lunedì 31 agosto 2020

Il re è nudo - Lorenzo Zamponi

 Juan Carlos fugge dalla Spagna, una fine ingloriosa per il simbolo della transizione alla democrazia. Vengono a galla fratture storiche della società spagnola e, anche se Sanchéz non vuole contrapporsi alla monarchia, l'esisto non è scontato

Juan Carlos di Borbone scappa dalla Spagna. Lunedì scorso, con una lettera al figlio Felipe VI, l’ex re ha annunciato quella che somiglia più a una fuga che a un esilio. Braccato dagli scandali di corruzione e dalla pressione politica che aveva già costretto il figlio a rinunciare alla sua eredità e a tagliargli i fondi, e che spingeva ora verso una sua umiliante cacciata dal palazzo reale, Juan Carlos se ne va, nel tentativo disperato di salvare la monarchia spagnola liberandola dalla sua screditata figura. Una fine ingloriosa e fino a qualche anno fa impensabile per quello che era stato il simbolo della transizione alla democrazia. A travolgere l’ex re, del resto, sono proprio le macerie del consenso su cui la stessa transizione si era basata. Dal 2011 in poi, sono riemerse divisioni e fratture storiche, e l’anomalia del re che riusciva a essere allo stesso tempo erede di Franco e padre della democrazia è venuta a galla. Per una parte importante degli spagnoli, oggi, Juan Carlos non è che uno dei tanti esponenti di un’élite arraffona e impunita.

La fuga dell’ex re Borbone

La fuga del re è l’esito di una serie ormai infinita di scandali di corruzione che hanno colpito Juan Carlos e la sua famiglia nell’ultimo decennio. Dal costosissimo safari in Botswana del 2012 alle rivelazioni di Corinna Larsen, amante di Juan Carlos, sulle tangenti per la costruzione di una ferrovia ad alta velocità in Arabia Saudita, fino ai conti in Svizzera, ai prestanome, alle società fittizie. Nel 2014 abdicò a favore del figlio Felipe, nel 2019 annunciò il suo ritiro dalla vita pubblica, ma la pressione non accennò a diminuire: nel marzo scorso Felipe VI rinunciò all’eredità paterna e privò il padre del sontuoso appannaggio che gli spettava. Nelle scorse settimane, l’accumularsi di nuove rivelazioni sul conto dell’ex re aveva portato alla richiesta di fargli abbondare la Zarzuela, la residenza della famiglia reale. Fino alla scelta di fuggire verso il Portogallo, secondo alcuni per rifugiarsi all’Estoril (dove già aveva vissuto in esilio insieme al padre Juan, a due passi da un altro monarca in esilio, il nostro Umberto II), secondo altri per volare nella Repubblica Dominicana.

Benché a parole Juan Carlos se ne sia andato per far calare la tensione, l’effetto è stato diametralmente opposto: la destra del Partito Popolare, da sempre monarchica e post-franchista si è schierata a difesa del sovrano, mentre l’estrema destra di Vox ha colto l’occasione per accusare il vicepresidente del governo Pablo Iglesias e il suo partito Podemos di aver di fatto costretto il re alla fuga. Una colpa per la destra monarchica, un merito per la sinistra repubblicana (che in realtà non sembra aver avuto grandi responsabilità, nel bene o nel male), un grande imbarazzo per il Partito Socialista. Com’è emerso già nelle prime ore, infatti, la fuga di Juan Carlos non è stata concordata solo con il re Felipe, ma anche con il presidente del governo, il socialista Pedro Sánchez e con altri membri dell’esecutivo: guarda caso, tutti tranne quelli di Unidas Podemos, considerati non affidabili da parte della famiglia reale. Il risultato ora è una spaccatura fortissima all’interno del governo, con la sinistra di Unidas Podemos che accusa l’ex re di essersi sottratto alla giustizia e ai doveri di trasparenza di un ex capo dello stato e coglie l’occasione per rilanciare l’idea di «una repubblica solidale e plurinazionale» chiedendo che «il popolo decida». Un referendum tra monarchia e repubblica, sull’onda dell’indignazione, è esattamente ciò che Sánchez vuole evitare, distinguendo pubblicamente tra «istituzioni e persone», cioè tra la corruzione di un re e la stabilità della monarchia e ribadendo l’impegno dei socialisti in difesa della monarchia parlamentare.

