lunedì 31 agosto 2020

Ciò che ci rende umani - Lorenzo Jovanotti in dialogo con Mariangela Gualtieri

io ringraziare desidero - Mariangela Gualtieri

 

Gli Stati Uniti sono uno stato in fallimento/fallito? - Richard Falk


Chiedere se gli Stati Uniti, la potenza militare mondiale dominante, sia ‘uno stato in fallimento’ dovrebbe causare un’ansia mondiale. Un tale stato, analogamente a un animale ferito, è una minaccia globale di proporzioni senza precedenti nell’era nucleare. La sua dirigenza politica esibisce una scellerata tendenza a combinare incompetenza ed estremismo. E’ anche cruciale accertare a che punto uno stato in fallimento debba essere depennato come ‘stato fallito’ per il quale non c’è più un chiaro percorso di redenzione. Le elezioni di novembre manderanno un forte segnale sull’essere gli Stati Uniti in fallimento o già falliti.

Lo stesso porsi tali temi già suggerisce quanto gli Stati Uniti siano decaduti durante gli anni di Trump pur essendo già in netto declino internazionalmente fin dalla guerra in VietNam, continuando poi salvo alcune mosse di redenzione (adesso rinunciate), durante la presidenza Obama. Le reazioni della presidenza Trump alle due grandi crisi del 2020 sono servite a rassodare l’immagine dello stato #1 del mondo come davvero in caduta, e non solo frutti agri che assumono la forma  di un’espressione di frustrazione di parte per una leadership terrificante – tale perché d’ affermazione delle caratteristiche più regressive del passato americano e intanto vantando credito senza convincere, per l’aumento dei valori di borsa e la bassa disoccupazione. La pandemia Covid-19 e la campagna di Black Lives Matter contro il razzismo sistematico hanno dato a Trump l’occasione di mostrare la sua incompetenza letalmente sistemica come gestore di crisi provocando migliaia di morti fra i suoi concittadini. Inoltre con l’occasione ha potuto mostrare al mondo la sua solidarietà apparentemente autentica per lo spirito confederate del sud degli USA che ha cercato di spaccare il paese e preservare la sua cultura a sostegno della barbarica economia schiavista nella guerra civile americana 150 anni fa, risultando da allora un dolente perdente.

Con questi sviluppi chiarificatori, non coglie più tutta la realtà di questa tendenza in giù accontentarsi di richiamare l’attenzione al ‘declino imperiale’ dell’America. Per come stanno attualmente le cose, sembra più rilevante insistere a descrivere gli USA come uno ’stato in fallimento’ e cercare di capire che cosa significa per il paese e per il mondo. Per la precisione è instruttivo rendersi conto che gli Stati Uniti non sono uno stato in fallimento, bensì il primo caso di stato globale in fallimento, tenendo debitamente conto del suo stato egemonico multi-dimensionale in quanto concretizzato dalla proiezione planetaria della sua possanza militare per aria, mare e terra, spazio e cyber-spazio, nonché dalla propria influenza sull’operare dell’economia mondiale e dal carattere di cultura popolare, espressa nella musica o nella gastronomia.

Ci sono parecchi parametri per uno stato in fallimento che possono far luce sulla realtà USA:

  • fallimenti funzionali: incapacità di rispondere adeguatamente alle sfide che minacciano la sicurezza della società e della sua popolazione da parte di attori politici ostili interni ed esterni, come pure dalle instabilità ecologiche, dalla fame e povertà estrema diffuse, e da un carente sistema sanitario e reattivo ai disastri;
  • fallimenti normativi: rifiuto di ottemperare alle norme sistemiche a livello internazionale come inserite nel diritto internazionale e nello statuto ONU, pretendendo impunità e di agire sulla base di standard doppi per attuare le proprie usurpazioni geopolitiche sul benessere di altri e nell’ indifferenza ai pericoli ecologici; gli schemi di fallimenti normativi comprendono avalli di politiche e prassi che danno luogo a genocidio ed ecocidio, costituenti le più basilari violazioni del diritto penale internazionale e dei diritti sovrani di paesi stranieri; i torti sono troppi per essere precisati, fra cui comunque gravi e sistemiche negazioni di diritti umani nella governance nazionale; strutture socio-economiche che generano inevitabilmente acute diseguaglianze socioeconomiche secondo la classe, la razza, e il genere.

Alcune considerazioni aggiuntive accentuano la realtà di condizione fallimentare degli USA per le estese dimensioni extraterritoriali che accompagnano il divenire di ‘uno stato globale in fallimento’. Questo nuovo tipo di creatura politica transnazionale dovrebbe venire classificato come primo esempio storico di ‘superpotenza geopolitica’. Un tale attore politico è né separato da né del tutto soggetto al sistema statocentrico dell’ordine mondiale evolutosi dalla Pace di Westfalia nel 1648, e universalizzatosi nei decenni successivi alla 2^ guerra mondiale. Benché mancando un vero antecedente, il ruolo delle ‘grandi potenze’ europee o degli ‘imperi coloniali’ dà indicazioni per la valutazione degli USA come stato globale o superpotenza geopolitica;

  • efficacia: la perdita di efficacia di uno stato in fallimento si svela nella sua incapacità di mantenere ed esercitare il controllo sulle sfide alla propria supremazia. Tale analisi è giustificata da operazioni militari fallite (interventi per cambiamenti di regime) e dall’incapacità d’imparare da e superare errori passati, da constatazioni sorprendenti di vulnerabilità del territorio nazionale (gli attacchi del 11 settembre [2001]) e da reazioni eccessivamente costose e distruttive (il varo della ‘guerra al terrore all’indomani 12 sett.); rispetto e fiducia calanti da parte di attori politici secondari, fra cui stretti alleati, nel contesto di arene di formazione di una linea politica globale, fra cui l’ONU; quale ulteriore riflessione di tale dinamica di controllo perso c’è lo schema di ritiro dai campi non più controllabili (Consiglio sui Diritti Umani, OMS) e del rigetto di accordi che appaiono benefici al mondo intero (Accordo sul Cambiamento Climatico di Parigi e Accordo sul Programma Nucleare Iraniano-JCPOA);
  • legittimità: la legittimità di uno stato globale, che per sua natura compromette potenzialmente la sovranità politica e l’indipendenza di tutti gli altri stati, riflette quant’altro sopra, la sua utilità come fonte si autorità per la soluzione di problemi, specialmente in questioni di guerra/pace e situazioni di recessione economica globale; il grado di legittimità dipende anche dalle percezioni delle élite politiche e dell’opinione pubblica che le asserzioni di leadership globale siano in generale benefiche per il sistema nel suo insieme e come particolarmente d’aiuto agli stati vulnerabili per sfide acute di sicurezza e sviluppo; a questo proposito, gli USA hanno goduto di un alto grado di legittimità dopo la fine della 2^ guerra mondiale, come fonte di sicurezza e perfino di guida per molti governi in quasi tutte le regioni del mondo durante tutta la Guerra Fredda, e furono anche apprezzati come architetti di un ordine economico liberale governato dalle norme che operava con le istituzioni di Bretton Woods incaricate di evitare ricorrenze della Grande Depressione che aveva minato la stabilità e il benessere economico durante gli anni 1930, sviluppi che avevano poi contribuito al sorgere del fascismo e allo scoppio di una guerra sistemica costata almeno 50 milioni di vite. Il ruolo della dirigenza USA fu anche prominente nel raggiungimento di un ordine pubblico globale in settori come la gestione degli oceani, l’evitare conflitti in Antartide e nello Spazio Extra-terrestre, nell’istituire standard internazionali di diritti umani, e nel promuovere un inter-nazionalismo liberale come modo per valorizzare approcci cooperativi globali a problemi condivisi.

