Estratto
da Aboliamo le prigioni? di Angela Davis, edizioni Minimum Fax
Il carcere, viceversa, è
considerato un elemento inevitabile e permanente della nostra vita sociale. I
più rimangono sorpresi nel sentire che anche il movimento per l’abolizione
delle prigioni ha una lunga storia, risalente addirittura alla comparsa del
carcere come principale forma di punizione.
La
reazione più naturale è quella di presumere che questi attivisti – persino
coloro che si autodefiniscono consciamente «attivisti contro il carcere» –
mirino semplicemente a migliorare le condizioni carcerarie o magari a riformare
le prigioni in maniera più radicale. Quasi ovunque, abolire il carcere appare
semplicemente impensabile e inverosimile. Gli abolizionisti vengono liquidati
come utopisti e idealisti le cui idee sono, nel migliore dei casi,
irrealistiche e impraticabili e, nel peggiore, sconcertanti e insensate. Ciò dà
la misura di quanto sia difficile immaginare un ordine sociale che non sia
fondato sulla minaccia di relegare certe persone in posti orribili allo scopo
di separarle dalle loro famiglie e comunità.
Il
carcere è considerato talmente «naturale» che è estremamente difficile
immaginare che si possa farne a meno. Spero che questo libro incoraggi i
lettori a mettere in discussione i loro preconcetti a proposito del carcere.
Molti sono già arrivati alla conclusione che la pena di morte è una forma
antiquata di punizione che viola i principi basilari dei diritti umani. Penso
che sia venuto il momento di incoraggiare un dibattito analogo sul carcere. Nel
corso della mia carriera di attivista contro le prigioni, ho visto crescere la
popolazione carceraria statunitense con una rapidità tale che ormai molti membri
delle comunità nere, latinoamericane e di nativi americani hanno molte più
opportunità di finire in galera che di ottenere un’istruzione decente. Quando
tanti giovani decidono di entrare nell’esercito per sfuggire all’inevitabilità
del carcere, bisognerebbe chiedersi se non si debba tentare di introdurre
alternative migliori.
La
questione se il carcere sia ormai un’istituzione obsoleta è diventata
particolarmente urgente alla luce del fatto che più di due milioni di persone
negli Stati Uniti (su un totale mondiale di nove milioni) popolano attualmente
le prigioni, i penitenziari, gli istituti minorili e i centri di detenzione per
immigrati. Siamo disposti a relegare numeri sempre crescenti di persone
provenienti da comunità oppresse dal punto di vista razziale in un’esistenza
isolata, caratterizzata da regimi autoritari, violenza, malattie e tecnologie
di reclusione che producono una grave instabilità mentale? Secondo uno studio
recente, le carceri ospiterebbero il doppio di persone affette da malattie mentali
rispetto a tutti gli ospedali psichiatrici degli Stati Uniti messi insieme.
Quando
iniziai a occuparmi dell’attivismo contro il carcere alla fine degli anni
Sessanta, rimasi sconcertata nell’apprendere che i detenuti erano quasi
duecentomila. Se qualcuno mi avesse detto che in tre decenni il numero delle
persone rinchiuse in gabbia sarebbe decuplicato non ci avrei creduto. Penso che
la mia reazione sarebbe stata più o meno questa: «Per quanto questo paese possa
essere razzista e antidemocratico [ricordate che durante quel periodo le
richieste del movimento per i diritti civili non si erano ancora
concretizzate], non credo che il governo degli Stati Uniti potrebbe mai
recludere così tante persone senza scatenare una potente resistenza pubblica.
No, non accadrà mai, a meno che il paese non precipiti nel fascismo». Quella
avrebbe potuto essere la mia reazione trent’anni fa.
La
realtà è che saremmo stati chiamati a inaugurare il xxi secolo accettando il
fatto che due milioni di persone – un gruppo superiore alla popolazione di
molti paesi – trascorrono la loro esistenza in posti come Sing Sing,
Leavenworth, San Quintino e l’Alderson Federal Reformatory for Women. La
gravità di queste cifre è ancora più evidente se si considera che
complessivamente la popolazione statunitense è inferiore al 5% del totale
mondiale, mentre gli Stati Uniti possono vantare più del 20% dell’intera
popolazione carceraria. Per dirla con le parole di Elliott Currie, «il carcere
è diventato una presenza incombente nella società [americana] in una misura
senza precedenti nella nostra storia o in quella di qualsiasi altra democrazia
industriale. Con l’eccezione delle grandi guerre, l’incarcerazione in massa ha
rappresentato il programma sociale più compiutamente attuato dai governi dei giorni
nostri».
Nel
riflettere sulla possibilità che il carcere sia obsoleto, dovremmo chiederci
come mai così tante persone siano potute finire in prigione senza che ciò
sollevasse dibattiti importanti sull’efficacia della detenzione. Quando negli
anni Ottanta, durante la cosiddetta era Reagan, s’iniziarono a costruire altre
prigioni e il numero dei detenuti crebbe sempre più, i politici sostennero che
il «pugno di ferro» nei confronti del crimine – che comprendeva la certezza
della pena e periodi detentivi più lunghi – avrebbe mantenuto le comunità
libere dalla delinquenza. Tuttavia, la pratica delle incarcerazioni in massa di
quel periodo sortì un effetto scarso o addirittura nullo sui dati ufficiali
relativi alle attività criminali.
