La polizia italiana ha vissuto un’unica riforma dopo
il fascismo: fu approvata in Parlamento nel 1981 e intendeva promuovere una
nuova concezione dell’ordine pubblico. Si pensava a una “polizia dei
cittadini”.
Le immagini girate a Vicenza nei giorni scorsi, con
l’agente che risolve un battibecco con un giovane dalla pelle scura (risultato
poi di origine cubana) stringendolo con forza al collo, non vanno certo in tale
direzione. Gli amici del giovane hanno avuto la prontezza d’intervenire e
liberare il ragazzo dalla presa, girando nel frattempo il filmino subito
diffuso in rete, e così abbiamo avuto l’ennesima dimostrazione che il progetto
di una “polizia dei cittadini” non ha fatto breccia nei nostri corpi di
sicurezza. La condotta dell’agente vicentino ha spaventato i presenti perché
apparsa irragionevole, e anche simile, nella sua dinamica iniziale, ai fermi
con stretta al collo finiti tragicamente negli Stati Uniti e in Francia nei
mesi scorsi. Sono gli episodi all’origine della vasta mobilitazione
internazionale contro gli abusi di polizia.
Non si tratta di stabilire parallelismi che sarebbero
forzati e sproporzionati, ma di ragionare sulla “normalità” della polizia
italiana. Spiace dirlo, ma l’episodio di Vicenza sembra essere vissuto dai
nostri apparati con noncuranza, come se nelle caserme e nelle questure si
faticasse a cogliere il senso delle proteste, delle denunce, delle
preoccupazioni. Il dubbio sul peso che potrebbe avere avuto il pregiudizio
razzista è respinto in modo meccanico (secondo la consueta affermazione che «la
polizia italiana non è razzista»), le contestazioni sulla “tecnica” scelta
dall’agente ‒ in questo come in molti altri casi ‒ sono semplicemente ignorate,
suggerendo implicitamente che niente di strano o di irregolare è avvenuto.
Appunto. C’è una normalità che non corrisponde allo spirito
della riforma dell’81, la quale vorrebbe agenti in grado di dialogare con i
cittadini, capaci di abbassare eventuali stati di tensione e sempre memori
d’essere anche loro cittadini, quindi chiamati all’uso della forza solo in
ultima istanza e con la massima moderazione, senza tracce di protervia. Il
questore di Vicenza, Antonino Messineo, commentando il fatto, ha chiesto di
prestare attenzione a tutta la scena e non solo al frammento “incriminato”,
spiegando che gli agenti erano stati provocati. «Alla fine ‒ ha detto ‒ per
risolvere una rissa i poliziotti hanno fatto il loro lavoro mentre gli
“spettatori” hanno provocato, con il risultato che l’unico a finire in ospedale
è stato un agente». La rissa, è bene chiarirlo, non coinvolgeva il giovane
afferrato al collo e nemmeno i suoi amici, ma non è questo il punto. Il
questore non fa cenno al gesto dell’agente ‒ se non dire che la presa «non dura
più di qualche secondo perché poi entrambi cadono a terra» ‒ e non sembra
cogliere il messaggio che tale condotta trasmette, specie in una fase storica
come l’attuale, con la campagna Black Lives Matter ancora
attiva e una richiesta pressante agli operatori di polizia di mostrare più
rispetto, più trasparenza, più attenzione, meno violenza.
Le forze dell’ordine italiane, dal G8 di Genova in
poi, hanno accumulato una lunga serie di errori, se vogliamo chiamare così gli
abusi, le violenze, le torture, i casi di cittadini morti per strada o nelle
caserme in stato di fermo. In tali circostanze si è manifestata un’inquietante
attitudine a mentire, sia nei verbali sia di fronte ai magistrati, e si è
sempre evitato di riconoscere i propri errori e di agire seriamente per porvi
rimedio. Niente è avvenuto per caso. La riforma dell’81, questo è il succo, non
è riuscita a disarticolare i sistemi di potere interni, coagulati attorno ai
pilastri storici ‒ pre democratici ‒ degli apparati di sicurezza: lo spirito di
corpo, la cultura gerarchica e militarista, la chiusura rispetto alla società
civile. Siamo lontani dalla “polizia dei cittadini” immaginata da pochi
illuminati poliziotti negli anni Settanta e ne stiamo pagando le conseguenze.
La riforma è stata frenata, boicottata, infine svuotata dall’interno. Ancora
oggi, per dire, non disponiamo di strumenti davvero utili a fare chiarezza su
quanto avvenuto a Vicenza. Non esiste un’autorità indipendente alla quale
rivolgersi per denunciare eventuali abusi, né esiste una figura di “difensore
civico” in grado di istruire il caso, chiedere conto dei comportamenti e magari
discuterne in pubblico, in modo che i dubbi, le contestazioni, le spiegazioni
siano condivisi in modo civile e democratico.
Abbiamo alle spalle un ventennio nero per la polizia
italiana, pesantemente sanzionata dalla Corte europea per i diritti umani per
gli abusi, le torture e i falsi al G8 di Genova, eppure sappiamo poco,
pochissimo, di quanto avviene dentro i corpi di sicurezza; non conosciamo, se
non per sommi capi, quali siano i criteri di reclutamento e formazione degli
agenti; manca un dibattito sul tema della tutela delle diversità e delle
minoranze all’interno degli apparati e nei comportamenti degli agenti in
servizio; persiste il rifiuto di introdurre i codici di riconoscimento sulle
divise. Sappiamo solo che la “polizia dei cittadini” non è al momento una
realtà e nemmeno un obiettivo.
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