Come qui suggerito, gli Stati Uniti come stato in fallimento si sono graficamente rivelati tali nella propria reazione alla pandemia COVID-19: rifiuto di seguire avvertimenti precoci; inaccettabili carenze di attrezzatura per il personale sanitario e insufficiente capacità ospedaliera; premature aperture economiche di ristoranti, bar, negozi; contraddittori standard di guida da esperti sanitari e capi politici, comprese falsità e false notizie abbracciate dal presidente USA nel bel mezzo di un’ emergenza sanitaria. Oltre a questo, Trump ha adottato un inappropriato approccio nazionalista e mercificatore alla ricerca di un vaccino capace di conferire immunità alla malattia, ma al tempo stesso immobilizzando l’ONU, e specialmente l’OMS, come sede indispensabile per trattare le epidemie di portata globale, ivi compreso il suo ruolo di dispensatrice di assistenza vitale ai paesi più svantaggiati. Questi fallimenti sono risultati in modo traumatizzante nel registrare gli USA un numero maggiore d’infetti che qualunque altro paese al mondo, nonché nella massima incidenza di fatalità attribuibili al morbo.

Contrastanti sono state le risposte di vari paesi molto meno sviluppati e ricchi, che hanno contenuto efficacemente il morbo senza gran perdita di vite o gravi danni economici in termini di occupazioni perse e diminuita prestanza economica. Giudicate dalla prospettiva sanitaria, tali società sono storie di successo, e istruttivamente la loro identità ideologica attraversa l’intero spettro politico, comprendendo il Vietnam socialista statalista e paesi mossi dal mercato come Singapore, SudCorea, e Taiwan. Tali risultanze vanno in parallelo a quella di Deepak Nayyar che nel suo libro di sfondamento The Asian Resurgence (2019) riferisce che l’esperienza di notevole crescita delle 14 società asiatiche che egli valuta empiricamente avvalora la conclusione che l’ orientamento ideologico non sia un indicatore economicista di successo o fallimento. Tali reperti sono rilevanti nel refutare le asserzioni trionfalistiche dell’Occidente che il crollo sovietico dimostrasse la superiorità del capitalismo nei confronti del socialismo. Il fattore cruciale quando si tratti di successo economicistico è la gestione competente dei rapporti stato/società sia in quanto all’investimento dei risparmi nel dare precedenza a progetti di sviluppo, sia cercando d’imporre un lockdown per ridurre la diffusione di un morbo infettivo letale.

Tuttavia, c’è un lato normative degli schemi reattivi come sopra suggerito. La Cina tratta la ricerca disperata di un vaccine agibile come un bene pubblico condivisibile, mentre gli Stati Uniti con Trump mantengono il loro approccio transazionale standard nonostante problemi di accessibilità economica per molti paesi del Sud globale, come pure per i poveri nel Nord. Da una prospettiva da 21° secolo, l’ethos dell’essere tutti insieme in questo pantano è l’unico fondamento per affrontare i dilemmi sempre più impegnativi dell’ordine mondiale. E’ un segno di uno stato in fallimento, indipendentemente dalle proprie capacità e status, utilizzare il proprio potere d’influenza per ottenere vantaggi nazionali e geopolitici. Dello stesso segno è pure l’ignominia normative di rifiutarsi di sospendere sanzioni unilaterali imposte a paesi come Iran e Venezuala, già in difficoltà, almeno per la durata della pandemia in risposta a diffuse appelli umanitari da attori della società civile ed istituzioni internazionali.

Un’osservazione finale sull’orientamento del vettore USA: verso un futuro di fallimento o di redenzione. Se Trump perde l’elezione e lascia la Casa Bianca al suo avversario le prospettive di rovesciare la tendenza fallimentare migliorano, mentre se Trump è rieletto in novembre o riesce a cancellare il risultato elettorale gli USA si saranno avvicinati a diventare uno stato fallito con l’avallo della cittadinanza o con l’evidente infiacchimento dell’ordine costituzionale, non più abbastanza resiliente da rigettare il fallimento. Anche se Trump viene sostituito e il trumpismo recede, sarà difficile ridurre lo slancio dietro al capitalismo predatorio e al militarismo globale senza una spinta rivoluzionaria che rigetti il consenso bipartitico su tali temi e sfidi la sufficienza della democrazia procedurale centrata sul ruolo dei partiti politici e delle elezioni. Solo un movimento progressista dal basso infrangerà quel consenso, ponendo fine ai lamenti sulla transizione USA incerta fra fallimento rischiato e avvenuto. Se la dirigenza di Black Lives Matter a un’alternativa movimentista sia robusta e rappresentativa delle varie istanze abbastanza da por fine alla caduta libera americana si chiarirà nei prossimi mesi.

da qui


Il re è nudo - Lorenzo Zamponi

 Juan Carlos fugge dalla Spagna, una fine ingloriosa per il simbolo della transizione alla democrazia. Vengono a galla fratture storiche della società spagnola e, anche se Sanchéz non vuole contrapporsi alla monarchia, l'esisto non è scontato

Juan Carlos di Borbone scappa dalla Spagna. Lunedì scorso, con una lettera al figlio Felipe VI, l’ex re ha annunciato quella che somiglia più a una fuga che a un esilio. Braccato dagli scandali di corruzione e dalla pressione politica che aveva già costretto il figlio a rinunciare alla sua eredità e a tagliargli i fondi, e che spingeva ora verso una sua umiliante cacciata dal palazzo reale, Juan Carlos se ne va, nel tentativo disperato di salvare la monarchia spagnola liberandola dalla sua screditata figura. Una fine ingloriosa e fino a qualche anno fa impensabile per quello che era stato il simbolo della transizione alla democrazia. A travolgere l’ex re, del resto, sono proprio le macerie del consenso su cui la stessa transizione si era basata. Dal 2011 in poi, sono riemerse divisioni e fratture storiche, e l’anomalia del re che riusciva a essere allo stesso tempo erede di Franco e padre della democrazia è venuta a galla. Per una parte importante degli spagnoli, oggi, Juan Carlos non è che uno dei tanti esponenti di un’élite arraffona e impunita.

La fuga dell’ex re Borbone

La fuga del re è l’esito di una serie ormai infinita di scandali di corruzione che hanno colpito Juan Carlos e la sua famiglia nell’ultimo decennio. Dal costosissimo safari in Botswana del 2012 alle rivelazioni di Corinna Larsen, amante di Juan Carlos, sulle tangenti per la costruzione di una ferrovia ad alta velocità in Arabia Saudita, fino ai conti in Svizzera, ai prestanome, alle società fittizie. Nel 2014 abdicò a favore del figlio Felipe, nel 2019 annunciò il suo ritiro dalla vita pubblica, ma la pressione non accennò a diminuire: nel marzo scorso Felipe VI rinunciò all’eredità paterna e privò il padre del sontuoso appannaggio che gli spettava. Nelle scorse settimane, l’accumularsi di nuove rivelazioni sul conto dell’ex re aveva portato alla richiesta di fargli abbondare la Zarzuela, la residenza della famiglia reale. Fino alla scelta di fuggire verso il Portogallo, secondo alcuni per rifugiarsi all’Estoril (dove già aveva vissuto in esilio insieme al padre Juan, a due passi da un altro monarca in esilio, il nostro Umberto II), secondo altri per volare nella Repubblica Dominicana.

