martedì 31 gennaio 2023

LA PENISOLA DELTA: METAFORA DELLA DISTRUZIONE DEL MONDO - Carlo Bellisai

 

La Terra è vasta e ci sono tanti luoghi remoti di cui si parla poco, o non si parla. Non si parla della plastica che viaggia sul Po, sul Reno e sul Danubio, tantomeno di quella sul Gange. Avete avuto notizie dei popoli dell’Oceania che rischiano di essere sommersi, a causa dell’innalzamento del livello del mare? O della situazione degli indios dell’Amazzonia, assediati dagli speculatori e dalle bande armate? Ma non è una questione di distanze: talvolta anche ai luoghi più prossimi non si presta la dovuta attenzione.

E’ questo il caso di quel promontorio costiero del sud-ovest della Sardegna, che geograficamente termina a mare con il Capo Teulada, ma che militarmente viene denominato PENISOLA DELTA.

Siamo all’interno del poligono di Capo Teulada, un territorio complessivo di 7.200 ettari, istituito nel 1956. Qui gli eserciti della NATO e anche quelli di altri paesi, più o meno alleati, si esercitano mettendo in campo armi vere, che distruggono la natura e quindi i vegetali, gli animali, gli uomini, che ne respirano l’aria. Si è calcolato che nel piccolo agglomerato di Foxi, sito a pochi chilometri in linea d’aria dalla Delta, l’incidenza di leucemia e tumori e molto più alta che nei territori vicini. La penisola delta rappresenta solo il 4% del territorio della base militare, esattamente quello che viene utilizzato per i bersagliamenti. Da atti depositati alla Procura si evidenzia che dal 2008 al 2016 il sito è stato bersagliato da 860.000 colpi, fra cui almeno 11.785 missili M.I.L.an. Quel che si evince dalle poche foto satellitari rese pubbliche è che la copertura vegetale del promontorio è quasi del tutto scomparsa.   A questo proposito va ricordato che, in alcune aree interne al poligono e immediatamente adiacenti, sono stati da tempo istituiti due Siti di Interesse Comunitario: l’Isola Rossa, meta di colonie di uccelli marini, e Dune Bianche di Porto Pino, splendida conformazione di alte dune di sabbia costiere. Sito, quest’ultimo, totalmente all’interno della base ed aperto alla fruizione pubblica solo nei mesi estivi.

Ora che i vertici militari del Poligono di Capo Teulada sono sotto processo a Cagliari per disastro ambientale, l’apparato tenta la carta della proposta di un progetto di bonifica della penisola delta. Il 15 dicembre 2022 è stata depositata alla Regione Sardegna, la richiesta di una “valutazione di incidenza ambientale” per una possibile bonifica della Penisola Delta. Ma il progetto presentato appare lacunoso, generico e soprattutto gestito dai soli militari, senza partecipazione civile e senza coinvolgimento delle associazioni ambientaliste.

Quello che si propone è infatti di sgombrare un po’ quell’area, per ricominciare a bersagliarla come prima.

C’è inoltre il precedente dell’”Operazione Pasubio”, svolta dai militari dal 2014 e conclusa solo nel 2021. Consisteva nella creazione di un sentiero e nella bonifica dei materiali riscontrati nelle zone limitrofe. Fonti dello stesso Ministero della Difesa attestano che il totale di area bonificata corrisponde ad appena un settantesimo della superficie totale della Delta. E ci hanno impiegato sette anni, con l’impiego di oltre novanta soldati ed identificando, tra l’altro, numerose testate inesplose. Possiamo dar loro credibilità?

Su questo tema si è svolto un interessante convegno-dibattito alla MEM di Cagliari lo scorso 14 gennaio. Il prezzo delle servitù militari è sempre più salato per la Sardegna, in termini di inquinamento e degrado ambientale, di salute pubblica, di occupazione territoriale, di perdita economico-turistica. L’immagine stessa della nostra isola, bella perché ancora in parte naturale e selvaggia, viene deturpata dall’ingombrante presenza delle armi e della guerra, obbrobrio della storia umana.

Le sorti della Penisola Delta e del a noi caro Capo Teulada, geografia della Sardegna, sono anche una metafora sul futuro del nostro pianeta. Stanno fingendo di bonificarlo, allo scopo di continuare a distruggerlo. Questa avidità, questa ingordigia di un sistema economico predatorio che continua a violentare quella natura cui noi stessi apparteniamo, si estende in tutto il mondo. Questo folle progetto, che pone le gesta umane al di fuori del contesto naturale e della stessa biologia, risulterà comunque sconfitto dalla Storia.

Se ci sarà ancora chi potrà raccontarla.

da qui

 

L’angelo della storia: rileggendo Benjamin - Alessandro Visalli

  


“9. C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”[1].

 

Siamo nel 1940, una data decisiva per comprendere il testo, Walter Benjamin rompe radicalmente, nel manoscritto detto delle “Tesi di filosofia della storia[2] con tutta l’ideologia del progresso che è tanta parte del marxismo. L’operazione che il grande intellettuale ebreo compie è di ibridare nel corpus rivoluzionario marxista elementi derivanti sia dalla critica romantica della civilizzazione, sia dalla tradizione messianica ebraica. Sono allora sedici anni, da quando ha incontrato il marxismo attraverso la lettura di Lukács e l’incontro caprese con la russa Asja Lacis, e quindici da quando in “Strada a senso unico[3] riconosce nella rivoluzione un esito non già inevitabile, o naturale, quanto una sorta di estrema difesa davanti al disastro. Un “tagliare la miccia accesa” prima dell’esplosione.

Il lavoro che compie sul marxismo, in particolare a metà degli anni Trenta, è da allora rivolto a dissotterrare le componenti romantiche ed antiborghesi che lo stesso Marx recepisce, ma che sono sepolte abbastanza accuratamente dal marxismo tedesco nella fase della sua affermazione politica. Per riuscirvi occorreva abbattere due feticci: le illusioni del progresso e l’idealizzazione del lavoro industriale. Ovvero prendere le distanze da quegli elementi dell’ideologia borghese ottocentesca transitati nella teoria, per liberarne il potenziale critico. Prendendo con cura le distanze, in particolare, da quel mix di positivismo e marxismo, evoluzionismo darwiniano e culto del progresso che si identifica con la socialdemocrazia tedesca tra la fine dell’Ottocento ed i primi decenni del Novecento. Dove, in particolare, il progresso è identificato sotto forma dello sviluppo delle scienze naturali e delle capacità di manipolazione della natura regalate dalla tecnica, restando insensibili ai fattori di regressione sociale spesso implicati necessariamente.

