Il 28 marzo 1978, in pieno sequestro Moro, Rossana Rossanda pubblica sul
manifesto questo corsivo intitolato «Il discorso sulla dc» con la celebre (e
incompresa) affermazione sull’«album di famiglia» e le Br.
Nei giorni successivi piovvero critiche, a cui rispose con un articolo più
lungo del 2 aprile successivo intitolato esplicitamente «L’album di
famiglia».
Stampa e radio si sono piegate febbrilmente, il giorno di Pasqua, sul
secondo messaggio delle Brigate rosse come su un palinsesto da decifrare.
Siccome sulle cose che contano – se Moro sia vivo, se lo libereranno e a
quali condizioni – non dice niente, i commentatori ne hanno dedotto che è
invece interessantissimo politicamente.
Lo hanno trovato: a) ricco di novità, b) tale da accattivarsi le simpatie
della nuova sinistra (i più gentili), o da esserne senz’altro il frutto (i più
maliziosi).
Perché? Perché sviluppa un vasto attacco alla democrazia cristiana, cosa
che nella vecchia sinistra non è più di moda.
Ma quando mai è stato di moda nella sinistra nuova? Nel 1968 essa nacque
accusando, a torto o a ragione, i partiti operai di essersi dati come solo
nemico la dc, mentre era il sistema nel suo complesso che bisognava disvelare e
demolire.
Nel 1977, il movimento ha avuto per nemico tutto «lo stato», e in
particolare i riformisti perché vi ingabbiavano le masse. Per una sola breve
fase la nuova sinistra (meglio i gruppi) scoprirono la dc, e fu nel 1972 con
Fanfani.
In verità, chiunque sia stato comunista negli anni cinquanta riconosce di
colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci
sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov
di felice memoria.
In verità, chiunque sia stato comunista negli anni cinquanta riconosce di
colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci
sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov
di felice memoria.
Il mondo – imparavamo allora – è diviso in due.
Da una parte sta l’imperialismo, dall’altra il socialismo. L’imperialismo
agisce come centrale unica del capitale monopolistico internazionale (allora
non si diceva «multinazionali»). Gli stati erano «il comitato d’affari» locale
dell’imperialismo internazionale. In Italia il partito di fiducia –
l’espressione è di Togliatti – ne era la dc.
In questo quadro, appena meno rozzo, e fortunatamente riequilibrato dalla
«doppiezza», cioè dall’intuizione del partito nuovo, la lettura di Gramsci, una
pratica di massa diversa, crebbe il militarismo comunista fino agli anni
cinquanta.
Vecchio o giovane che sia il tizio che maneggia la famosa Ibm, il suo
schema è veterocomunismo puro.
Cui innesta una conclusione che invece veterocomunista non è, e cioè la
guerriglia.
In quel contesto infatti essa non funziona.
Se le masse sono manipolate dagli apparati, con quale esercito si fa la
rivoluzione? Se il nemico è un potentissimo partito – stato, protetto
dall’estero e padrone di tutte le istituzioni, difficile pensare di abbatterlo
col cecchinaggio.
E infatti quella posizione aveva, per logica conseguenza, o l’abbassamento
del tiro o «Ha da venì Baffone», cioè il rinvio dell’ora X all’esplodere d’una crisi
europea, d’una nuova guerra che rovesciasse il rapporto impari di forze.
Tanto è vero che, quando il problema della rivoluzione italiana tornò
all’ordine del giorno nella sinistra, nei primi anni sessanta, comportò
un’analisi diversa anche della democrazia cristiana, più complessa e insieme
più aggredibile; si vide nell’interclassismo cattolico un terreno di
disgregazione del vecchio e di riaggregazione, nella lotta di massa, del nuovo
blocco storico.
Tutta la spinta a sinistra ne fu alimentata, e ne risentì la stessa
Democrazia cristiana, specie nelle fasi in cui si trovò sotto sterzo, cioè
nell’estate del 1963 e poi dal 1975 al 1976.
Interessi imperialisti, capitale privato e di stato, stato, partiti,
confessionalismo, «luoghi» della dominazione borghese apparvero in continuità,
ma non appiattiti; e nel relativo scollamento si riflette la forza d’urto
dell’avanzata a sinistra.