Eppure la dinastia borbonica non è mai stata così a rischio negli ultimi quarant’anni: per la prima volta dalla fine del franchismo è al governo una forza, Unidas Podemos, esplicitamente repubblicana, e sentimenti repubblicani sono ormai egemoni in vaste aree del paese, prima fra tutte la Catalogna. C’è un motivo se dal 2015 il Cis, il centro di ricerca sociale statale, nei suoi sondaggi non chiede più di esprimere una preferenza netta tra monarchia e repubblica: ha paura della risposta.

Re, franchista e democratico

«Non sono monarchico, sono juancarlista». In questo modo di dire, molto diffuso in Spagna negli anni Ottanta, sono racchiuse la forza storica e la debolezza attuale della monarchia spagnola. Il consenso pubblico intorno al regime parlamentare uscito dalla transizione non si è mai costruito su una vera accettazione diffusa dell’istituzione monarchica, ma sulla figura di Juan Carlos, garante della stabilità democratica. «Vorrei la repubblica, e poter votare Juan Carlos come presidente», si sentiva dire a sinistra ancora negli anni 2000. Può reggere la monarchia spagnola alla totale perdita di credibilità di una figura così fondamentale?

Juan Carlos è il terzo Borbone consecutivo a scappare in esilio. Suo nonno Alfonso XIII e suo padre Juan fuggirono nel 1931, alla proclamazione della Seconda Repubblica, per poi sostenere apertamente la parte franchista durante la guerra civile. Juan Carlos nacque nel 1938 a Roma, ospite del regime fascista, e fu nominato erede al titolo di capo dello stato non da una legge dinastica, ma da un atto del dittatore Francisco Franco, che lo proclamò proprio successore nel 1969, quando il legittimo erede, il padre Juan, era ancora in vita. Un salto dinastico dovuto ai cattivi rapporti tra il conte di Barcellona e Franco, che considerava il giovane erede più malleabile. La rilevanza storica della figura di Juan Carlos sta tutta negli anni chiave tra il 1975, con la morte del dittatore, e il 1978, con l’approvazione della Costituzione. Il giovane re riuscì a giurare sui principi del franchismo e a guidare la transizione alla democrazia, con un atto di equilibrismo politico a dir poco notevole.

In una Spagna divisa tra franchismo e democrazia, e traumatizzata dalla tragedia dello scontro armato tra queste due parti, di fatto, la monarchia parlamentare rappresentò un compromesso accettabile per molti se non per tutti. Soprattutto, rappresentò un compromesso estremamente proficuo per le élite nazionali e internazionali: il mondo economico spagnolo e il governo americano, dopo aver sostenuto il franchismo per decenni, erano ben consapevoli della necessità di una normalizzazione democratica che facilitasse l’integrazione a pieno titolo della Spagna nell’Occidente avanzato, ma temevano una repubblica dominata dalle sinistre, allora a pieno titolo anti-Nato, compresi i socialisti. Juan Carlos rappresentò l’uovo di Colombo, il punto d’equilibrio, il garante della continuità nella Spagna che doveva cambiare. La determinazione nel perseguire questo obiettivo di normalizzazione democratica gli conquistò se non l’apprezzamento sicuramente il rispetto di molti, comunisti compresi, che arrivarono, da principali eredi della repubblica abbattuta da Franco, a votare a favore della nuova costituzione monarchica.