 




Qui cadono i manoscritti terminali sulla Filosofia della Storia, di pochi mesi precedenti alla drammatica e prematura morte.

 

“Articolare storicamente ciò che è passato non vuol dire conoscerlo ‘come è stato veramente’. Vuol dire impadronirsi di un ricordo per come balena nell’istante di un pericolo”[4].

 

Un ricordo che balena nell’istante del pericolo, formidabile formula benjaminiana. Oggi il “pericolo” al quale chiama la riflessione è questo ridursi di tutto “a strumento della classe dominante”. Di fronte a ciò bisogna “cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla”, beninteso perché in essa ci sono semi in attesa. Questi ‘semi’ che sono anche un lascito e un impegno. Quello a riscattare nella memoria e riparare la sofferenza dei vinti, compiendo gli obiettivi per i quali hanno lottato. Queste lotte che, rammemorate in tutta la loro tragica complessità ed incompiuta grandezza, stanno dietro noi, o avanti, con il dolore che è stato e quello che sarà. Se il significato più compiuto della formula vaga ‘materialismo storico’ è la pratica feconda di una storia come lotta permanente tra oppressori ed oppressi, come vorrebbe Benjamin, allora il solo modo di onorarlo è rispettare la richiesta muta dei vinti. Saper essere anche l’esecutore del testamento che resta nelle nostre mani da molti secoli di lotta e sogni di emancipazione.

Continua la “tesi VI”:

 

“Per il materialista storico l’importante è trattenere un’immagine del passato nel modo in cui si impone imprevista nell’attimo del pericolo, che minaccia tanto l’esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari”.

 

Ciò, perché il pericolo è sempre di divenire, senza avvedersene, l’ennesimo strumento nelle mani della classe dominante. Questo è il problema sul quale l’intero testo che avete per le mani si affatica. Evitare sia la falsificazione e l’oblio delle lotte, sia, soprattutto, lo sfruttamento dell’energia della moltitudine contro di essa. L’accelerazione verso il burrone dell’ennesima sconfitta, del tradimento di sé e del pieno trionfo, ancora ed ancora, dei pochi e felici contro i molti e ciechi. Michael Lowy riporta[5] un passo contenuto nelle note preparatorie, che richiama direttamente la metafora del ‘sistema frenante’:

 

“Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno di emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno”.

 

Traspare qui la critica di fondo all’atteggiamento attendista della socialdemocrazia tedesca che rileggeva la secolarizzazione del messianesimo prodotta da Marx e la sua idea del comunismo come società senza classi, con strumenti neokantiani proiettandola all’infinito (mentre in Marx è hegelianamente inquadrata dialetticamente nel quadro della “lotta”). Da Schmidt a Stadler, o Natorp, e Volrlander, i principali ideologi socialdemocratici tedeschi del tempo si pongono quindi con calma, come nell’anticamera del tempo, ad aspettare l’inevitabile sopraggiungere (un giorno) della “situazione rivoluzionaria”. Per Benjamin, al contrario, fino a che si attende passivamente essa non giungerà mai. Rileggendo invece la storia come prassi umana, ricca di possibilità e soprese, si riconosce che ogni istante racchiude un “potenziale”, che va attivato. È necessario anzi attivarlo con urgenza, proprio perché nella visione proposta i binari del treno si dirigono irresistibilmente verso l’abisso.

Scriverà nelle “Tesi”:

 

“Nulla ha corrotto la classe operaia tedesca come l’opinione di nuotare con la corrente. Lo sviluppo tecnico era il filo della corrente su sui credeva di nuotare. Di qui c’era solo un passo all’illusione che il lavoro di fabbrica, trovandosi in direzione del progresso tecnico, fosse già un’azione politica”[6].

 

Nella tesi 13, più profondamente, il concetto di progresso è affrontato direttamente, relazionato ad un’immagine della storia come se percorresse, indefinitamente ed eternamente, un tempo “omogeneo e vuoto”. È dunque “la critica dell’idea di questo processo [che] deve costituire la base della critica dell’idea di progresso come tale”. E questa critica consiste nel rileggere la storia come il luogo di un tempo non vuoto ma “pieno di ‘attualità’” (Jetztzeit). Ad esempio, la Roma, cui si riferiscono i giacobini durante la rivoluzione, è quel “balzo di tigre nel passato” che lo riattiva, che rende attuale un elemento nella “selva del passato”, facendo l’unica vera operazione rivoluzionaria. Anzi creando ciò che la rivoluzione propriamente è: il salto del continuum della storia nell’attimo dell’azione (tesi 15). Il materialista storico, per Benjamin (ovvero il rivoluzionario), si attiene ad un concetto del presente in cui vive come istante in bilico. In bilico nel tempo ed immobile. Non in passaggio ed in attesa. Egli quindi in questo istante in bilico “per suo conto scrive la storia”. In ogni secondo intravede, come gli ebrei, “la piccola porta dalla quale poteva entrare il Messia”[7].

Con questo testo si manifesta il tentativo di tenere insieme, in qualche modo, di rivitalizzare dal suo incipiente grigiore, il materialismo storico con elementi coscientemente messianici e libertari. Ovvero di fonderlo con una teologia appena nascosta (come il nano nell’automa della prima tesi) e anche con elementi anarchici. Si tratterebbe, secondo una famosa lettura di Habermas[8], di integrare la concezione anarchica dei ‘tempi-ora’, che “attraversano con intermittenza il destino, a guisa di folgori”, con la teoria materialistica dello sviluppo sociale. Ovvero, secondo l’aspra critica del filosofo ex francofortese, il “cappuccio fratesco di una concezione antievoluzionistica della storia”. Malgrado l’idiosincrasia del modernista ed evoluzionista filosofo tedesco, che torna sul tema in “Il discorso filosofico della modernità[9], questi individua correttamente il punto: la rivoluzione per Benjamin non corona, attendendola, l‘evoluzione storica. Essa, piuttosto, interrompe (con un “balzo di tigre”) la continuità storica della dominazione[10]. E per farlo, tra l’altro’ “spazzola la storia contropelo” (Tesi VII), prestando nuovamente orecchio a chi è caduto nel tempo sotto, come scrive Lowy, “sotto le ruote dei carri maestosi e magnifici chiamati Civiltà, Progresso e Cultura”[11]. Lo onora, ricordandolo con il più alto senso del presente[12] e battendosi, appunto, controcorrente.