Se oggi qualcuno scopre nel testo delle Br una efficace critica della dc,
vuol dire che l’arretramento delle idee politiche s’è fatto precipitoso.
Le Br odierne, se pure di loro si tratta, ci hanno contato.
E il partito comunista farebbe bene a misurare lo spazio che ha lasciato
scoperto e l’ampiezza di manovra che esso offre.
Consente infatti ai brigatisti di fare degli ammazzamenti, sequestri e ora
relativa ideologia, i cardini d’una doppia operazione: far saltare la
democrazia cristiana o parte di essa fuori dal «compromesso democratico» e
indebolire la credibilità della sinistra, nel momento in cui si attua una
destabilizzazione a destra.
da «il manifesto» del 28 marzo 1978, ripubblicato sull’edizione in
edicola il 17 marzo 2018
Rossana
Rossanda intervista Salvador Allende
Questa conversazione si è svolta al Palazzo presidenziale della Moneda, a Santiago del Cile, ai primi di ottobre del 1971, circa un anno dopo l’ascesa al potere di Unidad Popular con la vittoria di Salvador Allende, socialista, alle elezioni presidenziali del 1970. Essa si colloca alla fine della fase felice dell’esperienza cilena: la partecipazione popolare è, in certi settori, ancora intensa, la destra sta appena preparandosi a levare il capo – le prime manifestazioni avrebbero avuto luogo un paio di mesi dopo – il viaggio di Fidel Castro, iniziato, con prudenza, è terminato in un crescendo di entusiasmo.
Poi il clima
si sarebbe rapidamente teso fra Allende e l’alleato obbligato alle Camere, la
Democrazia cristiana di Frei, fra socialisti e comunisti (questi ultimi più
inclini al compromesso), fra socialisti e Mir, incline invece a una
radicalizzazione. La crisi del rame; l’inflazione galoppante, il relativo
isolamento mondiale permisero all’esercito, appoggiato dalle grandi compagnie
americane espropriate, di preparare il colpo di stato dell’11 settembre1973.
Salvador Allende si difese armi alla mano nel Palazzo della Moneda, e lì mori
mitragliato dagli uomini di Pinochet. I materiali di questo e altri
servizi sono stati pubblicati in proprio in un volume del manifesto: Sul Cile.
Se vincono i militari non sarà un cambio della
guardia a Palazzo. Sarà il massacro
18 ottobre
1971, Santiago del Cile
Salvo
qualche svolazzo nei comizi, il parlar politico a Santiago non ha nulla del
cliché latino-americano: poca retorica, uso moderato degli aggettivi,
inclinazione marcata a vedere il pro e il contro e a non mettere eccessive
ipoteche sul futuro.
Il Cile
sembra in attesa, prudente come un gatto, ma niente affatto addormentato: se si
chiede a chiunque – e si può chiederlo a chiunque, dall’intellettuale
all’operaio al tassista alla commessa, perché sono «politicizzati» tutti –
nessuno risponderà categoricamente. Ma non perché il cileno sia, come si ama
dire per natura «istituzionale» e quindi tranquillo; ma perché sa, e non lo
nasconde, che la situazione è instabile.
Il
personaggio più categorico che ho incontrato è il cileno per eccellenza, il
presidente Salvador Allende Gossens; il quale, come tutti i suoi compatrioti,
misura le parole ma oggi più d’un anno fa (al tempo, per intenderci, della
conversazione con Regis Debray [pubblicata in volume da Feltrinelli, ndr])
è perentorio nelle intenzioni e previsioni, perché deve perentoriamente giocare
le sue carte, e in fretta.
Ho parlato a
lungo con Allende durante una colazione al palazzo presidenziale. Era offerta a
Paul Sweezy, Michel Gutelman e me, invitati dalle due università di Santiago a
un seminario sulle «società di transizione».
Questa
nostra presenza aveva così sovranamente irritato i comunisti, che questi
avevano disertato i lavori del seminario e ci avevano mosso un attacco di
straordinaria volgarità sul loro foglio non ufficiale – una sorta di Paese
sera che si adorna del nome, di pretta ispirazione nazionalistica,
di Puro Chile – definendoci «gringos ignorantes», rinnegati
«pekinistas» e simili. L’invito del presidente, che pure ha solidi legami con
il Partito comunista cileno, voleva dunque essere una lezione di stile: non
ignorava infatti che nessuno di noi, per essere invitato del governo, aveva
lesinato i suoi dubbi o contraffatto le sue posizioni.