Una credibilità rafforzata dalla vicenda del cosiddetto «23-F», quando, il 23 febbraio 1981, un gruppo di militari guidato dal colonnello Tejero occupò il parlamento e il paese rimase per ore sull’orlo di un nuovo golpe, finché un intervento televisivo del re, ribadendo l’irreversibilità del percorso democratico, mise fine al tentativo. In questo episodio, d’altra parte, sta tutta l’ambiguità della figura di Juan Carlos: se consideriamo sorprendente al limite dell’eroismo il fatto che un re si sottragga alla tentazione della complicità con un golpe militare, cosa stiamo dicendo della natura stessa della monarchia e del suo rapporto con la democrazia?

E del resto, la necessità della monarchia per tenere insieme un paese altrimenti strutturalmente destinato alla frattura territoriale e politica non è che un’evoluzione, sicuramente in senso democratico, dell’assioma franchista sulla necessità della dittatura come garanzia della pace e dell’unità. Ma se senza Juan Carlos non c’è monarchia, senza monarchia può esserci Spagna?

«Los Borbones son unos ladrones»

Se nel 2017 cantare che «i Borboni sono ladri» costò una condanna a tre anni e mezzo di carcere al rapper Valtònyc, oggi la storia rischia di dargli ragione. E non è un caso che siano proprio gli scandali di corruzione a portare alla monarchia il colpo che i repubblicani non sono mai stati in grado di darle. Il legame strettissimo tra politica e affari è stato uno dei nodi strutturali del cosiddetto «regime del ‘78», come gli Indignados nelle piazze del 2011 chiamavano il sistema politico emerso dalla transizione. Juan Carlos cade come sono caduti, almeno elettoralmente, i principali pilastri di quel regime, i due partiti principali, popolare e socialista. E cade sulle stesse accuse che hanno travolto prima di tutto i popolari, ma di fatto l’intero sistema politico: una corruzione sistematica e radicata, una commistione tra politica e affari senza soluzione di continuità, un sistema di tangenti e «porte girevoli» in cui l’élite si muove agevolmente. Il ruolo del tema della corruzione, e della natura castale dell’élite politica e finanziaria del paese, è stato centrale sia nelle piazze del 2011, sia nel discorso politico di Podemos, sia nella crescita dell’indipendentismo in Catalogna. Juan Carlos abdicò nel giugno 2014, pochi giorni dopo l’exploit di Podemos alle elezioni europee: nessun rapporto di causa-effetto ovviamente, solo l’estrema destra sopravvaluta così tanto il ruolo della sinistra repubblicana, ma sicuramente il segno di un cambio di fase, della crisi organica del sistema politico nato dalla transizione alla democrazia.

Juan Carlos è stato il garante della normalizzazione spagnola, di una transizione alla democrazia che non toccasse integrità territoriale, schieramento internazionale e poteri economici. Oggi non c’è elemento di questa normalizzazione che non sia in crisi, e l’ex re si trova a pagare il prezzo di un’impunità troppo a lungo goduta. Con lui se ne va uno degli ultimi pilastri di quell’equilibrio, aprendo scenari di grande incertezza sul futuro. Il decennio post-15M, infatti, se ha visto l’emersione di Podemos, il primo governo di coalizione dai tempi della Seconda Repubblica e innovazioni sociali estremamente significative (pensiamo a cosa significhi oggi il femminismo in Spagna), ha anche visto riemergere una destra radicale apertamente razzista, nazionalista e antidemocratica, con il successo di Vox. Una volta saltato il consenso centrista, il «liberi tutti» vale davvero per tutti. Il fantasma del conflitto inevitabile tra le «due Spagne», che ha sorretto prima il franchismo e poi la transizione, è una costruzione ideologica reazionaria. Ma il carattere di fondo delle grandi trasformazioni che attendono la Spagna non è affatto dato. Di sicuro, avverranno senza la benevola benedizione di Juan Carlos. E chissà se suo figlio Felipe riuscirà a rompere l’ormai secolare tradizione della fuga in esilio o passerà, invece, alla storia come l’ultimo dei Borboni.

 

*Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino).

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