Il tentativo di Benjamin, dunque, si spende nello sforzo di conciliare materialismo e messianismo, cosciente ed esplicito, quindi di radicare l’utopia dal ‘punto di vista dei vinti’. Si manifesta come aspirazione al riscatto che resiste contro ogni forza, ma si radica nella storia e nella materia. Che agisce nel produrre quella ‘scissione irrimediabile’[13] nei confronti della sopravvivenza della cultura borghese ottocentesca entro il cuore stesso del marxismo. È un passo di montagna che va superato.



[1] - Walter Benjamin, “Tesi di filosofia della storia”, 9. In Angelus Novus, Einaudi, 1962.

[2] - In realtà il titolo è incerto, sulla copia T4b del manoscritto è “Geschichtphilosophische Thesen”, mentre nel T4a “Uber der begriff der Geschichte”, e Adorno gli diede invece “Geschichtphilosophische Reflexionen”.

[3] - Walter Benjamin, “Strada a senso unico”, Einaudi 1983 (ed. or. 1928)

[4] - Walter Benjamin, “Sul concetto di storia”, 6, in Senza scopo finale. Scritti politici (1919-1940), Castelvecchi 2017 (p.242). Anche in “Angelus novus”, Einaudi, 1962, p. 77.

[5] - Michael Lowy, “La rivoluzione come freno d’emergenza”, Ombre corte, 2020 (ed. or. 2019), p. 47.

[6] - Walter Benjamin, “Sul concetto di storia”, in “Angelus novus”, Einaudi, 1962, p. 81

[7] - Cit., p. 86

[8] - Jurgen Habermas, “Critica che rende coscienti o critica che salva. L’attualità di Walter Benjamin”, in “Cultura e critica”, Einaudi 1980 (ed.or. 1973), p. 233.

[9] - Jurgen Habermas, “Il discorso filosofico della modernità”, Laterza, 1987 (ed. or. 1985).

[10] - Secondo le sue parole: “Benjamin si impegna in un drastico rovesciamento del rapporto tra orizzonte delle aspettative e ambito dell’esperienza, attribuendo a tutte le epoche passate un orizzonte di aspettative insoddisfatte, ed al presente orientato verso il futuro il compito di sperimentare nella rimemorazione un passato di volta in volta corrispondente in modo tale che noi possiamo soddisfarne le aspettative con la nostra debole forza messianica”. Habermas, cit., p. 14.

[11] - Michael Lowy, “Segnalatore d’incendio”, op.cit., p. 73

[12] - Qui il riferimento obbligato è al Friedrich Nietzsche di “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”, Newton Compton, 1978 (ed. or. 1874).

[13] - In una lettera ad Horkheimer, spedita il 22 febbraio 1940, Benjamin scrive: “Ho appena terminato di scrivere un certo numero di tesi sul concetto di storia. Queste tesi si collegano, da un lato, alle concezioni che si trovano abbozzate nel capitolo I dei ‘Fuchs’. D’altro canto, esse devono servire da armatura teorica al secondo saggio su Baudelaire. Costituiscono un primo tentativo di fissare un aspetto della storia che deve stabilire una scissione irrimediabile tra il nostro modo di vedere e le sopravvivenze di positivismo che, a mio avviso, connotano così profondamente persino quei concetti di storia, che, in sé stessi, ci sono più prossimi e familiari” (cit. in. Michael Lowy, “Segnalatore d’incendio”, Ombre corte, 2022 (ed. or. 2014).

da qui

lunedì 30 gennaio 2023

Da Wikileaks i documenti sull’internazionale dell’estremismo cattolico - Matias Gadaleta


 

Dall’organizzazione ultra cattolica spagnola Hazte Oir il sito mette a nudo la diplomazia ultraconservatrice e le sue modalità di influenza

Sono oltre 17 mila i documenti pubblicati il 5 agosto scorso da Wikileaks sotto il nome di “The Intolerance Network”. Si tratta di documenti interni e confidenziali appartenenti alle organizzazioni cattoliche spagnole ultraconservatrici Hazte Oir e CitizenGo.

Entrambe fanno parte della coalizione di associazioni che organizzano il Congresso Mondiale delle Famiglie (World Congress of Families) che nel 2019 si è tenuto a Verona.

Il WCF riunisce organizzazioni di destra che promuovono l’opposizione ai diritti LGBTQI+ e combattono l’aborto e l’eutanasia, è stato etichettato come un gruppo di odio dal Southern Poverty Law Center e un rapporto del 2014 di Human Rights Campaign ha dichiarato che “Il Congresso Mondiale delle Famiglie (WCF) è una delle più influenti organizzazioni americane coinvolte nell’esportazione dell’odio”.

I documenti risalgono al periodo 2001-2017 e riguardano la fondazione di CitizenGo e le prime attività di entrambe le organizzazioni. Tutto il materiale proviene dai loro sistemi interni e sono per lo più fogli elettronici dei donatori e dei membri, documenti di strategia e pianificazione, lettere, grafici finanziari e documenti legali.

Hazte Oír è stata fondata nel 2001 da Ignacio Arsuaga, amico intimo del leader del partito dell’estrema destra spagnola Vox, Santiago Abascal, che fonderà poi anche CitizenGO con l’intento di creare una piattaforma più internazionale della sua organizzazione estendendo le sue operazioni fino ad arrivare a una cinquantina di Paesi con sedi permanenti in 15 città.

IrpiMedia dal 2019 ha pubblicato svariate inchieste all’interno del progetto #OperazioneMatrioska in cui ha ricostruito le miriadi di organizzazioni Pro Life che ruotano intorno al WCF. Partendo dalle varie organizzazioni pro vita e ai rappresentanti dell’ultra destra che gravitano intorno alla Lega Nord e alla svolta cattolica del suo leader Matteo Salvini.  Su tutti Toni Brandi, elemento chiave e collante tra interessi dei paesi dell’Europa Orientale e Occidentale.

Per approfondire

Una serie di inchieste su come Putin sia diventato una figura di riferimento per le destre di tutto il mondo. Un’operazione in tre fasi: economica (il Laundromat), culturale (l’ascesa degli identitari) e politica (il Russiagate)

Si è poi analizzato il legame tra Stati Uniti ed Europa alla ricerca dei finanziatori e dei flussi di denaro che sostengono questa Lobby, una trama che va dalla Cei a vari esponenti del fronte sovranista oltre che a personaggi chiave come Ignacio Arsuaga, elemento di spicco di One of Us – Federation For Life and Human Dignity. Per lui i dieci anni di vita passati negli Stati Uniti sono fondamentali per venire a contatto con MoveOn.org, Christian Coalition, Americans United for Life e le altre organizzazioni statunitensi per il «diritto alla vita». Tornato in Europa diventerà uno dei diplomatici più determinanti dell’Internazionale sovranista.