Pochi minuti
dopo che eravamo seduti accanto a tavola, mi chiedeva con un sorriso «C’è
qualcosa che la persuade, compagna, in questo paese?». «È importante quel che
lei sta tentando signor presidente (e mi blocca subito. «Non signor presidente,
compagno. Sono un compagno, come lei»). Ma di qui al socialismo la strada mi
pare ancora lunga». Non è una risposta che lo entusiasma, però acconsente: «Sì,
è una strada difficile».
Ma non è un
terreno su cui gli interessa restare: gli importa che capiamo come si muove,
quel che vuole, soprattutto la dimensione delle difficoltà che incontra e sulle
quali non stende veli ottimistici.
Appena
entrato nella sala dove lo attendevamo, nel modesto palazzo presidenziale,
Allende, piccolo, più rotondo e acceso in volto che non sembri dalle
fotografie, palesemente affaticato ma con piglio sicuro ci aveva abbordato
direttamente: «Vi ringrazio di essere venuti, siete dei formatori dell’opinione
nei vostri paesi, è per noi di grande importanza che sappiate e diciate che
cosa è il Cile oggi».
E dopo poche
civetterie («io sono un medico, faccio il politico per forza») il discorso fila
subito al sodo.
E parte
dalle difficoltà presenti. Anche di ordine internazionale? «Anche, mi risponde.
Abbiamo quattromila chilometri di frontiera, nessuno li può difendere. Ci siamo
trovati qui in fondo al continente, soli. E diamo fastidio a molti».
Il
riferimento al Brasile, nome non pronunciato, è evidente, come dovunque in
America latina: forte, violento ed espansionista, ha diretto il colpo di stato
in Bolivia, togliendo ad Allende un possibile polo di alleanza. «Non penso a un
attacco militare. Ma è essenziale per noi non essere isolati. È stato Lanusse,
il presidente argentino, ad aprirmi le porte dei paesi del patto andino. Certo
– e mi dà un’occhiata, giacché non ignora quel che ne pensano gli esiliati
politici argentini in Cile – anche lui ha avuto il suo interesse in questa
operazione. Ma per il momento il maggior vantaggio lo abbiamo avuto noi».
Ed ha
ragione: concordando una linea con Lanusse s’è rafforzato di fronte agli Stati
uniti e ha tolto un possibile retroterra alla destra cilena, che non aveva
fatto mistero di contare sui militari dell’immenso vicino, steso dorso a dorso
sul Cile lungo la cresta della Cordigliera. «Ora possiamo dirci sicuri nel Cono
Sud, anche se il colpo di stato in Bolivia è un fatto grave». Grave, ma finisce
perfino col giocare in favore di Allende: il colonnello Banzer rispolverando
imprudentemente l’antica rivendicazione boliviana di uno sbocco sul mare a
spese del Cile, rifà di colpo l’unità dell’esercito – che resta il punto più
incerto nel disegno allendista – attorno al presidente.
Ma gli
americani? Come valuta Allende le dichiarazioni di Rogers dopo il rifiuto
dell’indennizzo alle miniere nazionalizzate, un gesto di dispetto o una
minaccia reale?
«Una
minaccia reale – afferma –. Molto più seria di quanto nessuno, qui e altrove,
sembri rendersi conto».
E ribadisce
la sua argomentazione, già espressa nella secca risposta al Dipartimento di
stato: gli Stati uniti non si rassegnano che un paese rivoglia le ricchezze che
gli sono state rapinate, (tanto più che questo gesto cileno costituisce un
pericoloso precedente) e scaricano il ricatto su tutta l’America latina. Ma,
differentemente da quanto afferma il settimanale Newsweek e,
appena più ipocritamente, il grande giornale di Santiago nemico di Allende,
il Mercurio, il governo di Unità popolare non solo non punta alla
rottura, ma si muove con estrema prudenza, puntando a fondo solo dove, come nel
caso delle miniere, il diritto è innegabilmente dalla parte sua.