Anzi,
la crescita della popolazione carceraria non portò a comunità più sicure, ma
piuttosto a ulteriori aumenti della stessa. Ogni nuova prigione ne generava
un’altra. E con l’espandersi del sistema carcerario statunitense cresceva anche
il coinvolgimento delle corporation nella costruzione delle prigioni, nel loro
approvvigionamento di beni e servizi e nell’utilizzo di manodopera carceraria.
Poiché la costruzione e la gestione delle prigioni iniziò ad attrarre ingenti
capitali – dall’industria edilizia alle forniture alimentari, all’assistenza
sanitaria – in un modo che ricordava la nascita del complesso
militare-industriale, si è cominciato a parlare di un «complesso
carcerario-industriale».
Prendiamo
il caso della California, il cui territorio negli ultimi vent’anni è stato invaso
da strutture carcerarie. La prima prigione statale della California fu San
Quintino, aperta nel 1852.4 Folsom, un altro noto istituto di pena, aprì nel
1880. Tra il 1880 e il 1933, quando a Tehachapi venne inaugurato un carcere
femminile, non fu costruita nessuna nuova prigione. Nel 1952 fu inaugurato il
California Institution for Women e quello di Tehachapi diventò un altro carcere
maschile. In tutto, tra il 1852 e il 1955 sorsero in California nove prigioni.
Tra il 1962 e il 1965 furono costruiti due campi di lavoro, nonché il
California Rehabilitation Center. Nella seconda metà degli anni Sessanta non fu
aperta nessuna prigione e neppure durante tutto il decennio successivo.
Un
massiccio progetto di costruzione di nuove strutture detentive fu avviato
invece negli anni Ottanta, vale a dire durante la presidenza Reagan. Tra il
1984 e il 1989 furono inaugurati nove istituti di pena, compresa la Northern
California Facility for Women. Non bisogna dimenticare che c’erano voluti più
di cento anni per costruire le prime nove prigioni californiane; in meno di un
decennio quel numero è raddoppiato e durante gli anni Novanta se ne sono
aggiunte altre dodici, tra cui due penitenziari femminili. Nel 1995 è stata
inaugurata la Valley State Prison for Women, il cui intento dichiarato era
quello di «fornire 1980 posti letto per le detenute del sovraffollato sistema
carcerario californiano». Tuttavia, nel 2002 le detenute erano già 35705 e
tutte le strutture femminili erano sovraffollate.
Attualmente
in California ci sono trentatré carceri, trentotto campi di lavoro, sedici case
di correzione per minori e cinque piccoli centri per madri detenute. Nel 2002
le persone incarcerate in questi istituti erano 157.979, compresi circa
ventimila individui che lo stato trattiene per violazione delle leggi
sull’immigrazione. La composizione razziale di questa popolazione carceraria la
dice lunga. I latinoamericani, che adesso sono la maggioranza, ne costituiscono
il 35,2%; gli afroamericani il 30%, mentre i detenuti bianchi sono il 29,2%.6
Attualmente ci sono più donne in prigione nello stato della California di
quante ce n’erano nelle carceri di tutto il paese all’inizio degli anni
Settanta. Anzi, la California può vantare il carcere femminile più grande del
mondo, la Valley State Prison for Women, che conta più di 3500 recluse. Situato
nella stessa città della Valley State e letteralmente dirimpetto a questa, c’è
il secondo carcere femminile del mondo per grandezza – la Central California
Women’s Facility – la cui popolazione nel 2002 è arrivata anch’essa alle 3500
detenute circa.
Se
si osserva su una carta della California la posizione delle trentatré prigioni
statali, si può vedere che l’unica area che non sia densamente popolata di
strutture detentive è quella a nord di Sacramento, anche se nella città di
Susanville ci sono due carceri e nei pressi del confine con l’Oregon sorge
Pelican Bay, uno dei famigerati supercarceri di massima sicurezza. L’artista
californiano Sandow Birk, ispirato dalla colonizzazione del territorio da parte
delle prigioni, ha prodotto una serie di trentatré quadri raffiguranti questi
istituti e il paesaggio circostante e li ha raccolti nel libro Incarcerated:
Visions of California in the Twenty-First Century.
Ho
raccontato brevemente come il territorio della California sia stato invaso
dalle strutture carcerarie per consentire ai lettori di comprendere quanto sia
stato facile realizzare un massiccio sistema detentivo con l’assenso implicito
dell’opinione pubblica. Perché la gente ha creduto così facilmente che
rinchiudere una porzione sempre più vasta della popolazione statunitense
avrebbe aiutato quanti vivono nel mondo libero a sentirsi più sicuri e
protetti? È possibile formulare questo interrogativo anche in termini più
generali: perché le prigioni danno alle persone l’idea che i loro diritti e le
loro libertà siano più tutelati di quanto non lo sarebbero se il carcere non
esistesse? A quali altre ragioni potremmo attribuire la rapidità con cui le
prigioni hanno iniziato a colonizzare il territorio californiano?
