Juan Carlos fugge dalla Spagna, una fine ingloriosa per il simbolo della transizione alla democrazia. Vengono a galla fratture storiche della società spagnola e, anche se Sanchéz non vuole contrapporsi alla monarchia, l'esisto non è scontato
Juan Carlos
di Borbone scappa dalla Spagna. Lunedì scorso, con una lettera al figlio Felipe
VI, l’ex re ha annunciato quella che somiglia più a una fuga che a un esilio.
Braccato dagli scandali di corruzione e dalla pressione politica che aveva già
costretto il figlio a rinunciare alla sua eredità e a tagliargli i fondi, e che
spingeva ora verso una sua umiliante cacciata dal palazzo reale, Juan Carlos se
ne va, nel tentativo disperato di salvare la monarchia spagnola liberandola
dalla sua screditata figura. Una fine ingloriosa e fino a qualche anno fa
impensabile per quello che era stato il simbolo della transizione alla
democrazia. A travolgere l’ex re, del resto, sono proprio le macerie del
consenso su cui la stessa transizione si era basata. Dal 2011 in poi, sono
riemerse divisioni e fratture storiche, e l’anomalia del re che riusciva a
essere allo stesso tempo erede di Franco e padre della democrazia è venuta a
galla. Per una parte importante degli spagnoli, oggi, Juan Carlos non è che uno
dei tanti esponenti di un’élite arraffona e impunita.
La fuga dell’ex re Borbone
La fuga del
re è l’esito di una serie ormai infinita di scandali di corruzione che hanno
colpito Juan Carlos e la sua famiglia nell’ultimo decennio. Dal costosissimo
safari in Botswana del 2012 alle rivelazioni di Corinna Larsen, amante di Juan
Carlos, sulle tangenti per la costruzione di una ferrovia ad alta velocità in
Arabia Saudita, fino ai conti in Svizzera, ai prestanome, alle società
fittizie. Nel 2014 abdicò a favore del figlio Felipe, nel 2019 annunciò il suo
ritiro dalla vita pubblica, ma la pressione non accennò a diminuire: nel marzo
scorso Felipe VI rinunciò all’eredità paterna e privò il padre del sontuoso
appannaggio che gli spettava. Nelle scorse settimane, l’accumularsi di nuove
rivelazioni sul conto dell’ex re aveva portato alla richiesta di fargli
abbondare la Zarzuela, la residenza della famiglia reale. Fino alla scelta di
fuggire verso il Portogallo, secondo alcuni per rifugiarsi all’Estoril (dove
già aveva vissuto in esilio insieme al padre Juan, a due passi da un altro
monarca in esilio, il nostro Umberto II), secondo altri per volare nella
Repubblica Dominicana.
Benché a
parole Juan Carlos se ne sia andato per far calare la tensione, l’effetto è
stato diametralmente opposto: la destra del Partito Popolare, da sempre
monarchica e post-franchista si è schierata a difesa del sovrano, mentre l’estrema destra di Vox ha colto l’occasione per accusare il
vicepresidente del governo Pablo Iglesias e il suo partito Podemos di aver di
fatto costretto il re alla fuga. Una colpa per la destra monarchica, un merito
per la sinistra repubblicana (che in realtà non sembra aver avuto grandi
responsabilità, nel bene o nel male), un grande imbarazzo per il Partito
Socialista. Com’è emerso già nelle prime ore, infatti, la fuga di Juan Carlos
non è stata concordata solo con il re Felipe, ma anche con il presidente del
governo, il socialista Pedro Sánchez e con altri membri dell’esecutivo: guarda
caso, tutti tranne quelli di Unidas Podemos, considerati non affidabili da
parte della famiglia reale. Il risultato ora è una spaccatura fortissima
all’interno del governo, con la sinistra di Unidas Podemos che accusa l’ex re
di essersi sottratto alla giustizia e ai doveri di trasparenza di un ex capo
dello stato e coglie l’occasione per rilanciare l’idea di «una repubblica
solidale e plurinazionale» chiedendo che «il popolo decida». Un referendum tra
monarchia e repubblica, sull’onda dell’indignazione, è esattamente ciò che
Sánchez vuole evitare, distinguendo pubblicamente tra «istituzioni e persone»,
cioè tra la corruzione di un re e la stabilità della monarchia e ribadendo
l’impegno dei socialisti in difesa della monarchia parlamentare.