Tutta
l’operazione del conteggio sugli indennizzi all’Anaconda e alla Kennecott, che
doveva arrivare al clamoroso: «Non solo non vi dobbiamo niente, ma siete voi
che ci dovete ancora circa quattrocento milioni di dollari», è stata condotta
senza fragore, con il minimo di ricorso agli slogan e un massimo di copertura
da parte di esperti internazionali.
«Gli Stati
uniti possono danneggiarci molto. Tutti i pezzi di ricambio per l’industria del
rame vengono dagli Stati uniti. E così i reattivi. Possono bloccarci la
produzione da un giorno all’altro».
Andrà così?
«Speriamo di no. Abbiamo bisogno per questo dell’appoggio internazionale».
Quali sono,
domando, le difficoltà più gravi a breve scadenza?
Anche qui
una risposta senza perifrasi: «Approvvigionamento e divise». Il Cile ha bisogno
di importare, da sempre, alimentari e oggetti di consumo: aumentati i salari
per un valore reale che è calcolato a circa il 40%, ne è seguita una crescita
della domanda dei beni di consumo. E questi devono venir dall’estero: quasi
trecento milioni di dollari quest’anno, di più l’anno prossimo. Poi occorre
pagare una quota di 360 milioni di dollari l’anno per coprire il debito estero,
paurosamente aumentato con la nazionalizzazione delle miniere. E non è un
mistero che le riserve si stanno facendo esigue, sono ormai non più di 100
milioni di dollari.
«Dovete
proprio pagare?». Il presidente mi guarda di sbieco: «Il Cile terrà fede.
Pagheremo».Sono le grandi banche mondiali, ed è un guaio farsele nemiche. L’una
voce e l’altra si portano via praticamente il gettito di quella sola fonte di
divise che è il rame. «Abbiamo bisogno di crediti», spiega Allende, e non finge
di averli trovati. «In questo campo tutto è aperto. Aperto il problema con i
paesi socialisti, stiamo trattando, niente è concluso, tutto è in discussione».
C’è l’
Europa, ma è lontana e, come saprò poi, la Fiat che pareva interessata a una
facilitazione di rapporti per una grossa installazione in Cile, si è improvvisamente
coperta da mille garanzie governative. C’è la Germania. C’è il Giappone con
tutti quei milioni e milioni di dollari imbarcati quest’estate: dovrà pure
metterli da qualche parte. E infatti, s’è affacciato anche il Giappone.
Ma è chiaro
che nessun paese oggi, di fronte all’irritazione americana – e forse all’
incertezza sul destino interno di Allende – ha finora puntato a una forte
concessione di crediti al Cile, la cui riconversione industriale non sarà cosa
di pochi giorni e dove la riforma agraria costerà, per un pezzo, più che non
renda.
La cautela
sovietica, poi, è manifesta. Che questo sia il problema numero uno, Allende non
lo nasconde; così come la certezza, se risolve questo, di regolare tutto il
resto. Con la destra e con la sinistra.
A destra, è
arrivato ormai ai ferri corti con la Democrazia cristiana. «Sono tutti contro,
tutti coalizzati». «Tomic, inizialmente, però, si comportò diversamente?». «Sì,
ma oggi sono tutti dall’altra parte»; lo dice con rabbia, amarezza, con un
mezzo sorriso, che sottintende i limiti dell’opposizione di destra.
«L’esercito,
però, per il momento è neutralizzato». L’esercito cileno, mi spiega come tutti
in questo paese, non è il tradizionale strumento del golpismo; è espressione
d’un ceto medio fortemente istituzionale. Tuttavia, differentemente da altri,
il compagno presidente non sembra cullarsi in troppe illusioni; dosa gli
aggettivi, e si contenta per ora, d’una «neutralità». Per questo gli è
essenziale una politica di acquisti all’estero, che non gli alieni, attraverso
una restrizione dei consumi, il ceto medio e non fornisca una base di massa ai
nervosismi d’una destra assai più ramificata che non sia il partito di
Alessandri.