La
geografa Ruth Gilmore descrive l’espansione delle prigioni in California come
«una soluzione geografica a problemi socioeconomici». La sua analisi del
complesso carcerario-industriale in California descrive questi sviluppi come
una reazione a un’eccedenza di capitali, terreni, manodopera e capacità
produttiva di quello stato. Le nuove prigioni californiane sorgono su terreni
rurali deprezzati, perlopiù appezzamenti agricoli un tempo irrigati…
Lo
stato ha acquistato la terra messa in vendita da grandi proprietari terrieri. E
ha garantito alle piccole città depresse su cui ora incombono le prigioni che
quella nuova industria non inquinante e a prova di recessione avrebbe dato una
spinta alla ripresa locale. Ma, come fa notare la Gilmore, non si sono visti né
nuovi posti di lavoro né la più generale rivitalizzazione dell’economia
promessa dalle prigioni. Queste promesse di miglioramento ci aiutano però a
capire perché il parlamento e gli elettori della California abbiano deciso di
approvare la costruzione di tante nuove carceri. La gente voleva credere che le
prigioni non solo avrebbero ridotto il crimine, ma avrebbero anche fornito
posti di lavoro e stimolato lo sviluppo economico di località sperdute.
Fondamentalmente,
la questione è una: perché diamo per scontato il carcere? Anche se solo una
parte relativamente esigua della popolazione ha sperimentato in prima persona
la vita all’interno di un carcere, per le comunità povere nere e
latinoamericane non si può parlare di piccole percentuali. E nemmeno per gli
amerindi o per certe comunità di asiatici americani. Ma perfino tra queste
persone – soprattutto giovani – costrette purtroppo ad accettare la condanna al
carcere come una dimensione normale della vita nelle loro comunità,
difficilmente si trova chi accetti di impegnarsi in un serio dibattito pubblico
sulla vita in carcere o su alternative radicali alla detenzione. È come se si
trattasse di un fatto inevitabile dell’esistenza, come nascere e morire.
In
generale, si tende a dare il carcere per scontato. È difficile immaginare la
vita senza di esso. Al tempo stesso, c’è riluttanza ad affrontare le realtà che
nasconde, si ha timore di pensare a ciò che accade al suo interno. Di
conseguenza, il carcere è presente nella nostra vita e allo stesso tempo ne è
assente. Riflettere su questa presenza-assenza significa iniziare a riconoscere
il ruolo svolto dall’ideologia nel plasmare le nostre interazioni con
l’ambiente sociale che ci circonda.
Diamo
per scontate le prigioni, ma spesso abbiamo paura di affrontare le realtà che
producono. Dopotutto, nessuno vuole finire in galera. Siccome sarebbe troppo
penoso accettare l’eventualità che chiunque, compresi noi stessi, possa
diventare un prigioniero, tendiamo a considerare il carcere come qualcosa di
avulso dalla nostra vita. Ciò vale perfino per alcuni di noi, donne e uomini,
che già hanno sperimentato la detenzione.
E
così pensiamo al carcere come a una sorte riservata ad altri, ai «malfattori»,
per usare un termine reso popolare di recente da George W. Bush. Dato il
persistente potere del razzismo, nell’immaginario collettivo i «criminali» e i
«malfattori » sono persone di colore. Perciò il carcere funziona
ideologicamente come un luogo astratto in cui vengono presi in consegna gli
individui indesiderabili, sollevandoci dalla responsabilità di riflettere sulle
reali problematiche che affliggono le comunità da cui i detenuti provengono in
numeri così spropositati. È questa la funzione ideologica del carcere: ci
solleva dalla responsabilità di affrontare seriamente i problemi della nostra
società, in particolare quelli prodotti dal razzismo e, in misura crescente,
dal capitalismo globale.
Cosa
ci sfugge, per esempio, se cerchiamo di pensare all’espansione del sistema
carcerario senza prestare attenzione agli sviluppi economici più vasti? Viviamo
in un’era in cui le corporation migrano. Per sottrarsi alla manodopera
organizzata di questo paese – e quindi a salari più alti, contributi da versare
e via dicendo – le corporation girano il mondo in cerca di nazioni che offrano
sacche di manodopera a basso costo. E migrando, le corporation lasciano nei
guai intere comunità. Un gran numero di persone perde il lavoro e ogni
prospettiva di un impiego futuro. L’istruzione e altri servizi sociali
superstiti sono profondamente influenzati dalla distruzione della base sociale
di queste comunità. Il processo trasforma gli uomini, le donne e i bambini che
vivono in tali comunità danneggiate in candidati perfetti per il carcere.
Intanto,
le corporation collegate all’industria penitenziaria mietono profitti dal
sistema che gestisce i detenuti, e sono quindi chiaramente interessate alla
continua crescita della popolazione carceraria. In parole povere, questa è
l’era del complesso carcerario-industriale. Le prigioni sono diventate buchi
neri in cui vengono depositati i detriti del capitalismo contemporaneo.
L’incarcerazione in massa genera profitti divorando al tempo stesso il
patrimonio pubblico, e tende perciò a riprodurre proprio quelle condizioni che
portano la gente in prigione. Esistono quindi collegamenti reali e alquanto
intricati tra la deindustrializzazione dell’economia – uno sviluppo che ha
raggiunto il culmine negli anni Ottanta – e la reclusione di massa, cresciuta
durante l’era Reagan- Bush. Tuttavia, l’esigenza di un maggior numero di
prigioni è stata presentata al pubblico in termini semplicistici.