Benché a parole Juan Carlos se ne sia andato per far calare la tensione, l’effetto è stato diametralmente opposto: la destra del Partito Popolare, da sempre monarchica e post-franchista si è schierata a difesa del sovrano, mentre l’estrema destra di Vox ha colto l’occasione per accusare il vicepresidente del governo Pablo Iglesias e il suo partito Podemos di aver di fatto costretto il re alla fuga. Una colpa per la destra monarchica, un merito per la sinistra repubblicana (che in realtà non sembra aver avuto grandi responsabilità, nel bene o nel male), un grande imbarazzo per il Partito Socialista. Com’è emerso già nelle prime ore, infatti, la fuga di Juan Carlos non è stata concordata solo con il re Felipe, ma anche con il presidente del governo, il socialista Pedro Sánchez e con altri membri dell’esecutivo: guarda caso, tutti tranne quelli di Unidas Podemos, considerati non affidabili da parte della famiglia reale. Il risultato ora è una spaccatura fortissima all’interno del governo, con la sinistra di Unidas Podemos che accusa l’ex re di essersi sottratto alla giustizia e ai doveri di trasparenza di un ex capo dello stato e coglie l’occasione per rilanciare l’idea di «una repubblica solidale e plurinazionale» chiedendo che «il popolo decida». Un referendum tra monarchia e repubblica, sull’onda dell’indignazione, è esattamente ciò che Sánchez vuole evitare, distinguendo pubblicamente tra «istituzioni e persone», cioè tra la corruzione di un re e la stabilità della monarchia e ribadendo l’impegno dei socialisti in difesa della monarchia parlamentare.

Eppure la dinastia borbonica non è mai stata così a rischio negli ultimi quarant’anni: per la prima volta dalla fine del franchismo è al governo una forza, Unidas Podemos, esplicitamente repubblicana, e sentimenti repubblicani sono ormai egemoni in vaste aree del paese, prima fra tutte la Catalogna. C’è un motivo se dal 2015 il Cis, il centro di ricerca sociale statale, nei suoi sondaggi non chiede più di esprimere una preferenza netta tra monarchia e repubblica: ha paura della risposta.

Re, franchista e democratico

«Non sono monarchico, sono juancarlista». In questo modo di dire, molto diffuso in Spagna negli anni Ottanta, sono racchiuse la forza storica e la debolezza attuale della monarchia spagnola. Il consenso pubblico intorno al regime parlamentare uscito dalla transizione non si è mai costruito su una vera accettazione diffusa dell’istituzione monarchica, ma sulla figura di Juan Carlos, garante della stabilità democratica. «Vorrei la repubblica, e poter votare Juan Carlos come presidente», si sentiva dire a sinistra ancora negli anni 2000. Può reggere la monarchia spagnola alla totale perdita di credibilità di una figura così fondamentale?

Juan Carlos è il terzo Borbone consecutivo a scappare in esilio. Suo nonno Alfonso XIII e suo padre Juan fuggirono nel 1931, alla proclamazione della Seconda Repubblica, per poi sostenere apertamente la parte franchista durante la guerra civile. Juan Carlos nacque nel 1938 a Roma, ospite del regime fascista, e fu nominato erede al titolo di capo dello stato non da una legge dinastica, ma da un atto del dittatore Francisco Franco, che lo proclamò proprio successore nel 1969, quando il legittimo erede, il padre Juan, era ancora in vita. Un salto dinastico dovuto ai cattivi rapporti tra il conte di Barcellona e Franco, che considerava il giovane erede più malleabile. La rilevanza storica della figura di Juan Carlos sta tutta negli anni chiave tra il 1975, con la morte del dittatore, e il 1978, con l’approvazione della Costituzione. Il giovane re riuscì a giurare sui principi del franchismo e a guidare la transizione alla democrazia, con un atto di equilibrismo politico a dir poco notevole.

In una Spagna divisa tra franchismo e democrazia, e traumatizzata dalla tragedia dello scontro armato tra queste due parti, di fatto, la monarchia parlamentare rappresentò un compromesso accettabile per molti se non per tutti. Soprattutto, rappresentò un compromesso estremamente proficuo per le élite nazionali e internazionali: il mondo economico spagnolo e il governo americano, dopo aver sostenuto il franchismo per decenni, erano ben consapevoli della necessità di una normalizzazione democratica che facilitasse l’integrazione a pieno titolo della Spagna nell’Occidente avanzato, ma temevano una repubblica dominata dalle sinistre, allora a pieno titolo anti-Nato, compresi i socialisti. Juan Carlos rappresentò l’uovo di Colombo, il punto d’equilibrio, il garante della continuità nella Spagna che doveva cambiare. La determinazione nel perseguire questo obiettivo di normalizzazione democratica gli conquistò se non l’apprezzamento sicuramente il rispetto di molti, comunisti compresi, che arrivarono, da principali eredi della repubblica abbattuta da Franco, a votare a favore della nuova costituzione monarchica.

Una credibilità rafforzata dalla vicenda del cosiddetto «23-F», quando, il 23 febbraio 1981, un gruppo di militari guidato dal colonnello Tejero occupò il parlamento e il paese rimase per ore sull’orlo di un nuovo golpe, finché un intervento televisivo del re, ribadendo l’irreversibilità del percorso democratico, mise fine al tentativo. In questo episodio, d’altra parte, sta tutta l’ambiguità della figura di Juan Carlos: se consideriamo sorprendente al limite dell’eroismo il fatto che un re si sottragga alla tentazione della complicità con un golpe militare, cosa stiamo dicendo della natura stessa della monarchia e del suo rapporto con la democrazia?

E del resto, la necessità della monarchia per tenere insieme un paese altrimenti strutturalmente destinato alla frattura territoriale e politica non è che un’evoluzione, sicuramente in senso democratico, dell’assioma franchista sulla necessità della dittatura come garanzia della pace e dell’unità. Ma se senza Juan Carlos non c’è monarchia, senza monarchia può esserci Spagna?

