Qualcuno dovrà pure, prima o poi,
analizzare le infinite fake news e le sistematiche manipolazioni operate da
Montanelli. Come quando esaltò la mafia. Sempre, ovviamente, in nome
dell’anticomunismo
La mafia di Don Calò? Una benemerita associazione di «privati»
specializzati nel comporre i contenziosi, di qualsiasi tipo, laddove lo stato
latita; Calogero Vizzini, tra questi «privati», era l’unico a meritare il
titolo di Don per la sua statura di capo dei capi.
La catastrofe del Vajont con i suoi duemila morti? Una sciagura dovuta a
cause naturali e che soltanto i soliti «sciacalli» comunisti potevano
addebitare alle irresponsabili scelte della Sade.
Theodor Saevecke, il nazista «boia di Milano», condannato all’ergastolo per
i suoi crimini? Niente di più assurdo giacché egli si era sempre comportato da
perfetto ufficiale-gentiluomo.
Il capo dell’Ovra Arturo Bocchini? Ecco un esempio di come la bonarietà
napoletana aveva mitigato e resa quasi sopportabile la repressione della
polizia politica durante il regime fascista.
Camilla Cederna, una coraggiosa e acuta giornalista che fu tra i primi a
denunciare la «strage di stato» del 1969 e a scagionare gli anarchici
innocenti? Niente affatto, fu piuttosto una attempata signorina, ottenebrata
dal virile afrore dei suoi amici bombaroli.
Le armi chimiche usate in Etiopia dall’Italia di Mussolini? Ma quando mai!
Non importa se lo provano i documenti custoditi negli archivi di stato perché,
si sa, è meglio non fidarsi delle «carte» antipatriottiche.
Così parlò (e scrisse) Indro Montanelli, il «principe del giornalismo
italiano». Queste «notizie» proposte e riproposte nell’arco di decenni, formano
soltanto un piccolo campione delle aberrazioni ispirate alla teoria
montanelliana sulla preferenza da accordare al verosimile rispetto
al vero, essendo quest’ultimo noioso e inadatto a supportare
pregiudiziali ideologiche. Qualcuno dovrà pure, prima o poi, incaricarsi di
analizzare le infinite fake-news e le sistematiche
manipolazioni dell’«eroe della libertà di stampa», così, tanto per sollecitare
la statua della discordia a scendere dal piedistallo del conformismo e della
smemoratezza.
Per ora ci limitiamo all’esame di uno solo dei cinquantamila articoli
scritti in settant’anni di carriera, uno soltanto, ma talmente denso di
menzogne da risultare esemplare. Si tratta dell’articolo intitolato «Don Calò»
pubblicato dal Corriere della sera del 30 ottobre 1949 e
riproposto varie volte nei volumi che raccolsero gli «Incontri» del vate di Fucecchio.
Questi, degli «Incontri», sono i pezzi più pregiati, i gioielli più luccicanti
di quel tipo di giornalismo che i soliti e acidi radical-chic, tipo Elena Croce
e Raimondo Craveri, definirono
scanzonato e mondano, ma sostanzialmente incolto e solo ricco di sfarfallio
qualunquistico, pettegolo e querulo, il quale può vantare un’unica ‘abilità’,
invero assai ricercata e remunerata, quella di riportare sotto il segno comune
della facilità e della sensazione, ogni realtà politica e economica o sociale,
che non si presti a essere compresa […] con gli schemi usuali della mentalità
proprietaristica borghese.
Così, sentenziò, nel febbraio 1954, la rivista Lo Spettatore
Italiano, diretta da quell’importante storico e da quella finissima
intellettuale che era la figlia di Benedetto Croce, entrambi indifferenti al
rischio di essere marchiati come «utili idioti» al servizio dei comunisti.
Negli «Incontri» più che in altri articoli, Montanelli era solito mescolare i
materiali più diversi: frammenti di dialoghi, sconfinamenti nella narrativa,
ricostruzioni fantasiose di avvenimenti reali, nostalgie e sospiri per il tempo
(fascista) che fu, giochi di parole e battute da bar dello sport, luoghi comuni
«rivisitati» con una scrittura spesso brillante, scambi di ruoli tra il
giornalista e il personaggio incontrato. Con risultati che vorrebbero essere
divertenti anche quando veicolano false informazioni e interessate
manipolazioni su argomenti drammatici quali mafia e stragi, dittatura fascista,
crimini di guerra, catastrofi provocate dalla corsa ai profitti, manifestazioni
di razzismo, disprezzo pregiudiziale per le donne.