Servivano
più prigioni perché la criminalità era aumentata. Eppure molti studiosi hanno
dimostrato che nel momento in cui è iniziato il boom della costruzione di nuove
carceri, le statistiche ufficiali rivelavano già una diminuzione della
delinquenza. Inoltre erano entrate in vigore leggi draconiane sulla droga, e
diversi stati stavano introducendo norme che prevedevano pene molto severe per
i recidivi. Per comprendere la proliferazione delle prigioni e l’ascesa del
complesso carcerario-industriale, potrebbe essere utile riflettere più a fondo
sui motivi per cui diamo così facilmente per scontato il carcere.
In
California, come abbiamo visto, quasi i due terzi delle prigioni esistenti sono
state inaugurate negli anni Ottanta e Novanta. Perché non si sono levate
energiche proteste? Perché la prospettiva di molte nuove prigioni era
visibilmente gradita all’opinione pubblica? Una risposta parziale a questo
interrogativo è collegata al modo in cui consumiamo immagini mediatiche del
carcere nonostante il fatto che le realtà dell’incarcerazione rimangano celate
a quasi tutti coloro che non hanno avuto la disgrazia di scontare una pena
detentiva. La critica culturale Gina Dent ha sottolineato come il nostro senso
di familiarità con il carcere derivi in parte dalle rappresentazioni delle
prigioni nei film e in altri mezzi visivi.
La
storia delle immagini mentali collegate al carcere contribuisce a rafforzare
l’istituzione carceraria come una parte naturalizzata del nostro paesaggio
sociale. La storia del cinema è sempre stata sposata alla rappresentazione
dell’incarcerazione. I primi filmati di Thomas Edison (che risalgono alla
ricostruzione del 1901 Execution of Czolgosz with Panorama of Auburn Prison,
presentata come un cinegiornale) comprendevano sequenze dei recessi più oscuri
della prigione. Perciò il carcere è indissolubilmente legato alla nostra
esperienza visiva, il che crea anche il senso della sua continuità come
istituzione. Abbiamo inoltre un flusso costante di film hollywoodiani sul carcere
che costituiscono di fatto un genere a sé stante.
Alcuni
dei film più noti sulle prigioni sono: Non voglio morire, Papillon, Nick Mano
Fredda e Fuga da Alcatraz. Vale anche la pena di accennare al fatto che la
programmazione televisiva è sempre più satura di immagini di carceri. Tra i
documentari recenti figurano la serie su a&e The Big House, costituita da
programmi dedicati a San Quintino, Alcatraz, Leavenworth e all’Alderson Federal
Reformatory for Women. La serie Oz, trasmessa per più stagioni dalla rete hbo,
è riuscita a convincere molti telespettatori di sapere esattamente cosa accade
nelle carceri maschili di massima sicurezza. Ma anche quanti non scelgono
consapevolmente di guardare documentari o sceneggiati dedicati alle prigioni si
ritrovano, volenti o nolenti, a consumare immagini del carcere per il semplice
fatto di andare al cinema o accendere la tv. È praticamente impossibile
evitarle.
Nel
1997, intervistando alcune donne in tre prigioni cubane, ho scoperto con
stupore che la maggior parte descriveva la percezione del carcere che avevano
in precedenza – vale a dire prima di finire in prigione loro stesse – come
derivante dai molti film hollywoodiani che avevano visto. Tra le immagini che
popolano la nostra mente, il carcere occupa dunque un posto di rilievo. Ciò ci
ha indotto a darne per scontata l’esistenza. La prigione è diventata un
ingrediente chiave del nostro senso comune. È presente, tutto intorno a noi.
Non mettiamo in dubbio che debba esistere. Fa talmente parte del nostro mondo che
ci vuole un grande sforzo d’immaginazione per concepire la vita senza di essa.
Con
ciò non intendo ignorare i cambiamenti profondi verificatisi nel modo in cui
sono condotti i dibattiti pubblici sul carcere. Dieci anni fa, nel momento in
cui la spinta ad ampliare il sistema carcerario raggiungeva il culmine, erano
ben poche le critiche a questo processo che raggiungevano l’opinione pubblica.
Anzi, la maggior parte della gente non aveva idea dell’immensità di
quell’espansione. Era un periodo in cui i cambiamenti interni – in parte dovuti
all’applicazione di nuove tecnologie – spingevano il sistema carcerario
statunitense in una direzione più repressiva. Mentre le precedenti
classificazioni si limitavano a bassa, media e massima sicurezza, in quel
periodo fu inventata una nuova categoria: il supercarcere di massima sicurezza.
La svolta verso una maggiore repressione nel sistema carcerario, caratterizzato
fin dall’inizio della sua storia dai suoi regimi repressivi, indusse alcuni
giornalisti, opinionisti ed enti progressisti a opporsi al crescente
affidamento sulle prigioni come mezzo per risolvere problemi sociali che sono
in realtà esacerbati dall’incarcerazione in massa.
Nel
1990, il Sentencing Project, con sede a Washington, ha pubblicato uno studio
sulla popolazione statunitense detenuta, in libertà vigilata o rilasciata su
cauzione, in cui si concludeva che un nero su quattro di età compresa tra i
venti e i ventinove anni rientrava in queste categorie. Cinque anni dopo, un
secondo studio rivelava che la percentuale era salita a quasi uno su tre
(32,2%). Inoltre, più di un latinoamericano su dieci nella stessa fascia di età
era detenuto, in libertà vigilata o rilasciato su cauzione. Il secondo studio
evidenziava anche che il gruppo che aveva conosciuto l’incremento maggiore era
quello delle donne nere, la cui carcerazione era cresciuta del 78%.