«Los Borbones son unos ladrones»

Se nel 2017 cantare che «i Borboni sono ladri» costò una condanna a tre anni e mezzo di carcere al rapper Valtònyc, oggi la storia rischia di dargli ragione. E non è un caso che siano proprio gli scandali di corruzione a portare alla monarchia il colpo che i repubblicani non sono mai stati in grado di darle. Il legame strettissimo tra politica e affari è stato uno dei nodi strutturali del cosiddetto «regime del ‘78», come gli Indignados nelle piazze del 2011 chiamavano il sistema politico emerso dalla transizione. Juan Carlos cade come sono caduti, almeno elettoralmente, i principali pilastri di quel regime, i due partiti principali, popolare e socialista. E cade sulle stesse accuse che hanno travolto prima di tutto i popolari, ma di fatto l’intero sistema politico: una corruzione sistematica e radicata, una commistione tra politica e affari senza soluzione di continuità, un sistema di tangenti e «porte girevoli» in cui l’élite si muove agevolmente. Il ruolo del tema della corruzione, e della natura castale dell’élite politica e finanziaria del paese, è stato centrale sia nelle piazze del 2011, sia nel discorso politico di Podemos, sia nella crescita dell’indipendentismo in Catalogna. Juan Carlos abdicò nel giugno 2014, pochi giorni dopo l’exploit di Podemos alle elezioni europee: nessun rapporto di causa-effetto ovviamente, solo l’estrema destra sopravvaluta così tanto il ruolo della sinistra repubblicana, ma sicuramente il segno di un cambio di fase, della crisi organica del sistema politico nato dalla transizione alla democrazia.

Juan Carlos è stato il garante della normalizzazione spagnola, di una transizione alla democrazia che non toccasse integrità territoriale, schieramento internazionale e poteri economici. Oggi non c’è elemento di questa normalizzazione che non sia in crisi, e l’ex re si trova a pagare il prezzo di un’impunità troppo a lungo goduta. Con lui se ne va uno degli ultimi pilastri di quell’equilibrio, aprendo scenari di grande incertezza sul futuro. Il decennio post-15M, infatti, se ha visto l’emersione di Podemos, il primo governo di coalizione dai tempi della Seconda Repubblica e innovazioni sociali estremamente significative (pensiamo a cosa significhi oggi il femminismo in Spagna), ha anche visto riemergere una destra radicale apertamente razzista, nazionalista e antidemocratica, con il successo di Vox. Una volta saltato il consenso centrista, il «liberi tutti» vale davvero per tutti. Il fantasma del conflitto inevitabile tra le «due Spagne», che ha sorretto prima il franchismo e poi la transizione, è una costruzione ideologica reazionaria. Ma il carattere di fondo delle grandi trasformazioni che attendono la Spagna non è affatto dato. Di sicuro, avverranno senza la benevola benedizione di Juan Carlos. E chissà se suo figlio Felipe riuscirà a rompere l’ormai secolare tradizione della fuga in esilio o passerà, invece, alla storia come l’ultimo dei Borboni.

 

*Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino).

da qui

 

 

domenica 30 agosto 2020

Vittima - Ascanio Celestini


 

L’arresto di quest’uomo è soltanto l’inizio di un’offensiva del Deep State e di tutto il sistema di potere del Nuovo Ordine Mondiale.

Non prendiamo per buone
le verità dei media mainstream.
Poniamoci qualche domanda
.

Bannon non era amico di Salvini, Le Pen e Orban?
E perché nemmeno Trump corre in suo aiuto?

È una coincidenza se il logo degli Illuminati è stampato sulle banconote da un dollaro con la scritta Novus Ordo Seclorum?
È una coincidenza il riferimento al magico triangolo di Gerusalemme i cui vertici sono il Muro del Pianto, Santa Maria dei Teutonici e la spianata delle moschee?

È tutto ciò non ci fa naturalmente pensare ai Protocolli dei Savi di Sion (Протоко́лы сио́нских мудрецо́в in russo) e al sionismo americano?

E se tra le due guerre i membri del Ku Klux Klan (il cui simbolo è proprio una croce!?!) erano sei milioni, dopo l’incidente di Roswell se ne contano poche migliaia. Un’altra coincidenza che dobbiamo andare a verificare nell’Area 51?
Non ce lo permetteranno. No. Il Deep State ha troppi segreti da nascondere che nemmeno Julian Assange rivelerà mai. Soprattutto dopo l’avvelenamento di Aleksej Navalnyj!

E perché Hal Roach litigò con Stan Laurel facendo sciogliere la celebre coppia Stanlio e Ollio proprio in quegli anni?
Si tratta di una coincidenza che i suoi studios finirono in mano ai militari e furono ribattezzati “Fort Roach”?
Si tratta di un caso che furono affittati e gestiti dalla United States Army Air Forces (USAAF) per la quale realizzò 400 film? I membri della “truppa” includevano nomi come Ronald Reagan, il futuro presidente.
Anche questo è un caso?

Vi ricordate “Six six six the number of the beast” degli Iron Maiden.
E perché prima di quel celebre disco furono costretti a epurare Paul Di’Anno?

Sapevate che è nativo di Chingford? In quello stesso borgo è cresciuto Peter Greenaway, uomo di cinema anche lui, e sceneggiatore non a caso, del lungometraggio “The Baby of Mâcon”.
Vi ricordate che quel film termina con la Chiesa che “decreta lo smembramento del bambino, i cui pezzi (come le sue secrezioni prima) vengono venduti a caro prezzo”?
(fonte Wikipedia)

Ed è ovviamente nell’Inghilterra del gruppo musicale heavy metal britannico, la terra più multirazziale del pianeta, che il piano Kalergi trova il terreno più fertile e precisamente nel mondo magico del cinema.

Sapevate che non è negli USA, ma nel Regno Unito, precisamente a Borehamwood che sono ospitati gli studi della statunitense Metro-Goldwyn-Mayer dove il controverso e misterioso Stanley Kubrick girò i suoi film?

E non è un caso che in questo piccolo borgo ci sia la più grande sinagoga ebraica del Regno Unito, mentre la seconda si trova a Stanmore, dove lo stesso Kubrick si recò per conoscere Emilio D’Alessandro, italiano di Cassino, che per più di trent’anni è stato il suo autista personale e factotum.

E perché proprio un italiano di Cassino?
Cosa c’entra Cassino? Non vi pare strano che tanti luoghi sacri della cristianità vennero salvati dalla distruzione, ma l’abbazia più antica d’Italia sia stata completamente distrutta dagli americani nel febbraio del 1944?
Da quel luogo proveniva D’Alessandro!
Ci nasconde qualcosa che riguarda il falso allunaggio dell’Apollo 11?
Le immagini che conosciamo furono girate dal regista di 2001 Odissea nello spazio?

E proprio a Stanmore, dove incontrò Kubrick, oltre alla grande sinagoga, c’è un importante tempio indù e una moschea, ma solo il 31% di cristiani.
Sarà un caso anche questo?

Ed è proprio a pochi chilometri da Cassino, nella Grotta Guattari, sulla linea del fronte conteso tra tedeschi e americani, che il professor Alberto Carlo Blanc appena 5 anni prima del bombardamento aveva trovato i preziosi resti di un Homo neanderthalensis. Tra i resti c’era un cranio con misteriosi “segni di aggressione e svuotamento encefalico”. Segnali di un possibile incrocio tra alieni rettiliani e abitanti primitivi del nostro pianeta.

Forse con la distruzione di Cassino volevano cancellare le tracce dell’esperimento rettiliano!

Già nel ’99 David Icke pubblicò The Biggest Secret: The Book That Will Change the World, nel quale affermò che il pianeta sarebbe controllato da un Nuovo ordine mondiale. E “afferma che George W. Bush e la sua famiglia” fanno parte di una razza extraterrestre. E che hanno “costituito una società segreta, la Babylonian Brotherhood (Fratellanza babilonese), con lo scopo di controllare segretamente il mondo. La politica estera statunitense sarebbe prodotto di una cospirazione dei rettiliani per rendere schiava l’umanità”.