Gregory Puppinck è invece l’avvocato pro-life “in missione” a Strasburgo, sede della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Dirigente della European Center for Law and Justice (Ecjl), organizzazione che difende in Tribunale le cause provita. Infine un ruolo delicato è ricoperto da Alexey Komov, Ambasciatore alle Nazioni Unite per Hazte Oir che è al contempo anche membro del direttivo della spagnola CitizenGo e presidente onorario dell’Associazione Lombardia-Russa. Lo studio si è spostato poi sullo stratagemma delle ‘terze parti’ che organizzazioni come ECLJ utilizzano per portare i loro interessi e influenzare addirittura le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Infine il capitolo sulla Russia che conduce a personaggi come Konstantin Malofeev, al finanziamento  di molte delle destre europee, al legame russo lombardo del leghista Savoini e dell’affaire Metropol.

da qui

domenica 29 gennaio 2023

Cos’è rimasto di Aaron Swartz?- Laura Carrer

 

Da piccola ho imparato molte cose da mio fratello. L’aspetto più bello che ricordo di quel tempo passato gomito a gomito è l’aver appreso molto senza la pretesa di farlo né di richiederlo, guardando e provando. Sono stata introdotta presto nel mondo di Windows ‘95 e ho imparato quali fossero i componenti e il funzionamento di un computer. Poi ho iniziato ad utilizzare la connessione ADSL, i forum, e ho scaricato film online. Nei pomeriggi al ritorno da scuola mio fratello mi introdusse anche nel mondo di mIRC, di BitTorrent e di eMule: il primo è un client di messaggistica istantanea così spartano che sembrava già di per sé misterioso. Vi accedevamo principalmente per leggere e contribuire a conversazioni su videogame. Cose da nerd insomma. Gli altri due servono invece per condividere con altre persone file di qualsiasi tipo come film, libri, musica. Utilizzarli non è illegale, ma scambiare materiale protetto da copyright è un illecito.

Mio fratello è nato nel 1986, quando venne fotografata la prima volta la cometa di Halley, si aprì il maxiprocesso contro la mafia, e avvenne l’incidente al reattore nucleare n. 4 della centrale di Černobyl’ in Ucraina. Un anno che, a guardarlo con il senno di poi, dice molto anche su informatica e Internet: i PC non erano ancora normalità nelle famiglie ma entra in scena (c)Brain, il primo virus diffuso sul sistema operativo MS-DOS di Microsoft, al tempo il più popolare al mondo. E nello stesso anno nasce Aaron Swartz.

Programmatore sin dalla giovanissima età, Swartz è morto suicida esattamente dieci anni fa, l’11 gennaio 2013. Certo mio fratello non ha incontrato Lawrence Lessig e Tim Berners-Lee mentre stavano creando l’infrastruttura grafica del moderno Internet e le licenze Creative Commons, ma nel suo piccolo aveva anche lui l’idea di trasmettermi conoscenza attraverso la filosofia hacker e l’open access. Anni dopo, all’università, non avevo sempre accesso ai paper scientifici che mi servivano per studiare o per curiosità. In questi casi è stato fondamentale quanto insegnatomi da mio fratello, che sembrava riuscire ad avere accesso a quasi tutto. Ma la questione era molto più ampia dell’esigenza di un singolo o delle soluzioni individuali. Lo avrebbe capito bene Swartz, pagando però in prima persona.

Aaron Swartz era una persona dotata non solo di intelligenza e dedizione, ma anche di empatia e attivismo politico. Nel suo racconto almeno una parola deve essere subito chiarita: chi sia un hacker. Hacker è colui o colei che non intende arrendersi davanti a un sistema confezionato, e partendo da ciò che si vede lo smonta pezzo per pezzo per scoprirne vulnerabilità o potenziali espansioni. Questo processo si può associare a molti altri campi oltre all’informatica ed è strettamente correlato al pensiero creativo di una persona.

Lo sforzo di Swartz di “aggiustare il mondo” e la condivisione della conoscenza

Il percorso di Aaron Swartz è esemplificativo di tutto ciò. Lo spiega bene il libro di Giovanni Ziccardi pubblicato lo scorso novembre da Milano University Press, Aggiustare il mondo. La vita, il processo e l’eredità di Aaron Swartzdisponibile in open access (ad accesso aperto e libero) proprio come avrebbe voluto lui. 

Ziccardi, professore associato di filosofia del diritto alla Statale di Milano, ha ricostruito, utilizzando documenti e informazioni pubbliche, la breve ma intensa vita di un programmatore, hacker e attivista politico che ha combattuto per alcune battaglie cruciali per la libertà di Internet. A costellare la breve vita di Swartz si possono elencare progetti tuttora importanti e attuali: Dive into anything è lo slogan di Reddit, sito di social news e forum di fama mondiale creato da Swartz con altri amici nei primi anni del 2000. E poi il suo contributo alle licenze Creative Commons, a Wikipedia e alla creazione del software cifrato per giornalisti SecureDrop (dal quale ha preso ispirazione l’italiano Globaleaks).

Se da una parte per Swartz i punti cardine di tutta la sua attività erano la trasparenza e la condivisione come forma di potere contro l’oppressione, dall’altra vi era il concetto di anonimato. La creazione quindi di strumenti a protezione delle fonti che veicolano informazioni non gradite a governi, multinazionali o al sistema in generale, questione che lo lega all’attivismo politico di cui si rende partecipe seguendo le orme di Tim Berners-Lee. In anni in cui molti dei primi programmatori e menti dietro alla tecnologia informatica iniziavano ad arricchirsi nella Silicon Valley, l’inventore del World Wide Web decideva di regalare al mondo ciò che aveva creato insieme a un altro informatico belga. L’intenzione di Berners-Lee era quella di consegnare alle persone uno strumento emancipatorio, che favorisse una ricaduta sociale mondiale che a quel tempo non poteva nemmeno essere immaginata.

Il Guerrilla Open Access Manifesto e la guerra contro Swartz

Quando è stato trovato morto, nel 2013, Swartz stava affrontando un procedimento legale molto duro che lo avrebbe potuto portare in carcere per 35 anni e che riguardava proprio l’accesso ad articoli scientifici. Come raccontato nel libro di Ziccardi, il fatto drammatico è preceduto dalla pubblicazione del Guerrilla Open Access Manifesto circa 5 anni prima. Lo scritto, molto breve, mette in chiaro due questioni principali: il fatto che “l’intero patrimonio scientifico e culturale del mondo, pubblicato nel corso dei secoli in libri e riviste, viene sempre più digitalizzato e bloccato da una manciata di società private”; e la necessità di un vero e proprio diritto ad accedere al lavoro accademico e scientifico pubblicato online.