Nell’autunno del 1949 Montanelli scese in Sicilia per un’inchiesta
sull’incandescente situazione determinata prima dalla guerriglia
indipendentista e dalla recrudescenza del banditismo, e poi dalla lotta armata
che la mafia aveva scatenato contro il movimento contadino.
Nelle sole campagne di Corleone negli anni che vanno dal 1944 al 1948, ci
furono 153 omicidi, la maggioranza dei quali colpì militanti e dirigenti dei
sindacati e dei partiti di sinistra nonché i protagonisti delle occupazioni di
terre incolte. Gli assassinii di solito erano ben mirati e avevano lo scopo di
terrorizzare i contadini stroncandone il movimento.
L’uccisione (marzo 1948) di Placido Rizzotto, segretario della Camera del
lavoro di Corleone, ebbe pesanti conseguenze sulle lotte delle campagne e segnò
il trionfo di Luciano Liggio, astro emergente della mafia. Montanelli sapeva
molto bene che cosa stesse combinando l’«onorata società», in pieno accordo con
i latifondisti; quasi tutti i boss erano anche «gabellotti» e cioè gestori dei
feudi (così venivano ancora chiamate le immense proprietà fondiarie degli
aristocratici).
La strage di Portella della Ginestra perpetrata il Primo Maggio del 1947,
aveva rivelato fino a che punto si era disposti ad arrivare pur di bloccare i
«disordini», temine allora usato per confondere in unico calderone il
banditismo e le lotte dei contadini.
L’inviato del Corriere della sera era perfettamente a
conoscenza, almeno nelle grandi linee, di questa situazione, così come non
ignorava che Calogero Vizzini stava per essere processato, sia pure con cinque
anni di ritardo e sia pure a piede libero, per la tentata strage di Villalba.
Per questo motivo si impegnò con tutte le sue forze per incontrare Don Calò che
invece alle luci della ribalta preferiva la mimetizzazione nel ruolo di uno
sprovveduto provinciale perché nel silenzio mediatico vedeva crescere il suo
carisma. Montanelli non avrebbe fatto mistero delle difficoltà incontrate per
arrivare all’agognato incontro:
Per dieci giorni, invano avevo bussato a tutte le porte che potevano
aprirmi una possibilità di presentazione all’unico nome di tutta la Sicilia di
cui, per designarlo, basta pronunziare la metà del patronimico: Calò […] con
una telefonata potevo raggiungere, quando volevo, il cardinale arcivescovo, il
prefetto, il generale comandante il corpo d’armata, il presidente della
regione, il sindaco, qualunque deputato. Don Calò restava lontano e inaccessibile
come un samurai o un maresciallo tedesco nell’esercizio delle sue funzioni.
Egli non ha mai ricevuto un giornalista in vita sua, non ha mai concesso
un’intervista né rilasciato una dichiarazione.
Per quale vie si arrivò al grande scoop? Non certo per un tardivo
cedimento di Vizzini alle vanità del palcoscenico e tantomeno per una
specialissima simpatia nei confronti di Montanelli. A farlo decidere fu, in
primo luogo, il consiglio di don Lucio Tasca, un latifondista che era stato ai
vertici del movimento separatista e che, da quella posizione, aveva favorito la
collaborazione, anzi l’inserimento, della mafia e di Don Calò in particolare.
Tasca, a sua volta incensato da Montanelli come un esemplare imprenditore,
assicurò a Vizzini che essere gratificato da un articolo benevolo sul
principale giornale italiano, lo avrebbe messo sotto una luce positiva davanti
agli occhi dei magistrati che, di lì a poco, lo avrebbero processato. A
togliere ogni residuo dubbio fu però l’articolo che il 22 ottobre era apparso
sul giornalone milanese e nel quale Montanelli chiedeva allo stato di cambiare
strategia nella lotta al brigantaggio. Era giunto il momento, secondo
Montanelli, di affidarsi alla mafia. A «togliere di mezzo» (parole
testuali) Salvatore Giuliano e gli altri banditi «cattivi», risparmiando perciò
i «buoni», quelli tenuti sotto controllo dai boss mafiosi, «avrebbe
provveduto la stessa mafia» dal momento che essa «tiene molto a certe
cose. Per questo si chiama onorata società; per questo i suoi membri si
chiamano galantuomini di rispetto e al servizio della collettività». La
mafia, sempre secondo il giornalista è capace di porsi come «mediatrice e
disciplinatrice del brigantaggio».