Icke cita nelle sue opere “gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e la pandemia di COVID-19 del 2019-2020 come esempi di eventi causati dal governo segreto, arrivando a teorizzare un controllo e una responsabilità da parte di esso sulla maggior parte degli eventi negativi degli ultimi tre secoli”.
(fonte Wikipedia)

Secondo alcuni sarebbe solo un caso che appena quattro giorni dopo la fuga dell’orso M49 dal recinto de Casteller il celebre pensatore americano Steve Bannon “viene arrestato su richiesta della Proccura federale di New York mentre era a bordo nel Connecticut di uno yacht di proprietà del miliardario cinese Guo Wengui”.
(fonte Wikipedia)

Ed ancora un caso se in queste ultime ore il radiocollare dotato di sistema di geolocalizzazione dell’orso, detto Papillon, è stato localizzato in zona Passo Cinque Croci in direzione Valsugana, conosciuta per la polenta fatta con mais ingrediente base della cucina degli aztechi, popolo precolombiano che praticava sacrifici umani?

Bannon è l’ennesima vittima di un complotto giudaico-comunista finanziato dai rettiliani di Hollywood ordito da Lady Gaga costretta da Barack Obama su ordine di George Soros per ottenere il prezioso adrenocromo spremuto dalla ghiandola pineale dei bambini deportati a Hollywood.

Tutto torna!

Pronunciate al contrario
la ricetta segreta della Coca Cola
e verrà fuori:
il Molise non esiste!

da qui


Su Edward Said e i suoi nemici - Hamid Dabashi


Said impegnato con la Palestina a un livello così profondamente umanista da aiutare a globalizzare la causa e smantellare l’euro-universalismo

Anni dopo la sua prematura scomparsa, la torreggiante figura di Edward Said (1935-2003) continua a illuminare il nostro cammino mentre navighiamo in acque tempestose nella storia del mondo.

Quali sono state le origini e le ragioni alla base della sua tenace intransigenza nel dire la verità al potere, e in che modo ha permesso a un’intera generazione di pensatori critici di fare lo stesso?

L’aspetto determinante del carattere morale e intellettuale di Edward Said come portavoce principale della causa palestinese è stato il modo in cui ha definito quella fondamentale causa politica della sua e nostra generazione in termini altrettanto definitivi di altri movimenti cruciali per la giustizia in tutto il mondo.

È stato esattamente l’opposto dei nativisti che definiscono i termini della loro particolare politica a scapito degli altri. Questa identificazione con Said non è stata solo ad un livello emotivo o carismatico. Era profondamente morale e una questione di principio etico che a sua volta si traduceva in solidi termini intellettuali e teorici.

Sono stato un testimone partecipante in due importanti occasioni, solo la punta dell’iceberg, quando l’universalità dell’appello politico e intellettuale di Said era sulla scena mondiale. La prima fu nell’ottobre-novembre 2000 quando l’Accademia Italiana per gli Studi Avanzati alla Columbia University, dove Said ha insegnato per decenni fino alla sua scomparsa, ospitò l’eminente figura fondatrice della scuola di Studi subalterni, lo storico indiano Ranajit Guha, per tenere una serie di seminari.

In questo occasione, il mio illustre collega della Columbia Gayatri Spivak ed io organizzammo una conferenza di due giorni sui seminari di Guha che chiamammo “Studi subalterni in generale”. Said, presente a questa conferenza, tenne un discorso di apertura nella sua prima sessione plenaria.

Avevamo invitato i principali pensatori critici e studiosi provenienti da Asia, Africa, America Latina, Australia, Europa e Stati Uniti – e il vocabolario stesso delle nostre discussioni erano quasi interamente articolazioni varie del lavoro di Said.

In un’altra occasione, nell’aprile del 2003, pochi mesi prima della sua morte, in qualità di presidente del mio dipartimento, organizzai una conferenza internazionale in occasione del 25° anniversario della pubblicazione di ‘Orientalismo’ di Said, alla quale ancora una volta avevamo invitato eminenti studiosi, letteralmente dai quattro angoli del mondo, con Said che avrebbe tenuto le osservazioni conclusive.

Anche in questa conferenza fummo tutti testimoni del modo in cui la centralità fondamentale di ‘Orientalismo’ di Said abbia avuto risonanza globale, forse anche al di là delle sue iniziali aspettative. Si poteva vedere come le opere di pensatori critici, da Nietzsche a Gramsci ad Adorno a Fanon, fossero tutte arrivate a compimento nel lavoro di Said.

 

Diffamare Said

Condivido questi ricordi per sottolineare il mio suggerimento che gran parte del mondo civilizzato e colto, il mondo moralmente e politicamente attento e coscienzioso, ha ragioni per conoscere, amare e ora ricordare e ammirare Said per obiettivi interni ai propri progetti politici.

Said naturalmente aveva la sua parte di nemici giurati, forze nefaste investite nella ricerca, vana, di diffamarlo. Di recente mi sono imbattuto in un altro di questi pezzi da quattro soldi, questa volta su Newsweek, fra tutti i posti possibili.

Scopriamo che la pagina delle opinioni di Newsweek è diventata un territorio occupato da un editore filo-israeliano che sta usando questo forum per promuovere odio verso arabi e musulmani (in particolare palestinesi), per diffamare l’insurrezione di Black Lives Matter e cercare di assicurarsi altri quattro anni della malvagia follia di Trump, tutto perché gli israeliani possano rubare il resto della Palestina in un atto finale di rapina a mano armata.

Tutti questi pezzi condividono un errore comune: stanno tutti abbaiando all’albero sbagliato. Said non è dove stanno abbaiando. È da qualche altra parte.

 

Umanità condivisa

Durante la sua vita, nell’impegno e con l’esempio, Edward Said ha creato un particolare tipo di intellettuale pubblico che si è occupato della questione dominante del suo tempo, per lui focalizzata sulla questione delle aspirazioni nazionali palestinesi, in termini universali non eurocentrici.

È questo senso cruciale di umanità condivisa che ha portato la Palestina nell’epicentro del dialogo globale. Said si è impegnato con la Palestina a un livello così profondamente umanista da contribuire a globalizzare la causa palestinese in termini che avrebbero smantellato l’euro-universalismo che aveva sfidato con gran parte del suo lavoro accademico.

Due grandi tendenze intellettuali sono decisive per gran parte della scena americana del 20° secolo – altrimenti priva di qualsiasi tradizione intellettuale nostrana: gli intellettuali immigrati ebrei degli anni ’30 e successivi, e gli intellettuali afro-americani dell’Harlem Renaissance e dopo, con Hannah Arendt e James Baldwin come principali esempi di ciascuno.

Nel primo caso, gli Stati Uniti sono diventati i beneficiari delle atrocità omicide dei nazisti in Europa, e nel secondo, la scena stessa è stata abbellita dalle vittime di un razzismo terrorizzante che aveva preso di mira gli afro-americani con una svolta epocale nell’immaginazione morale e intellettuale di una nazione.

 

L’intellettuale nell’esilio

Come erede di queste due tradizioni, il successo di Said nel corso della vita è di aver creato una posizione per un diritto intellettuale arabo o musulmano o immigrato tra queste due potenti tradizioni, tra Arendt e Baldwin, per così dire. Lo stesso Edward Said non la vide in quel modo, poiché si identificava profondamente con il filosofo ebreo tedesco Theodor Adorno, e si considerava in esilio e quindi teorizzava la condizione di esilio.