Secondo
il Bureau of Justice Statistics, attualmente gli afroamericani nel loro insieme
rappresentano la maggioranza dei prigionieri statali e federali, con un totale di
803.400 detenuti neri, 118.600 in più del totale dei detenuti bianchi. Alla
fine degli anni Novanta, articoli importanti sull’espansione delle prigioni
sono apparsi su Newsweek, Harper’s, Emerge e Atlantic Monthly. Perfino Colin
Powell ha sollevato la questione del crescente numero di detenuti neri di sesso
maschile nel suo discorso alla Convention Nazionale Repubblicana del 2000 che
ha proclamato la candidatura di George W. Bush alla presidenza.
Negli
ultimi anni, l’assenza di posizioni critiche sull’espansione delle prigioni ha
lasciato spazio, nell’arena politica, a proposte per una riforma del sistema
carcerario. Anche se il dibattito pubblico si è fatto più flessibile, l’enfasi
è quasi sempre posta sull’introduzione di cambiamenti che producano un sistema
migliore. In altre parole, l’accresciuta flessibilità che ha permesso una
discussione critica dei problemi associati all’espansione delle prigioni limita
tale discussione alla questione della riforma carceraria. Per quanto importanti
possano essere certe riforme – l’eliminazione degli abusi sessuali e
dell’incuria sanitaria negli istituti femminili, per esempio – alcuni modelli
fondati esclusivamente sulle riforme contribuiscono a generare l’idea
vanificante che non esistano alternative al carcere. Quando è la riforma a
diventare la questione centrale, i dibattiti sulle strategie di scarcerazione,
che dovrebbero rappresentare il punto focale della nostra discussione sulla
crisi delle carceri, tendono a essere messi da parte.
La
questione più immediata, oggi, è come evitare un’ulteriore espansione della
popolazione carceraria e come riportare quanti più uomini e donne detenuti in
quello che i prigionieri chiamano «il mondo libero ». Come possiamo muoverci
per depenalizzare l’uso di stupefacenti e la prostituzione? Come possiamo
intraprendere delle strategie giudiziarie serie, che siano volte al recupero
anziché esclusivamente alla punizione? Tra le alternative efficaci c’è la
trasformazione sia delle tecniche per affrontare il «crimine» sia delle condizioni
socioeconomiche che spingono in riformatorio e poi in carcere tanti figli delle
comunità povere e in particolare delle comunità di colore. La sfida più ardua e
urgente, oggi, è quella di esplorare territori nuovi della giustizia, nei quali
le prigioni non fungano più da nostro principale punto fermo.
Aboliamo le prigioni…- Francesca de Carolis
Aboliamo le prigioni? Un titolo che sembra quasi una provocazione. Un gioco di parole per
illusi e sognatori. Parole impronunciabili, diciamo la verità, anche per molti
che si ritengono “progressisti”.
Ma provocazione non lo è affatto. E questo saggio di Angela Davis, che
quest’anno è stato riproposto da Minimum fax (che già lo aveva pubblicato in
Italia nel 2009, dopo la sua uscita in America), mai come oggi sembra
opportuno. Opportuno e attualissimo, anche per noi europei, e in particolare
per noi italiani, freschi dello svelamento di cosa il carcere sia, dopo le
notizie delle inusitate violenze che persone detenute, affidate alla custodia
allo stato, hanno subito…
Angela Davis chi giovanissimo non è la ricorda mitica militante del movimento
americano per i diritti civili dagli anni Sessanta e, fino agli anni ’90, del
partito comunista degli Stati Uniti. E oggi che, attenta studiosa di fama
internazionale, ha concentrato il suo impegno nella difficilissima battaglia
per l’abolizione del carcere, ha la stessa forza e il rigore di allora, il suo
pensiero lo stesso fascino che si affacciava dalle foto e dai poster di quel
tempo, sotto quel casco immenso di capelli ricci e neri
E coglie un nodo fondamentale delle nostre paure e contraddizioni, che
impediscono il cammino verso un mondo di vera uguaglianza, di rispetto di
diritti per tutti, ma proprio per tutti. Andando intanto alla radice della
nostra incapacità di immaginare un mondo senza prigioni.
Già. Perché mai diamo per scontato il carcere? “Come se si trattasse di un
fatto scontato dell’esistenza, come nascere e morire”.
Ci ricorda, Angela Davis, che il carcere, come ancora lo intendiamo oggi, è un’istituzione
moderna, che “il processo attraverso cui la carcerazione si è trasformata nel
principale tipo di punizione inflitta dallo stato è strettamente legato
all’ascesa del capitalismo e alla comparsa di un nuovo insieme di condizioni
ideologiche”. Mentre la condanna al carcere viene pensata in termini di tempo,
esattamente “nel periodo in cui il valore del lavoro viene calcolato in termini
di tempo”.
Uno sguardo largo, quello di Angela Davis, sorretto dalla ferma convinzione che
le diseguaglianze delle nostre società passano attraverso discriminazioni di
razza di sesso e di classe, e solo la via del socialismo ne permetterebbe il
superamento.
