dalla Morante; e all’oliera posta sul tavolo apparecchiato per una
sola persona. Qui Mannuzzu lavora sì, per sottrazione, come lui stesso ha
annotato a proposito di Bacon. Ma c’è qualcos’altro. Nelle pagine dedicate
all’anziano pittore di Sangue sul pavimento (1986) Mannuzzu
legge nel fare pittorico dell’artista un’indicazione di metodo che mi pare
preziosa. Nell’opera in questione Bacon rappresenta “una frattura, uno strazio:
una sfasatura irrimediabile” perché dipinge “a due livelli: vuole dipingere la
pittura e vuole dipingere la realtà” (Id: 62). Mi sembra che il saggista nel
costruire la scena precedentemente descritta faccia qualcosa di simile, e
scriva per così dire, su due livelli. Scriva la forma e scriva la vita, e tenti
di fare combaciare le due cose, producendo però una salutare “sfasatura”.
Pensiamo ai riferimenti artistico-letterari che vengono di scorcio evocati, e
di proposito subito lasciati cadere. La figura di Re Lear, così significativa
per la letteratura familiare della Ginzburg, sarebbe potenzialmente ricchissima
di rifrazioni simboliche in rapporto alla storia dolorosa di Serena Cruz e
della paternità a lei negata. Ma nulla di tutto questo viene detto. E poi i
quadri di Morandi e De Pisis; il nome della Morante. Poniamo adesso mente
all’umile trafila di cose e gesti, fatta di cipolle e patate, del balzo del
gatto, dell’oliera, dell’incidente dei quadri spostati. La cenere ancora calda
della vita quotidiana, e di fronte il ghiaccio delle forme. L’oliera reale, e
quella di Morandi sulla parete. La vita vera a tre dimensioni, e quella a due
della forma. Un altro saggista, stupidamente intelligente – lo dico mutuando la
superba ironia di Proust –, avrebbe forse enucleato a pieno i contatti fra la
Ginzburg e il personaggio di Re Lear, o avrebbe disquisito sul rapporto fra la
scrittrice e i due pittori menzionati, o magari avrebbe giocato sull’eredità
simbolica che le proviene dalla Morante. Mannuzzu non ha bisogno di soffermarsi
esplicitamente su queste cose; preferisce sfumare in modo ambiguo. Piuttosto
gli interessa metterle insieme, paratatticamente. E sottoporle a un miracoloso
processo di intensificazione espressiva, grazie al quale si illuminino a
vicenda. È tanto vero che le cipolle e le patate illuminano il Re Lear, quanto
lo è l’inverso. L’oliera reale conferisce un diverso senso a quella
immaginata in absentia di Morandi, e viceversa. Si ha la
sensazione netta che le due serie di oggetti se separate, diventerebbero di
colpo banali, sterili. Qui non si tratta di semplice understatement,
o di snobismo, ma di tatto e sensibilità; è una questione di equilibrio e
pazienza, entrambi posti al servizio di una possibile sintesi fra la vita che
fa risplendere la forma, e la forma che rende un po’ meno insensata la vita.
Questa sensibilità appartiene solo ai veri artisti. Ancora a proposito di
Bacon: il pittore, scrive Mannuzzu, “sa che la realtà si coglie, (si
intrappola) con (l’arbitrario, l’artificiale), dandole una (forma precisa e
insieme ambigua)” (Id: 62). D’altronde è proprio questo il “registro vero”
della Ginzburg: il “doppio pedale, in miracoloso equilibrio – tra la vita
informe e la necessità di darle forma” (Id: 91).