Eppure la
dinastia borbonica non è mai stata così a rischio negli ultimi quarant’anni:
per la prima volta dalla fine del franchismo è al governo una forza, Unidas
Podemos, esplicitamente repubblicana, e sentimenti repubblicani sono ormai
egemoni in vaste aree del paese, prima fra tutte la Catalogna. C’è un motivo se
dal 2015 il Cis, il centro di ricerca sociale statale, nei suoi sondaggi non
chiede più di esprimere una preferenza netta tra monarchia e repubblica: ha
paura della risposta.
Re, franchista e democratico
«Non sono
monarchico, sono juancarlista». In questo modo di dire, molto diffuso in Spagna
negli anni Ottanta, sono racchiuse la forza storica e la debolezza attuale
della monarchia spagnola. Il consenso pubblico intorno al regime parlamentare
uscito dalla transizione non si è mai costruito su una vera accettazione
diffusa dell’istituzione monarchica, ma sulla figura di Juan Carlos, garante
della stabilità democratica. «Vorrei la repubblica, e poter votare Juan Carlos
come presidente», si sentiva dire a sinistra ancora negli anni 2000. Può
reggere la monarchia spagnola alla totale perdita di credibilità di una figura
così fondamentale?
Juan Carlos
è il terzo Borbone consecutivo a scappare in esilio. Suo nonno Alfonso XIII e
suo padre Juan fuggirono nel 1931, alla proclamazione della Seconda Repubblica,
per poi sostenere apertamente la parte franchista durante la guerra civile.
Juan Carlos nacque nel 1938 a Roma, ospite del regime fascista, e fu nominato
erede al titolo di capo dello stato non da una legge dinastica, ma da un atto del
dittatore Francisco Franco, che lo proclamò proprio successore nel 1969, quando
il legittimo erede, il padre Juan, era ancora in vita. Un salto dinastico
dovuto ai cattivi rapporti tra il conte di Barcellona e Franco, che considerava
il giovane erede più malleabile. La rilevanza storica della figura di Juan
Carlos sta tutta negli anni chiave tra il 1975, con la morte del dittatore, e
il 1978, con l’approvazione della Costituzione. Il giovane re riuscì a giurare
sui principi del franchismo e a guidare la transizione alla democrazia, con un
atto di equilibrismo politico a dir poco notevole.
In una
Spagna divisa tra franchismo e democrazia, e traumatizzata dalla tragedia dello
scontro armato tra queste due parti, di fatto, la monarchia parlamentare
rappresentò un compromesso accettabile per molti se non per tutti. Soprattutto,
rappresentò un compromesso estremamente proficuo per le élite nazionali e
internazionali: il mondo economico spagnolo e il governo americano, dopo aver
sostenuto il franchismo per decenni, erano ben consapevoli della necessità di
una normalizzazione democratica che facilitasse l’integrazione a pieno titolo
della Spagna nell’Occidente avanzato, ma temevano una repubblica dominata dalle
sinistre, allora a pieno titolo anti-Nato, compresi i socialisti. Juan Carlos
rappresentò l’uovo di Colombo, il punto d’equilibrio, il garante della
continuità nella Spagna che doveva cambiare. La determinazione nel perseguire
questo obiettivo di normalizzazione democratica gli conquistò se non l’apprezzamento
sicuramente il rispetto di molti, comunisti compresi, che arrivarono, da
principali eredi della repubblica abbattuta da Franco, a votare a favore della
nuova costituzione monarchica.