La figura di Aaron Swartz l’ho conosciuta proprio nel 2013, quando mentre cercavo ricerche e trattati online sono incappata nell’Open access movement. “L’informazione è potere. Ma come ogni potere, c’è chi lo vuole tenere per sé”, si legge nel manifestoIl termine spagnolo guerrilla colse l’attenzione dell’FBI, nota ancora Ziccardi parlando della storia nel podcast di Valigia Blu sul caso Swartz, e fu il primo passo delle indagini nei suoi confronti. D’altronde Swartz invitava anche scienziati e ricercatori ad agire per liberare contenuti, a prescindere da quanto disponesse la legge

“A quasi undici anni di distanza, in alcune, grandi università il quadro è cambiato, ma rimangono ancora, in tanti ambiti, muri molto difficili da abbattere; lo scritto di Aaron, riletto ai giorni nostri, è quanto mai attuale”, scrive Ziccardi nella biografia dell’attivista.

Nell’ultimo anno della vita del giovane succede però il peggio. Quando alla conoscenza tecnica e informatica di sistemi molto complessi si affianca anche l’attivismo politico, il governo statunitense comincia a usare i mezzi legali. Nell’autunno 2010 Swartz aveva scaricato in modo automatizzato dalla rete del Massachusetts Institute of Technology milioni di articoli scientifici, rendendoli accessibili a chiunque. La banca dati violata è la conosciuta JSTOR, nata nel 1995 a New York, che ospita libri e contenuti accademici prodotti da 8.000 istituzioni internazionali. Explore the world’s knowledge, cultures, and ideas è il motto, e certo è vero. Al contempo però JSTOR non è accessibile a chiunque per via del costo al quale sono venduti i contenuti accademici. Un’esperienza comune per molti studenti. Infatti, nemmeno con le credenziali universitarie avevo accesso a tutto ciò che mi serviva per studiare. Alla fine era spesso il professore a passarci i suoi studi e le sue ricerche.

Ma quell’azione di Swartz è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, in due modi. Da una parte, c’è stata la dura reazione di JSTOR e dei vertici del MIT per eventuali violazioni di contratto e dei termini di servizio (posizioni modificatesi nel tempo). Se la ricerca è a pagamento, non è possibile scaricare i contenuti per poi renderli liberi online. Ma è indubbio siano i ricercatori a fare il lavoro vero e proprio: inventano una domanda di ricerca, eseguono esperimenti e scrivono paper scientifici al fine di spiegarli. A quel punto la conoscenza si scontra con un sistema che predilige il profitto alla libera circolazione di idee. Per ottenere riconoscimenti dalla comunità di riferimento, i ricercatori sono obbligati a pubblicare il lavoro su riviste accademiche di fama mondiale e sottostare alle loro regole.

Dall’altra parte, si è attivata anche la procura, l’attore più rilevante e che ha portato alle conseguenze più gravi. Negli Stati Uniti esiste infatti una normativa penale, il Computer Fraud and Abuse Act, che regola i reati informatici e gli accessi abusivi alle reti private, come le frodi informatiche. Quando venne ritrovato, in uno sgabuzzino del MIT, il PC di Swartz collegato alla rete dell’università e intento a scaricare centinaia di migliaia di articoli scientifici, la situazione precipitò.

Ben due processi, uno statale e uno federale, caddero sulle spalle del giovane. Il patteggiamento tra accusa e difesa non stava andando per il meglio, e Swartz aveva paura soprattutto per il suo futuro politico: voleva entrare nel sistema che combatteva per cambiarlo in meglio, per far sì che una reale trasparenza data dalla disponibilità aperta e senza vincoli di articoli e fonti potesse migliorare la conoscenza di tutti.

Prima di decidere di togliersi la vita, sotto le pesanti accuse di una normativa statunitense ampiamente criticata, Swartz ha scritto un testo chiamato “legacy”. “Il primo consiglio che Aaron lascia, riflettendo anche sulla sua persona e sul suo ruolo nel mondo è, in conclusione, quello di fare tutto ciò che gli altri non cercano di fare”, scrive Ziccardi nella biografia. Cambiare il sistema, non cercare di seguirlo, cambiare l’università e la sua natura, essere indipendenti dalla politica. 

Sci-Hub, le controversie legali, e l’accesso al sapere scientifico

E quindi a distanza di dieci anni ancora una volta oggi dobbiamo chiederci: qual è l’eredità di Aaron Swartz? Quanto successo e sta succedendo dopo la sua morte non promette bene, ma certamente ciò che ha lasciato il giovane programmatore smuove ancora l’iniziativa (politica) di molti. 

Sci-Hub è una di queste: un enorme archivio che contiene più di 80 milioni di articoli scientifici, libri, riviste e articoli di giornale protetti da copyright e non. Fondato due anni prima della morte di Swartz, nel 2011, dalla sviluppatrice kazaka Alexandra Elbakyan, è irraggiungibile in molti Stati del mondo per via delle azioni legali intraprese da grandi editori come Elsevier, Wiley e American Chemical Society. A differenza di Swartz, Elbakyan ha chiesto a ricercatori e accademici di entrare con le loro credenziali nelle grandi banche dati scientifiche e di scaricare il materiale. In questo modo l’attività di download sarebbe stata legale, anche se la successiva divulgazione gratuita sul portale di Sci-Hub avrebbe poi aperto cause legali in più di uno Stato. Dopo sole due settimane dall’esposto presentato all’AGCOM da un editore, nel luglio 2018, anche l’autorità italiana ha intimato ai provider internet il blocco dei DNS del sito originale di Sci-Hub e del suo sito mirror. In ogni caso The pirate bay of science, come viene spesso chiamato, è un esempio attuale di quanto ricercatori, accademici e studiosi accedano quotidianamente a materiale scientifico aggirando il paywall imposto dagli editori per svolgere ricerca, o anche semplicemente studiare durante il percorso di dottorato.

Lo scorso maggio Elbakyan ha reso pubblico su Twitter il fatto che l’FBI avesse richiesto l’accesso ai dati del suo account Apple attraverso un vecchio indirizzo Gmail. Da un anno a questa parte il social network ora di proprietà del miliardario Elon Musk ha sospeso l’account dell’archivio per aver violato la policy sulla contraffazione, che comprende anche “l’offerta, la promozione, la vendita o la facilitazione dell’accesso non autorizzato ai contenuti, compresi i beni digitali”. I rischi corsi da  Sci-Hub e dalla sua fondatrice sono tuttora in atto e rappresentano il motivo per il quale la donna vive nascosta.