Tanto più
che uno scontro si avvicina sulla famosa legge che delimita le aree di intervento
statale. Allende s’è precipitato a nazionalizzare le industrie, rapidamente,
prima che il grosso dei capitali fugga; ma è ovvio che sotto la grandine,
nessun privato – salvo la piccola e media impresa, coperte – investa più
niente, e la Democrazia cristiana cerchi di delimitare – forte della minoranza
relativa di Unità popolare alle camere – fin dove il governo possa andare
nell’esproprio. Ha quindi proposto di elencare le aree di possibile intervento
statale, quelle di intervento misto, quelle lasciate ai privati. Allende mi
spiega il meccanismo, e afferma che, se non si va a un accordo, bloccherà la
legge, con un veto presidenziale, se passerà alla Camera e che presenterà una
legge propria attraverso un plebiscito. A questo si tratta di arrivare
riducendo al minimo il margine di consenso di massa dell’avversario. E
l’avversario lo sa.
La partita
si gioca a tempi stretti, e la preoccupazione di Allende è evidente; mentre mi
parla, a voce bassa e frasi brevi – la tavolata è troppo grande per non dividersi
in una serie di colloqui a due, ciascuno col vicino – Allende mangia pochissimo
e non sembra incline a diplomatizzare niente. «Come ha trovato lo spirito della
gente?», mi domanda. Rispondo che il paese sembra, apparentemente, privo di
tensione: la passione più grande sta nella giovane leva chiamata al governo, e
poi nel Mir. Una partecipazione di folla, di base non si vede. «Le masse
possiamo mobilitarle quando vogliamo». «Ma non è importante che si mobilitino
da sé? Se la situazione è difficile, non sarebbe bene che le masse avessero i
propri strumenti di intervento?». Qui Allende non mi segue, anche se un momento
dopo gli balenerà un sorriso dietro gli occhiali, ricordando che «la compagna è
«ultraizquierdista».
«Le masse
debbono mobilitarle e organizzarle i partiti; è affar loro. Ci sono i partiti,
i sindacati. Come ha trovato il partito socialista?». A me è parso
interessante, come una spugna che assorbe forze diverse, meno chiuso del
partito comunista e più capace di riflettere le spinte contrastanti di una base
politica investita da una situazione nuova; Allende lo trova poco organizzato,
e con ragione.
Mi dice che
non ha tempo di occuparsene, anche se partecipa a una riunione di partito ogni
mercoledì e venerdì. Ma è chiaro che altro lo preoccupa proprio perché esce dal
suo orizzonte politico – e cioè l’abbozzarsi di una presenza di massa, o di
classe, quale sta sollecitando il Mir con le occupazioni contadine, che non sta
alle regole del gioco politico – istituzionale.
Queste
masse, questo Mir che possono sfuggire a un ritmo concordato, vanno – anche se
non lo dice a tutte lettere – «neutralizzati» o almeno «canalizzati» anch’essi.
E non a caso mi assicura che i suoi rapporti col Mir sono, sul piano personale,
ottimi: sua figlia, Laura, che è medico – mi spiega – ha un figlio che è un
quadro del Mir e ce li ha sempre, lui e i suoi compagni, per casa. In Cile,
questi legami contano.
Poco dopo
però quando, terminata la colazione, io, un po’ imbarazzata di avere
monopolizzato il presidente, cercherò di allontanarmi e lasciarlo agli altri,
l’accento cambia. Il discorso è caduto sul processo che proprio Allende ha
intentato qualche giorno prima a un suo nipote mirista – «Capite, che sia mio
nipote non conta!» – il quale sul foglio del Mir, il Rebelde ha detto qualche
parola di più contro l’esercito.
Il
presidente si accende: «Non si gioca col fuoco. Non tollererò provocazioni
irresponsabili. Se qualcuno crede che in Cile un colpo di stato dell’esercito
si svolgerebbe come in altri paesi latino-americani, con un semplice cambio
della guardia qui alla Moneda, si sbaglia di grosso. Qui, se l’esercito esce
dalla legalità è la guerra civile. È l’Indonesia. Credete che gli operai si
lasceranno togliere le industrie? E i contadini le terre? Ci saranno centomila
morti, sarà un bagno di sangue. Non tollererò che si giochi con questo».