Ma all’ombra di questa categoria di intellettuali esiliati sono emersi ovviamente gli informatori nativi come Fouad Ajami. Molto più esatto è vedere Said come la globalizzazione di una nuova categoria di intellettuale organico da qualche parte tra l’ebreo immigrato e gli intellettuali afroamericani senza poteri.

È proprio questa posizione iconica di Said all’interno di un’esperienza unicamente americana a turbare profondamente i sionisti razzisti, che pensavano di avere le spalle coperte dal mercato americano per le loro malvagie ruberie in Palestina. Proprio nel cuore dell’impero che continuano a mungere per armi e protezione politica è emersa una voce singolarmente potente: Edward Said.

Certo, lo odiano per vendetta, proprio per quelle stesse ragioni per cui il mondo in generale lo ama e lo ammira profondamente. “Accusano” Edward Said di aver ispirato aspetti dell’insurrezione di Black Lives Matter.

Questa non è un’accusa. Questo è un motivo per festeggiare.

Naturalmente Said è stato fonte d’ispirazione per gli afroamericani nelle loro storiche lotte per la giustizia e oggi, in figure giustamente famose come Angela Davis, Cornel West, Alice Walker e Eddie S Glaude Jr, sentiamo forte e chiaro gli echi della voce di Said e del modo in cui ha esteso il potere del suo intelletto carismatico al movimento Black Lives Matter.

E nessun arabo, nessun palestinese, nessuno in Asia, Africa e America Latina che si preoccupi ugualmente della giusta causa di neri e palestinesi potrebbe essere più orgoglioso di Said per questo ruolo fondamentale.

 

Hamid Dabashi è Hagop Kevorkian Professor di Studi iraniani e Letteratura Comparata alla Columbia University nella città di New York. I suoi ultimi libri includono Reversing the Colonial Gaze: Persian Travelers Abroad (Cambridge University Press, 2020), e The Emperor is Naked: On the Inevitable Demise of the Nation-State (Zed, 2020). Il suo prossimo libro, On Edward Said: Remembrance of Things Past, dovrebbe essere pubblicato da Haymarket Books entro la fine dell’anno.

 

Traduzione: Simonetta Lambertini-invictapalestina.org


 da qui

Misfatti NATO: l’uranio contro i civili - Gregorio Piccin (*)

 

Un avvocato italiano e il suo collega serbo insieme nel difendere le vittime civili e militari dell’uranio impoverito utilizzato alla fine degli anni ’90 dalla Nato nell’ex Jugoslavia

 

La responsabilità istituzionale per le «vittime interne» dell’uranio impoverito impiegato nelle «guerre umanitarie» della Nato nell’ex Jugoslavia è stata dimostrata inequivocabilmente dalla relazione finale della IV Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dall’onorevole Gianpiero Scanu e dalle 170 cause di servizio risarcitorie e indennitarie a favore di altrettanti ex militari strappate nei tribunali al ministero della Difesa dall’avvocato Angelo Fiore Tartaglia. Per le responsabilità individuali delle alte cariche istituzionali dovremo invece attendere gli esiti delle indagini aperte dalla procura della Repubblica di Roma e dalla procura Militare grazie ad un esposto depositato recentemente dal generale Roberto Vannacci e supportato dalle dichiarazioni del colonnello Fabio Filomeni.

MA QUELLA che si prospetta come una spallata definitiva al muro di gomma (nazionale ed internazionale) sull’affaire uranio impoverito è la inedita saldatura tra le vittime militari dei Paesi che parteciparono all’aggressione e quelle civili dei Paesi aggrediti.

GLI INCONTRI alla base di questa iniziativa epocale si svolgono da oltre un anno, con molta discrezione, nello studio romano di Angelo Tartaglia. L’eco dei ripetuti successi dell’avvocato italiano, che non pochi grattacapi ha procurato e sta procurando al ministero della Difesa, hanno raggiunto il suo collega serbo Srdjan Aleksic il quale, accompagnato da Domenico Leggiero dell’Osservatorio militare, ha voluto assolutamente incontrarlo.

OGGI SONO PRONTI a rendere pubblica, in esclusiva per il manifesto, la loro strategia che punta ad ottenere verità e giustizia ai massimi livelli. «Ho incontrato il mio collega Srdjan Aleksic per la prima volta presso il mio studio», spiega Tartaglia. «Mi raccontò di aver perso la madre a causa dell’uranio impoverito. È uno dei più autorevoli avvocati dei Balcani e si è subito creato fra di noi una grande intesa professionale ed umana. È arrivato il tempo di affrontare questa tematica che in Italia ha colpito e continua a colpire i nostri militari reduci da queste aree contaminate, ad un livello più alto. Affrontare la questione nei tribunali in Serbia significa entrare nel cuore giuridico del problema. Non risparmierò le mie energie, dedicherò tutto me stesso e con me il mio collega finché non avremmo raggiunto lo scopo di tutelare tutti. Mai più un danno così enorme alle persone inermi ed al territorio….».

ALEKSIC è infatti molto noto in Serbia: da anni organizza presso l’università di giurisprudenza di Niš simposi internazionali sull’uranio impoverito coinvolgendo massimi esperti da Russia, Giappone, Francia, Belgio, Germania e Cina.
«Il problema delle conseguenze dei bombardamenti è stata la mia ossessione per parecchi anni» spiega Aleksic – «Non solo per la tragedia che ha colpito la mia famiglia ma anche per i contatti personali quotidiani con i miei concittadini e con le persone del sud di Serbia. Il carcinoma ed altre malattie gravi con aumento di mortalità hanno segnato gli anni dopo l’aggressione criminale della Nato. Anzi, queste malattie sono diventate sinonimo dell’aggressione stessa. Grazie all’esperienza accumulata dal mio collega Tartaglia, faremo partire in autunno a Niš, Kragujevac, Belgrado, Vranje e Novi Sad altrettante cause risarcitorie. Si tratta di cause a favore dei malati di carcinoma, con incontestabili prove mediche che la malattia e’ provocata dall’uranio impoverito sparso durante i bombardamenti della Nato».

OLTRE alla sua esperienza l’avvocato Tartaglia ha messo a disposizione le perizie di istituzioni di riferimento che in Serbia non esistono come la Clinica Universitaria La Sapienza di Roma, l’Istituto di nanotecnologia di Milano e il Politecnico di Torino. «E comunque le cinque cause saranno solo il primo passo», continua Aleksic. «Nel mio ufficio adesso ho più di duemila casi di persone malate che in quel periodo lavoravano in Kosovo e Metohija. Dobbiamo radunare tutti i malati di carcinoma e altre malattie causate dall’uranio perché ogni singolo caso possa essere giustamente risarcito. Ciò vale anche per le famiglie dei morti che possiedono documentazione medica adeguata con prova della causa di morte. Verificheremo ogni singolo caso presso l’Istituto di nanotecnologia in Italia, presenteremo ogni singolo caso nei tribunali in Serbia e tramite le migliaia di cartelle cliniche chiederemo all’Onu di inviare ispettori indipendenti per fare verifiche sulla contaminazione dei territori a distanza di 21 anni dai bombardamenti. Poi ci rivolgeremo alla Corte dei diritti dell’uomo a Strasburgo e informeremo il Parlamento europeo. Il nostro obiettivo è che in tali processi siano chiamati in causa anche i Paesi che hanno partecipato direttamente o indirettamente ai bombardamenti Nato del 1999 anche mettendo a disposizione le loro basi. Questi Paesi, per la quasi totalità europei, dovranno farsi carico della bonifica totale dell’uranio impoverito presente sui nostri territori”.