E studiando il sistema americano, ci parla di “sistema carcerario industriale”
che, dopo l’abolizione della schiavitù, fonda le sue basi economiche su una
sorta di “schiavismo morbido”, cercando di rivelare forme mascherate di
pregiudizio razzista che raramente vengono riconosciute tali. In un sistema
dove tutto si tiene, se lo sfruttamento della manodopera carceraria da parte di
corporation private (perché questo accade) è “uno dei tanti aspetti dei
rapporti che legano grandi imprese, governo, istituti di pena e media”. Un
sistema che, confinando nelle sue mura marginalità cui nessuno intende porre
rimedio, continuamente alimenta se stesso. Un sistema che, se pure abolito
l’orrenda pratica dei detenuti in affitto in vigore fino all’inizio del XX
secolo, ha tutto l’interesse a tenersi ben stretti i suoi due milioni e mezzo
di persone detenute. Che sono per lo più neri, ispanici, amerindi,
asiatici-americani…
Libro complessissimo e dettagliatissimo, tutto da studiare.
Ma due aspetti voglio segnalare.
Lo sguardo di donna che sa leggere come il sesso dei detenuti condizioni un
sistema carcerario dove, paradossalmente, le richieste di parità con le
prigioni maschili, invece di migliorare le condizioni di vita offrendo maggiori
opportunità di istruzione, migliore assistenza medica… hanno portato a
condizioni più repressive. Che dire della decisione negli anni Novanta in Alabama
di istituire gruppi di forzati composti da donne “per creare condizioni di
uguaglianza con gli uomini”…
E fanno rabbrividire le pagine in cui si racconta di come, in una perversa
combinazione di razzismo e misoginia, si pratica la perquisizione integrale con
l’esame di vagina e ano. Fa fatica pensarlo, ma questo è. Una sorta di
istituzionalizzazione dell’abuso sessuale.
E ancora una cosa ci dice Angela Devis. Che l’urgenza di questo suo impegno
nasce dallo sguardo di chi l’esperienza del carcere, nella sua violenza e nel
suo orrore, l’ha vissuta in prima persona. Lei che nel 1970 fu arrestata con
l’accusa di complicità in un omicidio, e dopo due anni assolta. E nessuno
sguardo altro può arrivare a tanta profondità e determinazione.
Aboliamo le prigioni, dunque. Contro il carcere, la
discriminazione, la violenza del capitale. Un lavoro molto ricco, col
corredo di interviste e interventi di Guido Caldiron , Paolo Persichetti e
Valeria Verdolini. Interventi in appendice, che in realtà sono parte integrante
di un discorso che parte dagli Stati Uniti e attraversa l’oceano per dirci che
riguarda anche tutti noi, e i paralleli balzano agli occhi, dalla questione
dell’affollamento, al processo di criminalizzazione delle marginalità sociali,
all’assurdo binomio, che i dati smentiscono, carcere/sicurezza, alle forme del
nostro razzismo che è riuscito a trasformare il concetto di cittadinanza in
“condizione esclusiva della personalità sociale”, dove gruppi stigmatizzati in
partenza non hanno speranza…
Un libro che pone tante domande. Su tutte una: ma è davvero così difficile
pensare a un mondo senza prigioni? Eppure, si ricorda anche qui, chi avrebbe
mai pensato, cinquant’anni fa, che si potesse vivere anche senza manicomi?
Basaglia insegna… che l’impossibile può diventare possibile.
Da leggere questo libro, giustamente si spiega, come manuale di resistenza. Di
resistenza ai dubbi, alle paure, alle oscillazioni, che investono anche chi il
pensiero dell’abolizione delle prigioni pure riesce a sfiorarlo. Eppure… “Molti
sono già arrivati alla conclusione che la pena di morte è una forma antiquata
di punizione che viola i principi basilari dei diritti umani. Penso che sia
venuto il momento di incoraggiare un dibattito analogo sul carcere”. Parola di
Angela Davis.
E coraggio, allora. Provate a immaginare l’impossibile. Provate a immaginare il
nostro mondo virare in panorami urbani liberi da quelle asfittiche scatole di
ferro e cemento, in panorami dell’anima ripuliti da tanta insensata, dolorosa,
violenta costrizione. E’ davvero così difficile?