La differenza più sostanziale a dieci anni dalla morte di Swartz è che non sono solo attivisti e hacker a sostenere l’open access come diritto di tutti: il sito Sci-Hub è utilizzato da molti studiosi in tutto il mondo e in alcuni Stati come ad esempio l’India, in cui è in corso tuttora una causa legale, è stato difeso da decine di accademici, secondo il reportage di Rest of The World. La libertà di accedere a contenuti scientifici è infatti direttamente proporzionale alla possibilità economica di ognuno, e perciò un archivio di questo tipo è cruciale in paesi con grandi disparità economiche. Motivo per il quale la causa contro Elbakyan in questo paese non è semplice come in altri, e non si è ancora conclusa.  L’eredità di Swartz è racchiusa anche in un altro progetto: il sito di file sharing Library Genesis (LibGen), sotto indagine da anni e che, essendo registrato sia in Russia che in Olanda, rende difficile definire quale giurisdizione debba essere applicata per l’accusa di violazione di copyright.

Dobbiamo adottare il Guerilla Open Access Manifesto per invertire l’asimmetria informativa tra cittadini e Big Tech-Big Government. Questo può accadere solo se costruiamo reti alternative di infrastrutture informative che sostengano queste idee. Queste reti informative non possono essere costruite dall’oggi al domani, ma dobbiamo impegnarci per ottenerle. Sci-Hub e LibGen sono alcuni esempi di queste infrastrutture informative e non solo dobbiamo sostenerle, ma dobbiamo costruirne altre”, ha scritto recentemente il ricercatore e hacktivista indiano Srinivas Kodali commentando proprio l’eredità di Swartz.

Il futuro dell’open access

La battaglia per l’open access di Aaron Swartz è di fatto portata avanti anche da altri progetti come Open Library (progetto di Internet Archive), che mette a disposizione circa 20 milioni di titoli di libri in formato digitale accessibili a chiunque gratis. E poi ci sono progetti come BioMed PLOS One, ovvero archivi e journal che contengono paper scientifici senza paywall sostenuti da ricercatori e studiosi di fama mondiale nel loro settore, provenienti da università come Harvard, Stanford e Oxford. Caratteristica importante nella battaglia per l’open access, come di tutte quelle che nascono dal basso, è la possibilità di stringere alleanze e fare rete: Right to Research Coalition (R2RC) ne è l’emblema, includendo più di 90 organizzazioni di studenti universitari nel mondo accomunati dalla promozione dell’open access anche attraverso azioni di advocacy. Senza contare poi OpenCon, una serie di conferenze sparse per tutto il mondo.

Il futuro dell’open access è nelle mani di chi la ricerca la produce e in maniera simile anche di tutti noi che vogliamo usufruire della conoscenza che creano. Nonostante le cause legali portate avanti negli anni successivi alla morte di Swartz in molte parti del mondo, alcuni passi avanti fanno ben sperare: negli Usa il progetto di legge Fair Access to Science and Technology Research Act imporrebbe a tutte le agenzie federali che hanno speso più di 100 milioni di dollari in ricerca di pubblicare i contenuti in formato aperto; un disegno di legge statale californiano approvato nel 2018, lascia invece ai ricercatori la possibilità di pubblicare gli articoli su riviste accademiche ma li obbliga anche a diffonderli in archivi pubblici ad accesso aperto entro e non oltre un anno dalla pubblicazione. A luglio dello scorso anno l’Internet Archive, un archivio non profit americano che fornisce accesso a molti contenuti in formato digitale e gratuito, ha chiesto ad un giudice federale di pronunciarsi nell’ambito di una causa intentata dagli editori Hachette, HarperCollins, Wiley e Penguin Random House. Questi ultimi contestano il programma Controlled Digital Lending (CDL) dell’archivio, che però, sostiene Internet Archive, presta scansioni digitali di libri già acquistati e per i quali autori ed editori sarebbero già stati compensati.

La battaglia per l’anonimato e la libertà di informazione

L’eredità di Aaron Swartz è anche legata a doppio filo con il mondo del giornalismo, e alla diffusione di piattaforme e strumenti per la tutela delle fonti e dell’anonimato online. In Aggiustare il mondo. La vita, il processo e l’eredità di Aaron Swartz, Ziccardi riassume in poche frasi la posizione di Swartz: “Trasparenza e segreto, che sembrano due concetti in conflitto, erano interpretati da Aaron come entrambi essenziali in una democrazia. La trasparenza coinvolgeva i vertici, a cascata fino al singolo ufficio periferico, e i loro documenti. Il segreto era un potere da conferire al cittadino, unitamente all’anonimato, per operare in sicurezza anche in azioni di attivismo. E la tecnologia, in entrambi i casi, poteva e doveva essere la leva per garantire questi due diritti”. Nel novembre 2010 il caso Cablegate, ovvero la pubblicazione da parte di Wikileaks di centinaia di migliaia di documenti riservati sull’operato del governo americano, ha fatto da spartiacque e da scintilla per la creazione di strumenti che favorissero la diffusione di informazioni garantendo però l’anonimato di chi si esponeva.

In merito abbiamo già citato il contributo di Swartz nella creazione di SecureDrop, un software libero sviluppato dalla Freedom of the Press Foundation e rilasciato per la prima volta nel 2013, alcuni mesi dopo la sua morte, e raggiungibile attraverso il network Tor. La prima istanza SecureDrop è stata lanciata da The New Yorker per favorire la comunicazione della testata con fonti che, per la tipologia di informazioni che volevano fornire al giornale, richiedevano il massimo grado di protezione e anonimato. Una volta sulla piattaforma la fonte può inviare informazioni e allegati di qualsiasi tipo e riceve in cambio un numero casuale da conservare per accedere nuovamente alla segnalazione, ed eventualmente rispondere ai messaggi dei giornalisti. Dall’altra parte, negli uffici della testata sono presenti due PC: il primo è connesso a Internet e permette il download crittato delle informazioni fornite dalla fonte in una penna Usb; il secondo PC è utilizzato invece per visualizzare i contenuti inviati dalla fonte attraverso il codice di decrittazione presente in una seconda chiave Usb. Ad ogni utilizzo il secondo PC, mai connesso alla rete Internet, è svuotato delle informazioni e spento. 