Mentre la relazione finale della IV Commissione parlamentare d’inchiesta è stata depositata dallo stesso Scanu presso la presidenza del Parlamento europeo, l’internazionalismo giuridico che gli avvocati Tartaglia ed Aleksic stanno mettendo in campo varca i confini del legittimo risarcimento per le vittime militari e civili di questo maledetto metallo pesante ed assume chiari contorni politici: ristabilire finalmente quel diritto internazionale ed umanitario espropriato e fatto a pezzi dalla Nato.

 

(*) pubblicato ieri sul quotidiano “il manifesto”


http://www.labottegadelbarbieri.org/misfatti-nato-luranio-contro-i-civili/

sabato 29 agosto 2020

La Francia non ha molta voglia di fare i conti col proprio passato coloniale

 (ripreso da ilpost.it)


Le Monde racconta come molte aziende e istituzioni preferiscano non parlare di come – in modo diretto o indiretto – fecero fortuna con la tratta degli schiavi

La tratta degli schiavi tra il Sedicesimo e il Diciannovesimo secolo non ha lasciato solo statue o edifici nelle città europee dei paesi che vi hanno preso parte: ha portato anche alla fondazione e alla fortuna di varie aziende e istituzioni. Lo scorso giugno, dopo che il movimento Black Lives Matter ha ripreso forza in tutto il mondo a partire dagli Stati Uniti, la Royal Bank of Scotland, la Lloyds Bank, la Banca d’Inghilterra e persino il birrificio Greene King, tra gli altri, hanno riconosciuto i loro legami con la schiavitù, si sono scusate e alcune hanno anche promesso dei risarcimenti. In Francia, a differenza del Regno Unito, il passato schiavista di certe aziende e istituzioni del paese non è mai stato riconosciuto.

La Francia, così come il Regno Unito, i Paesi Bassi, la Spagna e il Portogallo, sono tra i principali stati europei ad aver praticato il cosiddetto “commercio triangolare”, uno dei più grandi traffici sviluppatisi nelle acque dell’oceano Atlantico tra il Sedicesimo e il Diciannovesimo secolo e avente come poli tre continenti: Europa, Africa e America. La prima tappa prevedeva il passaggio dall’Europa all’Africa, dove i prodotti europei venivano barattate in cambio di persone. Dall’Africa, gli schiavi venivano poi trasportati e venduti in America, mentre la terza tappa prevedeva il ritorno delle navi in Europa, con le stive cariche di altri prodotti come caffè e cotone. È stato calcolato che la Tratta Atlantica portò alla deportazione di più di 12 milioni di persone. La navi francesi partivano soprattutto dai porti di Nantes e di Bordeux per poi arrivare nelle colonie come Haiti, Santo Domingo, la Martinica, la Guyana o le Antille.

La Francia abolì la schiavitù una prima volta nel 1794, poi nel 1802 Napoleone la reintrodusse e l’abolizione definitiva arrivò nel 1848. Il passato coloniale francese, così come negli altri paesi europei, è comunque molto presente e visibile: basti pensare che il palazzo dell’Eliseo a Parigi, residenza ufficiale del presidente della Repubblica, venne costruito nel 1720 grazie ai finanziamenti di Antoine Crozat, proprietario di una delle più importanti società del commercio triangolare. Sulla schiavitù vennero fatte anche grandi fortune, la cui storia in Francia è però meno conosciuta o indagata che altrove (in una rimozione non così diversa da quella che riguarda il brutale colonialismo italiano).

Qualche giorno fa Le Monde ha pubblicato un articolo in cui ha raccontato la storia di alcune società e istituzioni coinvolte più o meno direttamente nella tratta degli schiavi, o la cui prosperità si è basata sulla riscossione delle compensazioni finanziarie pagate ai proprietari di schiavi dopo l’abolizione della schiavitù.

L’articolo cita per esempio Jacob du Pan, colono di Santo Domingo che arrivò in Francia poco dopo che l’isola dichiarò l’indipendenza, nel 1804, e che grazie alle ricchezze fatte con le piantagioni di canna da zucchero partecipò alla fondazione, nel 1816, della Compagnie dʼassurances mutuelles contre lʼincendie de Paris. Questa compagnia, dopo vari passaggi, alla fine degli anni Ottanta entrò a far parte del gruppo Axa, che la riconosce esplicitamente come la propria prima antenata diretta. Le Monde ha poi parlato dello storico Anisette, un liquore prodotto da Marie Brizard e dato in cambio di schiavi. Tra i commercianti che contribuirono a fondare la Banca di Francia, scrive sempre Le Monde, ce n’erano alcuni che si sono arricchiti con la tratta di schiavi, così come fu – fino al 1883 – la Caisse des dépôts (Cassa dei depositi) a gestire il cosiddetto “debito di indipendenza” di Haiti, il risarcimento finanziario che dopo l’indipendenza, appunto, il paese dovette versare ai coloni.

Nei confronti di questo passato, però, scrive Le Monde, c’è molta reticenza. Le società interessate dicono cose ovvie: e cioè che le loro attività attuali non hanno nulla a che fare con quel passato. Temono la pubblicità negativa che porterebbe qualsiasi associazione del loro nome con questa storia. Alcune per lo stesso motivo faticano anche a contribuire alla Fondazione per la memoria della schiavitù. Questo occultamento non può però continuare, scrive Le Monde in un editoriale: «Perché le aziende che ora accettano la loro responsabilità sociale e ambientale non dovrebbero assumersi la loro responsabilità storica? (…) Nessuna delle borse di studio concesse dalla Banque de France o dalla Caisse des Dépôts, la cui storia si interseca tuttavia con quella della schiavitù, è dedicata alla tratta degli schiavi. Legate allo Stato, queste istituzioni dovrebbero dare l’esempio».

Il Conseil Représentatif des Associations Noires (CRAN) ha fatto della questione dei risarcimenti economici la propria battaglia principale, ma il punto centrale, secondo molti, non è tanto quello di ottenere dei risarcimenti tra l’altro difficilmente calcolabili, ma non ignorare che lo schiavismo è stato centrale nella costruzione del capitalismo francese. La riparazione deve dunque passare attraverso la conoscenza e la trasparenza, la promozione della ricerca, di un’educazione antirazzista e la costruzione di una memoria collettiva onesta.