Anche nel trattare il caso di Serena Cruz la Ginzburg sfodera una passione
e una forza felicemente eccessivi. Più che cenere sono lapilli di fuoco quelli
che sprizzano da queste pagine. La molla viene azionata ancora una volta da una
frattura, o da una non corrispondenza fra la legge positiva e la “vera
giustizia”, menzionata già nel titolo. L’amore per quest’ultima, il desiderio
che alla fine trionfi, porta la Ginzburg, ormai palesemente sulle orme di
Giobbe, a processare proprio la giustizia in quanto tale, e non solamente i
giudici, come avrebbe fatto, probabilmente, Manzoni. Dice bene Mannuzzu: “Ciò
che viene impugnato non è un incidente nel percorso della giustizia; è
l’ingiustizia necessaria a ogni organizzazione sociale” (Id: 95). E aggiunge:
“La contestazione è ancora più radicale: investe la legge come forma inidonea a
comprendere la vita” (Ibid). La critica è portata a un tipo di linguaggio, con
i mezzi di un linguaggio altro. E la Ginzburg lotta contro il
delirio astratto e tiepido della legge, che toglie senso alle parole, con le
armi fredde dello straniamento sintattico. Come in un quadro di Morandi, essa
comincia ad allineare uno dopo l’altro, sulla tavola della pagina, periodi
“brevissimi”. Lo stile viene sottoposto alla tensione glaciale di una paratassi
martellante e invasiva. A questo punto Mannuzzu ha facile gioco nello spostare
lo sguardo, di sfasatura in sfasatura, sul piano religioso. Con mossa a
sorpresa associa l’interesse della Ginzburg per Serena Cruz a una frase
importante della scrittrice: “Chi non crede in Dio non ha diritto di dire al
suo bambino: (Dio non esiste)” (Id: 99). Mannuzzu fa delle notazioni formali
molto fini a proposito di queste parole, e ad esempio osserva l’uso del
discorso diretto per lasciare a chi la pronuncia tutta la responsabilità della
negazione. Un’osservazione questa che tra l’altro fa trasparire in filigrana i
contorni di una poetica, e insieme di un’etica, della citazione da addebitare
al saggismo dello stesso Mannuzzu. Ma perché nessuno dovrebbe dire ai bambini
che Dio non esiste, anche se lo pensa? Eccoci di nuovo di fronte all’ambiguità
ricca di pietas, alla saggezza di una menzogna che in questo caso
tutela il diritto alla paternità, sia anche quest’ultima fittizia, o
addirittura fraudolenta. Dio è ingiusto, ma Giobbe impara ad amarlo, e si
consola con la cenere. Per la Ginzburg le prove, ed eccoci tornati
al punto di partenza, dell’esistenza di Dio sono “scarse e inconcludenti”. Ma a
volte chi crede in Dio, aggiunge, “ha la sensazione di amare tale assenza di
prove” (Id: 100). Il vegliardo protagonista del romanzo Snuff o l’arte
di morire (2013) dirà che forse non è importante sentire la presenza
di Dio, perché lui è altro: “magari questa che noi chiamiamo assenza” (Mannuzzu
2013: 68). Il dialogo con l’ultima produzione della Ginzburg diventa davvero
decisivo. Ritornano qui l’ambiguità estrema della vita, l’oscuro procedere del
desiderio, e la condanna all’incompletezza di ogni motivo, in nome
della quale, godelianamente, si chiudeva il romanzo Procedura (Mannuzzu
2015: 209).
In questi aspetti di Mannuzzu saggista si potrebbero infine riscontrare, ma
sarebbe un’altra ipotesi tutta da esplorare, i sintomi precisi di una radicale
tardività, nel senso dello “stile tardo” scandagliato da Adorno e Said (Said
2006). Alla fine su tutto prevale la disarmonia degli ultimi quartetti di
Beethoven. La frattura fra vita e forma, come fra cenere e ghiaccio, non si
ricompone. E “la casa resta in disordine” (Mannuzzu 2015: 105). La soluzione
paradossale che Mannuzzu sembra suggerirci è proprio quella di Giobbe e della
Ginzburg. Essa consiste nell’amare tale disordine, ma rimanendo sempre
all’altezza glaciale di quella combustione, che tenta disperatamente di
redimerlo.
Note
1. Questo Giobbe di Mannuzzu, leopardiano “renitente al fato”, viene letto
da Alessandro Cadoni come piccolo ma decisivo emblema di una più ampia lotta
per la “riconquista del senso” perduto (Cadoni 2015).
2. A proposito del Mannuzzu saggista Massimo Onofri ha parlato di
“eloquente reticenza” (Onofri 2009). Ma si potrebbe andare ancora oltre e giungere,
in compagnia della Ginzburg di Giacomo Magrini, a una più pervicace “oltranza
del riserbo” (Magrini 1996: 784-785).
Bibliografia
Cadoni, Alessandro, Riconquista del senso. L’elegia e la perdita in
Salvatore Mannuzzu, in “La Nuova Sardegna”, 18 settembre 2015.
Ginzburg, Natalia, Serena Cruz o la vera giustizia, Einaudi
1990.
Lukács, György, Essenza e forma del saggio, in Id, L’anima e le
forme, SE 2002.
Magrini, Giacomo, Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, in
Alberto Asor Rosa (cura), Letteratura italiana. Le opere, IV Il
Novecento, II La ricerca letteraria, Einaudi 1996.
Mannuzzu, Salvatore, Cenere e ghiaccio. Undici prove di resistenza,
Edizioni dell’asino 2009.
Mannuzzu, Salvatore, Snuff o l’arte di morire, Einaudi 2013.
Mannuzzu, Salvatore, Procedura, Einaudi, 2015 (1ª edizione
1988).
Onofri, Massimo, Mannuzzu, prove di resistenza contro il presente,
in “La Nuova Sardegna”, 22 aprile 2009.
Said, Edward W., Sullo stile tardo, Il Saggiatore 2009.
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