A catena, nei mesi e anni successivi, altre testate internazionali integrano SecureDrop nel lavoro giornalistico: Forbes, ProPublica, The Intercept, Washington Post, The Guardian sono solo alcuni.

La particolarità di questa piattaforma è quella di non permettere a nessuno, nemmeno ai giornalisti che ricevono l’informazione o il documento, di poter risalire all’autore della soffiata. E in un mondo estremamente connesso attraverso tecnologie digitali che permettono la comunicazione ma non quella segreta, questi strumenti assumono una rilevanza strategica per la trasparenza e l’accountability di governi e aziende. Questo è anche il motivo che ha spinto, nello stesso periodo, alla creazione del software libero e open source GlobaLeaks. Tradotta in più di 90 lingue, la piattaforma italiana di whistleblowing creata da sviluppatori e hacker permette di veicolare informazioni in modo sicuro e anonimo, assicurando che queste non siano riconducibili a una o più persone che hanno deciso di esporsi. A differenza di SecureDrop, è raggiungibile dalla fonte e dal giornalista attraverso qualsiasi PC e non necessita di chiavi Usb per funzionare.
Come ha twittato di recente proprio l’account di SecureDrop: “Aaron, che ha sviluppato la versione originale di SecureDrop, continua a ispirare ogni giorno i nostri sforzi per proteggere giornalisti e informatori”. E ancora ispira gli sforzi di molti altri.

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sabato 28 gennaio 2023

Alternanza scuola-lavoro, la riforma beffa: i ragazzi potranno morire assicurati

 


Il 16 settembre 2022 il diciottenne Giuliano De Seta moriva schiacciato da una lastra di acciaio di oltre una tonnellata. Era uno studente dell’istituto tecnico Da Vinci di Portogruaro, ma anziché essere a scuola si trovava a lavorare in fabbrica, non per scelta ma perché obbligato dalla riforma renziana delle cosiddetta “buona scuola”, che sancisce che gli studenti delle superiori debbano ottenere crediti formativi prestando servizio gratuito in azienda. Alla tragedia, per la famiglia di Giuliano, si è aggiunta la beffa: l’INAIL ha negato il risarcimento previsto per infortuni e decessi sul lavoro, visto che in quanto studente non godeva della copertura assicurativa. Ieri la ministra del Lavoro, Marina Calderone, e il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, hanno raggiunto l’accordo che amplia la copertura assicurativa agli studenti in alternanza scuola-lavoro. Un provvedimento che i movimenti studenteschi rigettano, chiedendo l’abolizione stessa della misura e non un eventuale risarcimento post-mortem.

L’annuncio è arrivato in concomitanza con l’avvio del tavolo tecnico ministeriale sull’alternanza scuola-lavoro, che si è riunito per la prima volta ieri mattina al ministero dell’Istruzione e del Merito (Miur). Secondo il ministro Valditara il tavolo dovrà servire ad aumentare la sicurezza degli stage e a riattivare il Comitato per il monitoraggio e la valutazione dell’alternanza scuola-lavoro. Nessuna intenzione, a quanto pare, di ridiscutere l’esistenza stessa della misuracome chiedono da tempo i movimenti studenteschi che denunciano come l’alternanza – annunciata come un percorso didattico volto a rendere il mondo dell’istruzione più utile al percorso lavorativo abbia “progressivamente allontanato la scuola dalla sua funzione emancipatrice, didattica e pedagogica, per allinearla alle necessità delle aziende e dei privati”.

Le stesse modalità di attuazione del tavolo tecnico è stata denunciata dagli studenti, che non hanno mancato di denunciare come tra le 37 sigle invitate ai lavori ci sono tutti (sindacati confederali, associazioni dei datori di lavoro e presidi) tranne le organizzazioni studentesche, segno di come l’opinione e la testimonianza diretta di chi effettivamente subirà le decisioni non è richiesta. “Nonostante il tavolo sia stato dipinto come la soluzione alle morti in alternanza, non ci sfugge il vero tentativo del ministero, cioè quello di riformare e potenziare ulteriormente l’alternanza scuola-lavoro. Ormai, in perfetta continuità con i governi precedenti e con il governo Draghi, Valditara mostra per l’ennesima volta a tutti il modello di scuola che ha in mente: una scuola completamente aziendalizzata, integrata nel mercato del lavoro del territorio e per questo diseguale nel Paese, che plasma gli studenti allo sfruttamento e alla precarietà lavorativa mentre mette a disposizione dei privati un esercito di studenti-lavoratori non retribuiti, piegando le nostre conoscenze e la nostra manodopera al loro profitto”, ha scritto in un comunicato l’OSA (Opposizione Studentesca d’Alternativa, una delle sigle del movimento studentesco).

Tra i sindacati invitati al tavolo (dal quale sono stati esclusi quelli di base e conflittuali come i Cobas) la CGIL chiede che l’alternanza non sia più un obbligo formativo ma diventi una scelta dello studente. Mentre a difendere a spada tratta l’obbligatorietà dello stage rimangono le associazioni dei datori di lavoro (per le quali lo stagista significa manodopera non retribuita) ed anche l’Associazione Nazionale Presidi (ANP) che la definisce nientemeno che “una metodologia didattica innovativa”. Al tema dell’Alternanza scuola lavoro su L’Indipendente abbiamo dedicato nel recente passato un ampio approfondimento, che dimostra anche le storture con le quali viene applicato un percorso che dovrebbe essere vincolato a paletti rigidi per quanto riguarda il tutoraggio in azienda e l’esenzione dei ragazzi da ogni compito pericoloso. Norme che evidentemente sono state violate in molti luoghi di lavoro, portando al decesso di tre stagisti nel 2022. Senza una riflessione complessiva sulla misura e senza reali azioni di monitoraggio sull’effettivo rispetto delle norme, la decisione di limitarsi ad allargare la copertura INAIL rischia di tramutarsi in quello che gli studenti hanno già ribattezzato «diritto a morire assicurati».

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Salvatore Fancello, l’enfant prodige della ceramica - Ludovico Pratesi

 

ALLIEVO DI ARTUTO MARTINI E MARINO MARINI, AMICO DI COSTANTINO NIVOLA E APPREZZATO DA GIULIO CARLO ARGAN, SALVATORE FANCELLO FU UN TALENTO DELLA CERAMICA

  


Salvatore Fancello, Formella di ceramica. Courtesy Comune di Dorgali

 

È stato capace di raccontare con la ceramica il mondo rurale della Sardegna, al quale sentiva di appartenere in maniera autentica e profonda, nel corso di una carriera breve ma fulminante. Parliamo dell’artista sardo Salvatore Fancello (Dorgali, 1916 ‒ Bregu Rapit, 1941), nato a Dorgali da Pietro e Rosaria Cucca.