Lo pensa
davvero; ma, ancora una volta, come per il rapporto con le masse, vede la sola
garanzia nei tempi che egli stesso dà all’operazione, nel suo stile di
«violenza legalitaria», unito a una rara abilità di scompaginare il fronte
nemico. Ogni iniziativa di classe più diretta, più elementare, rischia di far
precipitare negativamente gli equilibri.
Dubito che
il nipote, el sobrino, vada in galera; ma le bacchettate sulle dita
al Mir sono ormai di rigore. E così, quando occorre, un richiamo all’ordine
degli operai. Mentre stiamo per congedarci, in capo a due ore e mezza, Allende
racconta che sta per partire al nord, verso l’immensa miniera di rame di
Chuquicamata, i cui operai hanno chiesto un clamoroso aumento di stipendio, dal
50 al 70% in più. «Non si può. Glielo vado a dire. E perché devono fare uno
sciopero? Contro chi sono in guerra? Sono loro, ormai, i padroni della
miniera». «Non sono loro i padroni, compagno presidente. È lo stato ». Il
dottor Allende mi fulmina come un malato recalcitrante. «Il popolo è il
padrone». «Beh, compagno presidente…». «Lo è. Lo sarà!».
Un momento
dopo, già congedati, mi richiama. «So che domani va a Concepción. Ne sono
contento. È importante che veda Concepción. Vorrei che parlassimo dopo, con
calma». Il fatto è che a Concepción l’invito viene dall’università «mirista»,
ed è là che il Mir ha organizzato soprattutto la presa delle terre.
Allende, che
già mi ha fatto trasecolare dimostrandosi informato di quel che è il
manifesto, crede nelle virtù del dibattito, vuole convincere, difendere il
«suo» Cile, la sua linea, conquistare tutti, «ultraizquierdisti» compresi.
Ma il «dopo»
non ci sarà e io non rivedrò più il dottor Allende.
Fra il
ritorno da Concepción e la mia partenza non c’è che un giorno; e la sera prima
è scoppiato uno scandalo clamoroso. La destra agraria ha pensato,
imprudentemente, di denunciare lo «statalismo» del governo, che minerebbe i
valori della proprietà e dell’iniziativa contadina, in occasione dell’apertura
della Fiera agricola latino-americana, in presenza di ministri e ambasciatori.
Allende, che
doveva presenziare, riesce a vedere solo un’ora prima il discorso di Benjamin
Matte, una sorta di Bonomi locale che si credeva, forse, coperto dall’essere
presidente dell’istituto per i rapporti con Cuba.
Inferocito,
il presidente non solo non andrà a inaugurare la Fiera, ma ingiungerà a Matte
di leggere, prima del suo discorso, una lettera di lui, Allende, in cui gli dà
senza mezzi termini dell’irresponsabile. La Fiera si apre in un clima
indicibile, con la gente che applaude freneticamente la lettera di Allende, il
Matte che tenta di parlare in mezzo a fischi e grida di «momio, maricon!»
(«Mummia, finocchio»), ambasciatori e ministri che se la squagliano, paesi
amici che chiudono precipitosamente i padiglioni.
L’indomani
sensazione nei giornali, consiglio dei ministri, burrasca violenta con la
democrazia cristiana. Impossibile vedere il presidente, e si capisce.
Ma anche
questo episodio completa il ritratto dell’uomo: è forse, anzi, il terreno su
cui è più forte, imbattibile. La ragione per cui amici e nemici, a destra e
sinistra lo rispettano. Parlano di lui, «el Chicho», con un misto di affezione
e dispetto. Ne elencano i difetti, ma con riserva.
Si può
essere, come il Mir, su posizioni radicalmente diverse – ma nessuno gli nega
una determinazione da uomo politico di grande statura; un vecchio socialista
che, differentemente dal costume dei socialisti e dei presidenti, in America
latina e altrove, non andrà a compromessi.
Il dottor
Allende ha tentato tre volte di andare al governo per portare a termine il suo
esperimento; ora non lo mercanteggerà con nessuno. Resta da vedere la stabilità
interna del suo progetto: se è destinato a durare, o a precipitare verso una
sconfitta o verso quella rivoluzione che Allende crede di aver già fatto.
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