Aboliamo
le prigioni…- Vittorio da Rios
“Un grande giurista partenopeo Gaetano Filangieri, nella
seconda metà del 1700, nel suo capolavoro “La scienza della Legislazione”
dedica un libro alla formazione dell’individuo, alla sua educazione e pone il
problema fondamentale della educazione alla cultura e all’alto sapere
filosofico-scientifico di ogni creatura umana. Ma Filangieri si pone un grande
assioma dai grandi risvolti di natura etica-morale. La “Felicità” non può
essere un fatto privato o famigliare ma deve essere “collettiva”: come posso,
scrive Filangieri, essere felice quando intorno a me c’è fame, emarginazione e
miseria? E poi nella corrispondenza con i colleghi illuministi francesi che
preparavano la rivoluzione del 1789 li ammoniva che abbattendo necessariamente
la società feudale da secoli oppressiva e schiavista non si sostituisca una
organizzazione sociale altrettanto sperequativa, l’egemonia del denaro. Fu
grande profeta il Filangieri. Morì troppo giovane a soli 35 anni per patologie
polmonari. Veniamo ora all’articolo di Francesca de Carolis, a proposito del
saggio di Angela Davis, che ci invita a pensare e p5rogettare un mondo senza
prigioni…
Voltaire, che Cacciari ha definito
impropriamente un po’ superficialotto, a proposito di carcere scrisse che la
qualità della democrazia di uno Stato si misura dalla qualità del sistema giudiziario
e dalle condizioni in cui versano le carceri. Prendo spunto da un grande
giurista contemporaneo di respiro internazionale, Luigi Ferrajoli, autore tra
l’altro di “Diritto e ragione, teoria del garantismo penale”, che ha usato per
primo dentro il paradigma del diritto, che oggi si è costruito e si alimenta un
sistema economico-finanziario che determina i CRIMINI DI SISTEMA, e oggi le
nostre carceri sono popolate dalle vittime dei crimini di sistema! E allora
come giustifichiamo oggi tutto questo? Come pensiamo di conciliare per esempio
la nostra Costituzione con i CRIMINI DI SISTEMA? Ma andiamo al nucleo centrale
dello scritto di Francesca, a proposito del saggio della Davis ABOLIRE IL
CARCERE?…. Gianpiero Pierotti fa presente giustamente che abbattendo le
sperequazioni sociali le carceri si svuoteranno. Ma oggi innanzi a spaventose
sperequazioni sociali mai prima verificatosi, come riorganizzare le società, i
membri e gli appartenenti degli Stati? In questi ultimi decenni abbiamo
assistito a radicali cambiamenti strutturali che hanno modificato l’essenza
degli Stati. Pensiamo in modo particolare alla svendita e svuotamento nella sua
essenza costitutiva per esempio del nostro Stato. Iniziando dagli anni ’90 si
sono svenduti a privati a prezzo di stralcio l’Ina-l’Eni-l’Enel-L’Iri, si è
privatizzata la Banca d’Italia, la Banca Nazionale del Lavoro, tutte le
maggiori Banche sono state privatizzate, cosi gran parte del sistema sanitario,
come le strutture scolastiche. La finanza e i grandi gruppi nazionali e internazionali
gestiscono, condizionano di fatto i parlamenti e i governi compreso il nostro.
Questi sono i grandi problemi che oggi abbiamo innanzi. Insormontabili?
Irreversibili? Salvatore Veca in un suo saggio del 1982 sulla giustizia inizia
cosi: Vi sono almeno due modi principali per affrontare il ricorrente problema
della giustizia, essi dipendono da due modi alternativi di concettualizzare la
società. Storicamente, le due versioni si distribuiscono nel tempo in fasi
alterne configurando uno spazio permanente di tensione e conflitto o una sorta
di controversia interminabile, come spesso accade alle nostre rivali
interpretazioni del mondo. Concettualmente, l’opposizione riguarda quello che
si potrebbe definire un approccio olistico e quello che si potrebbe
corrispondentemente definire un approccio individualistico alla società. Una
ulteriore definizione potrebbe contrapporre uno schema della società in termini
di fatti sociali e leggi a uno in termini di azione sociale e regole. Nel primo
caso (approccio olistico in termini di fatti sociali e leggi ) la giustizia di
una società è considerata, per dir cosi, assumendo la società come un tutto,
indipendentemente dalla valutazione degli individui che la compongono. Nel
secondo ( approccio individualistico in termini di azione sociale e regole ) la
giustizia di una società è considerata in modo dipendente e coerente con la
valutazione degli individui che la compongono. Ecco quindi l’urgenza di
ripensare radicalmente il concetto di cosa si intende oggi per diritto nel
nostro paese. Come rifondare oggi lo Stato di diritto soprattutto, e riscrivere
gran parte dei codici penale e civile adattandoli alle radicali mutazioni
avvenute sopra citate. Soprattutto sfoltendo un foresta, un ginepraio di testi
e paradigmi giuridici oramai del tutto inutili. Ma la giustizia concreta
effettuale si determina nella società, di come la struttura sociale disponga di
elementi di reale democrazia economica. Avendo la lucida consapevolezza che il
sistema economico-finanziario va in tutt’altra direzione, e che le
sperequazioni sociali determinate e le risorse sono in mano di un numero di
persone sempre più esiguo. Come rimediare? Il lavoro è immane. Per riportare un
equilibrio economico, mancando di fatto di uno Stato, essendo stato criminalmente
svenduto, doppiamo tenere presente questo. Io ritengo e non voglio sconfinare
in utopie irrealizzabili, che occorra costruire nei prossimi anni nuovi
paradigmi culturali quanto giuridici, per andare oltre il carcere, rendere
inutile il carcere, superare definitivamente il concetto di espiazione in
condizioni di ristretti. Fondamentale per raggiungere questo obbiettivo è
l’applicazione finalmente della Costituzione nei suoi pilastri costitutivi.
Riportare lo Stato democratico moderno garantista alla sua funzione strategica
come concepito dai padri Fondatori, in termini economici e culturali, ai fini
di assicurare e determinare le condizione di equità e di giustizia sociale.