 


Salvatore Fancello, Pastore con pecore. Courtesy Comune di Dorgali

 

LA STORIA DI SALVATORE FANCELLO

Penultimo di dodici figli, fin da bambino Fancello si appassiona al disegno e alla scultura, tanto da spingere i genitori a iscriverlo a una scuola di avviamento professionale, per poi essere impiegato come apprendista nella bottega dell’artigiano ceramista Ciriaco Piras, per aiutare la famiglia. Nel 1930, a soli sedici anni, partecipa a un concorso dedicato alla promozione dell’artigianato con un pannello di legno scolpito, e vince una borsa di studio per l’Istituto superiore per le industrie artistiche di Monza (ISIA). Rimasto orfano dei genitori, parte per Monza dove si iscrive alla sezione dedicata alla ceramica, nella quale insegnano scultori del calibro di Arturo Martini e Marino Marini: tra gli studenti del corso frequenta soprattutto Costantino Nivola e Giovanni Pintori. Nel 1934 ritorna in Sardegna per l’estate e con i due amici decide di organizzare una mostra in un locale di Nuoro, senza alcun successo. Due anni dopo si diploma a pieni voti e partecipa alla VI Triennale di Milano, dove espone varie opere tra le quali I segni dello Zodiaco, terrecotte inserite in coppe smaltate di colore azzurro, mentre in una sala realizza un disegno a graffito su una parete, che raffigura alcuni animali esotici.


 

Salvatore Fancello, Bovini al pascolo. Courtesy Comune di Dorgali

 

LA CERAMICA SECONDO SALVATORE FANCELLO

Nel 1937 conosce Giulio Carlo Argan, che rimane colpito dal suo talento e gli suggerisce di presentare domanda al Ministero dell’Educazione per ottenere un premio, vinto da Fancello nel 1938: in quello stesso anno comincia a lavorare ad Albissola Marina nel laboratorio dei ceramisti Tullio e Giuseppe Mazzotti. Per i Mazzotti produce 125 opere oltre a un grande presepe con statuine a grandezza naturale, caratterizzate da colori brillanti, che viene esposto a Torino nel dicembre del 1940 nella sede della Gazzetta del popolo. Nel gennaio del 1939 Fancello entra nell’esercito, ma già due mesi dopo ottiene una licenza per partecipare alla nuova edizione della Triennale, dove viene premiato per le sue ceramiche. Nello stesso periodo realizza alcune opere per la mensa dell’Università Bocconi, rimaste incompiute a causa della morte dell’artista, non ancora venticinquenne, il 12 marzo 1941, sul fronte militare in Albania.
Nel 1942 la 
Pinacoteca di Brera organizza una retrospettiva dedicata a Fancello, e nel 1950 il presepe viene esposto al Brooklyn Museum di New York. Oggi le opere dell’artista sono conservate al museo archeologico di Dorgali, in un’apposita sezione dedicata a Salvatore Fancello, l’enfant prodige della ceramica italiana.

https://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2023/01/salvatore-fancello-enfant-prodige-ceramica/

venerdì 27 gennaio 2023

il giorno della dimenticanza

Auschwitz, 78 anni dopo l'Unione Europea insulta la storia - Agata Iacono

·           "Non sarà qualche delirio russofobo e anticomunista di certe autorità europee a riscrivere la storia di uno dei più importanti eventi del XX secolo. È stata l'Armata Rossa a liberare i prigionieri di Auschwitz. Non invitare i rappresentanti russi per le celebrazioni è indegno", scrive su Twitter Davide Busetto.

"78 anni fa l'Armata Rossa libero' Auschwitz. Quest'anno la Polonia ha vietato ai discendenti di quei soldati di partecipare alla cerimonia di commemorazione. Uno sfregio alla memoria non solo di chi ha dato la vita per liberare l'Europa dal Nazismo, ma anche alla memoria dei milioni di persone sterminate nei lager nazisti", il commento di Laura Ruggeri su Telegram.


La Russia non è invitata, per la prima volta, all'evento che celebra la liberazione del campo di concentramento nazista proprio da parte dell'Armata Rossa 78 anni fa. Il museo di Auschwitz ha dichiarato che, a causa della guerra in Ucraina, la Russia sarà esclusa dall'imminente cerimonia che segna i 78 anni da quando l'Armata Rossa ha liberato il campo di sterminio nazista.

Il direttore del sito museale polacco ha affermato che la Russia "avrà bisogno di un tempo estremamente lungo e di un autoesame molto profondo" prima che possa tornare a partecipare ai "raduni del mondo civilizzato".

"Data l'aggressione contro un'Ucraina libera e indipendente, i rappresentanti della Federazione Russa non sono stati invitati a partecipare alla commemorazione di quest'anno", ha detto all'AFP Piotr Sawicki, portavoce del museo presso il sito dell'ex campo di concentramento liberato proprio dai russi.

Finora, la Russia ha sempre partecipato alla cerimonia ufficiale di commemorazione che si tiene ogni anno il 27 gennaio.

Il direttore del museo Piotr Cywinski ha detto che era ovvio che non potesse firmare una lettera di invito all'ambasciatore russo nel contesto attuale.

E così la Polonia, e l'Europa tutta, che armano i battaglioni neonazisti ucraini ispirati al massacratore di ebrei, Bandera, eroe nazionale ucraino, (e tutto il mainstream mediatico servo),  si arrabatteranno nella ridicola e vergogna impresa di evitare accuratamente di nominare l'Armata Rossa, cercando di farci credere che i veri cattivi della storia sono coloro che hanno liberato gli ebrei dal campo di Auschwitz.

E quelli buoni che leggono Kant, portano la svastica e fanno il saluto nazista, quelli, invece, ci salveranno dal "pericolo russo", pretendendo che si soffra e si muoia per loro.

Non si può che concludere, citando la nota frase di Monicelli, rivolta alla liberazione da parte degli Stati Uniti del campo di concentramento del film "la vita è bella" di Benigni: «Non come quella mascalzonata di Benigni in La vita è bella, quando alla fine fa entrare ad Auschwitz un carro armato con la bandiera americana. Quel campo, quel pezzo di Europa lo liberarono i russi, ma... l'Oscar si vince con la bandiera a stelle e strisce, cambiando la realtà.» 

Cambiando la realtà. Mai così attuale.

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