Una
credibilità rafforzata dalla vicenda del cosiddetto «23-F», quando, il 23
febbraio 1981, un gruppo di militari guidato dal colonnello Tejero occupò il
parlamento e il paese rimase per ore sull’orlo di un nuovo golpe, finché un
intervento televisivo del re, ribadendo l’irreversibilità del percorso
democratico, mise fine al tentativo. In questo episodio, d’altra parte, sta
tutta l’ambiguità della figura di Juan Carlos: se consideriamo sorprendente al
limite dell’eroismo il fatto che un re si sottragga alla tentazione della
complicità con un golpe militare, cosa stiamo dicendo della natura stessa della
monarchia e del suo rapporto con la democrazia?
E del resto,
la necessità della monarchia per tenere insieme un paese altrimenti
strutturalmente destinato alla frattura territoriale e politica non è che
un’evoluzione, sicuramente in senso democratico, dell’assioma franchista sulla
necessità della dittatura come garanzia della pace e dell’unità. Ma se senza
Juan Carlos non c’è monarchia, senza monarchia può esserci Spagna?
«Los Borbones son unos ladrones»
Se nel 2017
cantare che «i Borboni sono ladri» costò una condanna a tre anni e mezzo di
carcere al rapper Valtònyc, oggi la storia rischia di dargli ragione. E non è
un caso che siano proprio gli scandali di corruzione a portare alla monarchia
il colpo che i repubblicani non sono mai stati in grado di darle. Il legame
strettissimo tra politica e affari è stato uno dei nodi strutturali del
cosiddetto «regime del ‘78», come gli Indignados nelle piazze del 2011
chiamavano il sistema politico emerso dalla transizione. Juan Carlos cade come
sono caduti, almeno elettoralmente, i principali pilastri di quel regime, i due
partiti principali, popolare e socialista. E cade sulle stesse accuse che hanno
travolto prima di tutto i popolari, ma di fatto l’intero sistema politico: una
corruzione sistematica e radicata, una commistione tra politica e affari senza
soluzione di continuità, un sistema di tangenti e «porte girevoli» in cui
l’élite si muove agevolmente. Il ruolo del tema della corruzione, e della
natura castale dell’élite politica e finanziaria del paese, è stato centrale
sia nelle piazze del 2011, sia nel discorso politico di Podemos, sia nella
crescita dell’indipendentismo in Catalogna. Juan Carlos abdicò nel giugno 2014,
pochi giorni dopo l’exploit di Podemos alle elezioni europee: nessun rapporto
di causa-effetto ovviamente, solo l’estrema destra sopravvaluta così tanto il
ruolo della sinistra repubblicana, ma sicuramente il segno di un cambio di
fase, della crisi organica del sistema politico nato dalla transizione alla
democrazia.
Juan Carlos
è stato il garante della normalizzazione spagnola, di una transizione alla
democrazia che non toccasse integrità territoriale, schieramento internazionale
e poteri economici. Oggi non c’è elemento di questa normalizzazione che non sia
in crisi, e l’ex re si trova a pagare il prezzo di un’impunità troppo a lungo
goduta. Con lui se ne va uno degli ultimi pilastri di quell’equilibrio, aprendo
scenari di grande incertezza sul futuro. Il decennio post-15M, infatti, se ha
visto l’emersione di Podemos, il primo governo di coalizione dai tempi della
Seconda Repubblica e innovazioni sociali estremamente significative (pensiamo a
cosa significhi oggi il femminismo in Spagna), ha anche visto riemergere una
destra radicale apertamente razzista, nazionalista e antidemocratica, con il
successo di Vox. Una volta saltato il consenso centrista, il «liberi tutti»
vale davvero per tutti. Il fantasma del conflitto inevitabile tra le «due
Spagne», che ha sorretto prima il franchismo e poi la transizione, è una
costruzione ideologica reazionaria. Ma il carattere di fondo delle grandi
trasformazioni che attendono la Spagna non è affatto dato. Di sicuro,
avverranno senza la benevola benedizione di Juan Carlos. E chissà se suo figlio
Felipe riuscirà a rompere l’ormai secolare tradizione della fuga in esilio o
passerà, invece, alla storia come l’ultimo dei Borboni.
*Lorenzo
Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e
partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il
Mulino).
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