Spetta a noi cittadini applicare la Costituzione, e costruire da molte macerie
attuali lo Stato di diritto che deve essere presente in tutte le pieghe della
società affinché più nessuno cada in tragedia, e abbia consentito una vita
giusta e dignitosa. Solo cosi aboliremo definitivamente le carceri e il
business rappresentato dalla gestione del Reato.
da qui
Il carcere è solo un inferno per poveri e emarginati:
aboliamo la galera – Livio Ferrari
Sono
trascorsi 10 anni da quando Massimo Pavarini e io
abbiamo scritto il manifesto “No Prison”, venti
punti per affermare un’idea di pace e riconciliazione che
riduca il più possibile il dolore e la sofferenza, in tanti casi la morte,
delle persone che hanno commesso reati e una fondamentale attenzione alle
vittime. Il bollettino dei disastri che questi luoghi producono nel nostro
Paese è all’attenzione di tutti, una scia di sangue che di anno in anno non si
arresta, mentre è urgente intervenire con scelte che riportino la legalità anche
nelle città recluse. Nel 2022 sono state 84 le
persone che si sono suicidate e 190 i morti
nelle carceri italiane, oltre alle migliaia di atti
di autolesionismo e le innumerevoli violenze, una
fotografia di guerra per luoghi che dovrebbero essere garantiti dai diritti in
uno Stato democratico.
La storia
del carcere è percorsa da una irrisolta ambiguità tra la volontà
di rinchiudere i soggetti che delinquono e quella di rieducarli per il reinserimento, e
in questa dicotomia c’è un inganno di fondo determinato dal fatto che il contenitore
carcere ammassa sempre e ovunque donne e uomini deboli, infatti è
nato per rinchiudervi i poveri e per loro è rimasto anche ai giorni nostri, e
sui poveri si può speculare impunemente senza pericolo di contrapposizioni,
perché le prigioni sono popolate da persone senza risorse economiche e poche
culturali. L’ideologia politica delle pene non
si ferma più solo al punire le persone in seguito a un reato ma di
gestire gruppi sociali in ragione del rischio
criminale. In effetti, attraverso il diritto penale si perseguono
finalità politiche di controllo sociale che tendono a criminalizzare anche
soggetti che vivono nella marginalità, nei cui confronti è assente una
richiesta sociale di censura, e che il potere invece
addita come nemici pur se non necessitano del ricorso all’istituto
della pena per essere controllati.
Attenzione
perché se il sistema penale pone fra i suoi
obiettivi quello della difesa sociale, per avviarsi sulla strada della
incapacitazione di soggetti appartenenti a frange avvertite come pericolose, si
colloca in un ambito improprio che è quello di polizia, fuori da un contesto
proprio di uno Stato di diritto e fuori dalla Costituzione. La
maggioranza delle persone recluse sono giovani, immigrati e tossicodipendenti soprattutto,
provenienti da strati sociali deboli e marginalizzati, quasi sempre coinvolti
in economie e mercati illegali in ruoli subalterni, autori di delitti predatori
o di criminalità opportunista, cosa che rende e purtroppo questa tendenza di
aumento della carcerizzazione continuerà, in quanto il percorso è ben visibile
e tracciato e porta alle minoranze razziali, etniche, culturali,
sociali ed economiche segnate da stili
di vita ai margini della legalità e
irrimediabilmente perse a ogni speranza realistica di inclusione, nella logica
militare di: “più prigionieri faccio, da meno nemici dovrò guardarmi”.
Il carcere è
solo l’anello finale di una catena giudiziaria che è mera vendetta
di uno Stato che applica ancora la legge del taglione, l’odio
istituzionalizzato, e non ha cura né del reo e nemmeno della vittima. La genesi
è nelle aule del tribunale dove poveri e stranieri, spesso la stessa persona,
sono condannati in ragione di una mancanza di reale difesa, mentre il termine
giustizia si coniugherebbe veramente al suo più alto livello se il magistrato
uscisse dalla recita inquisitoria e avesse interesse del presunto reo, nella
sua unicità, cosciente che la vita è breve e che dall’errore può arrivare il
cambiamento. La prigione umilia, annulla,
stigmatizza e impone il dolore, la sofferenza, è crudeltà, crea
e aumenta la pericolosità di tutti coloro che vi transitano, che diventano a
loro volta moltiplicatori irreversibili e potenziali della violenza ricevuta.
Il carcere è considerato un male necessario, nella mancanza di coscienza e
conoscenza in generale, senza sapere che provoca più problemi di quanti ne
risolve. Sembra non possa esserci alternativa a esso, mentre l’unica soluzione
possibile è l’abolizione delle prigioni che non è
un’utopia.
Non vi è
alcun motivo di credere che lo spettro della prigione ridurrà la criminalità, è
pertanto assurdo ritardare la ricerca di una soluzione di non carcere. È
possibile vivere in un mondo migliore, con un’esecuzione della condanna che sia
rispettosa dei diritti dei condannati; invece di reprimere è più utile, sicuro
e degno investire in politiche pubbliche per ridurre le diseguaglianze sociali.
Ma è necessario buona volontà e un atto rivoluzionario per eliminare le prigioni
di Stato con le loro torture. Cito dal nostro Manifesto: “Credere e praticare
oggi una volontà abolizionista del carcere è irrealistico quanto nel passato lo
fu invocare l’abolizione della tortura e della pena di morte”.
* Portavoce di “No Prison”
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