Nel 2018, una serie di associazioni antirazziste chiesero al presidente Emmanuel Macron di rinnovare l’impegno già preso dal suo predecessore François Hollande di creare un memoriale e museo storico della schiavitù a Parigi. Macron, dopo aver riaffermato gli orrori del passato ma esaltando la Francia per la sua doppia abolizione, accettò la proposta di costruire un memoriale ma rifiutò quella di un museo.

da qui

 

L' altro lato del mondo - Mia Couto

come sempre i libri di Mia Couto non deludono.

la storia è misteriosa, un padre con sue ragazzini sta in un posto dimenticato da dio e dal mondo, non c'è altro, dice il padre ai ragazzini.

intanto qualcuno va e viene, alla fine appare una donna portoghese, la prima donna che Mwanito, il bambino che racconta, ha mai conosciuto.

succedono tante cose in quel posto chiamato Jesusalém,e alla fine si torna al mondo, e ai suoi terribili segreti.

cercate anche questo libro di Mia Couto, che non ha ancora ottenuto il premio Nobel per la letteratura, buona lettura.

 

 

…Mia Couto, al secolo António Emílio Leite Couto, nato e cresciuto in Mozambico, è uno tra i maggiori scrittori contemporanei di lingua portoghese e questo libro ne dimostra ancora una volta il talento, dando sfoggio di una scrittura che ci accompagna per mano in una terra lontana e polverosa, arcaica e sconosciuta, parlandoci di una cultura legata a spiriti presenti e passati e a codici d’onore e di promesse, ad energie sottili e a solenni cerimonie di iniziazione. Una lettura che funziona anche solo di per sé, per il gusto di avventurarsi in una sorta di favola familiare dai toni esotici e leggermente cupi, ma che ancora di più impressiona per la potenza della semplicità con cui vengono trattati temi pesanti come la morte e l’elaborazione del lutto, la realtà e la volontà di vivere non solo come si vuole ma, soprattutto, come si può. Perché “se dobbiamo vivere nella finzione, che sia almeno quella creata da noi”. Ed anche se siamo lontani, culturalmente, dal mondo di Mwanito e della sua famiglia, ne comprendiamo logiche e desideri, commossi e turbati. Bellissime anche, tra le altre, le poesie di Sophia De Mello Breyner Andresen poste ad inizio dei capitoli. Un libro dove le donne, anche se non ci sono fisicamente come a Jesusalém, sono determinanti, pure se odiate, maltrattate. O morte.

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Come nell’ascolto di una musica, in questo ultimo suo romanzo, Mia Couto ci trasporta in un’atmosfera fuori dal tempo, senza perdere tuttavia la consapevolezza della storia e delle vicende umane attuali e del passato.  Questa compresenza credo sia dovuta anche all’innesto tra cultura africana e cultura europea che avviene in un autore come lui, bianco di appartenenza africana lusofona. E’ proprio la collocazione fuori dal tempo che permette all’autore di prendere le distanze per vedere meglio, per capire meglio. Qui siamo in una situazione estrema di ricerca di salvezza fuori dal mondo: in una zona inarrivabile dagli uomini…

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Autore poco conosciuto in Italia ma dal grande talento. Questo testo in particolare racchiude tracce oniriche e uno stile diretto quanto profondo. Lascia immagini di grande impatto emotivo nella memoria del lettore, alterna elementi di assurda quanto adorabile fantasia a eventi tragici della vita del protagonista. Consigliato, davvero una scoperta!

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Mia Couto si rivela anche questa volta un prestidigitatore della parola, continuando a smontare e rimontare a modo suo la lingua portoghese. E onore al traduttore, Vincenzo Barca, per come riesce a stargli al passo, per quanto rimanga, inevitabilmente, sempre qualcosa di intraducibile. Come il nome che il padre dà alla sua nazione personale, Jesusalém – che è anche il titolo dell’edizione originale del libro –, un gioco di parole in cui la città santa diventa una sorta di “Gesù-oltre”: per Silvestre, «in quel luogo Gesù si sarebbe scrocifisso». E Dordalma, la mamma che Mwanito non ha mai conosciuto e di cui nessuno osa dire come sia morta, sta per “Dolor-d’anima”.

È ben di più, naturalmente, che un gioco enigmistico: grazie anche alle sue invenzioni, ma non solo a queste, l’autore dà vita a un’atmosfera tutta sua, tra favola e verismo, con l’uso di metafore inattese e di dialoghi che non di rado sono sorprendenti pillole filosofiche.

«Nessun governo del mondo comanda più della paura e della colpa. La paura mi ha fatto vivere insignificante e schivo. La colpa mi ha fatto fuggire da me, disabitato dai ricordi. Era questo Jesusalém». E l’unico rimpianto nostro, a chiusura di libro, è che non sia stato mantenuto il titolo originale (nemmeno nell’edizione brasiliana, peraltro!).

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Gaza. L’operazione “Piombo Fuso” e i bambini

 

(Gaza Community Mental Health Programme)


Tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009 l’operazione “Piombo Fuso” condotta dall’esercito israeliano nella striscia di Gaza ha provocato una devastazione e un massacro impressionanti. Ne sono derivati miseria, disoccupazione, distruzione e isolamento che non hanno risparmiato nessun aspetto dell’esistenza pubblica e privata. La guerra di Israele contro Gaza ha preso di mira tutti e tutto, fattorie e industrie comprese. Più di ventimila case e infrastrutture civili sono state completamente o parzialmente distrutte, cosa che ha lasciato migliaia di bambini senza tetto costringendoli a essere sfollati e a trascorrere lunghi periodi in tende e rifugi provvisori. Più di mille e quattrocento palestinesi sono stati ammazzati e cinquemila sono stati feriti, per la maggior parte civili. Centinaia di genitori con i loro figli sono stati colpiti da colpi di armi da fuoco, fatti saltare in aria o bruciati a morte con il fosforo bianco.

I traumi psicologici subiti da tutte queste persone persistono tuttora e difficilmente si rimargineranno.

Giorno dopo giorno il Gaza Community Mental Health Programme testimonia dell’impatto catastrofico di quella violenza. Gli alunni delle scuole fanno i compiti a lume di candela a causa di costanti interruzioni dell’elettricità. E il prolungarsi dell’occupazione strangola lentamente Gaza. Da più di tre anni la Striscia vive sotto un costante e inesorabile assedio, frutto di un piano deliberato. L’obiettivo è di umiliare, intimidire e isolare un milione e mezzo di persone, nell’intento di spezzarne la volontà.

Per questo, in un piccolo libro dal titolo La vita vale la pena viverla, il Gaza Community Mental Health Programme ha cercato di mostrare i danni e la sofferenza che le forze di occupazione israeliane provocano.

Una domanda si impone: quali vissuti contribuiranno a formare la generazione che sta nascendo? Una popolazione di orfani pieni rabbia deve fronteggiare perdite angoscianti. Queste perdite minacciano costantemente e significativamente ogni aspetto della loro crescita, sviluppo e benessere psicologico. Lo sforzo del Gaza Community Mental Health Programme è volto a rafforzare la resilienza della comunità, e in particolare quella dei bambini. La terapia non è però sufficiente a contrastare il carico e l’intensità delle sofferenze.

Per le ferite di Gaza, la sola efficace e duratura modalità di trattamento sarà il conseguimento della giustizia; questo sarà la cura e la vittoria morale per le vittime. Un mondo senza giustizia è, invece, un luogo pericoloso, un terreno fertile per il senso di impotenza e per la disperazione di chi, afflitto, non ha nulla da perdere.

 

Questo il link per accedere al libro “La vita vale la pena viverla” realizzato dal
Gaza Community Mental Health Programme, tradotto in italiano da Cristina Alziati


da qui