Nel momento in cui Montanelli preconizzava il cambio di strategia i
carabinieri del Cfrb (Corpo forze repressione banditismo) si erano già portati
molto avanti nella sua pratica attuazione con molteplici arresti, resi
possibili dalla mafia. Il 13 ottobre, per esempio, avevano catturato nove dei
responsabili della strage di Bellolampo in cui erano morti sette militi. Lo
stesso giornalista ammetterà, in un altro articolo, di aver già avuto un
colloquio con l’allora capitano Antonio Perenze, braccio destro del colonnello
Ugo Luca, comandante del Cfrb nonché ex ufficiale del servizio segreto militare,
spregiudicato nel collaborare con la mafia. Non è difficile immaginare che cosa
pretese e ottenne, in cambio, la benemerita associazione di «privati».
L’incontro tanto sospirato si concretizzò nell’ultima decade di ottobre, a
Palermo, nell’Albergo del Sole, quando il boss pose fine agli indugi. La sua
apparizione fu accolta con la più profonda deferenza dal personale alberghiero,
come Montanelli avrebbe fatto notare nel suo articolo non nascondendo il suo
compiacimento. In realtà da tutto il pezzo tracima un atteggiamento rispettoso
e cauto, consueto nei giornalisti inclini alla genuflessione ma non in chi era
solito ostentare pose da enfant terrible, da ragazzaccio
anticonformista e «anarcoborghese». Qualche anno dopo Montanelli, tornando a
scrivere su Don Calò, avrebbe dismesso ogni cautela definendolo
uomo rispettato e sotto certi punti di vista rispettabile, che nella
mafia [è] stato ciò che Ford fu nell’industria automobilistica e
Rockfeller in quella del petrolio (cfr. Corriere della sera del
17-11-1957).
L’anno successivo, sempre dalle colonne dello stesso giornale, in data 3
ottobre 1958, Don Calò diventerà «l’uomo della provvidenza» che
purtroppo era venuto a mancare nel trapasso della mafia da campagnola a urbana,
perché «giudizio morale a parte, era davvero un grosso capo […] un
uomo eccezionale».
L’articolo «Don Calò» fu pubblicato dal Corriere della sera, il
30 ottobre 1949, una ventina di giorni prima dell’inizio del processo. Vizzini,
nell’incontro con Montanelli, si premurò innanzitutto di definire se stesso e i
suoi amici:
Il fatto è che in ogni società ci deve essere una categoria di persone che
aggiustano le situazioni, quando si fanno complicate. In genere sono i
funzionari dello Stato. Là dove lo Stato non c’è, o non ne ha la forza sufficiente,
ci sono dei privati.
Montanelli non fece una piega, neanche abbozzò una contestazione. E come
avrebbe potuto se egli stesso, pochi giorni prima, aveva consigliato di
affidarsi alla mafia per «togliere di mezzo» il bandito Giuliano? Il
discorso avviato dal boss, lo proseguì il giornalista in modo che le due parti,
quella attribuita al mafioso e quella espressa in prima persona, appaiono il
frutto di un unico cervello:
ma perché egli [don Calò, Ndr] intervenga, occorre che la
situazione non sia complicata, ma inestricabile. Allora egli manda a chiamare
separatamente le parti, le ascolta con pazienza e diligenza; poi decide, e non
è mai avvenuto, dacché mondo è mondo, e Sicilia è Sicilia, che qualcuno si sia
appellato contro il suo verdetto.
Il disinvolto giornalista non si attardò nell’annoiare i lettori spiegando
il perché e il come di tanta autorevolezza, in una Sicilia tormentata dagli
omicidi mafiosi.
Fin qui qualcuno potrebbe osservare che ci troviamo sul terreno delle
opinioni anche se le omissioni sul profilo criminale di Vizzini sono talmente
macroscopiche da rendere poco credibile questa interpretazione. Ogni limite di
decenza professionale fu comunque travolto quando, poche righe più avanti, la
tentata strage di Villalba venne ridotta a una sorta di beffa strapaesana, a
una pura e semplice bega tra «politici», ma senza violenza e senza spargimento
di sangue; neanche aggressioni verbali e tantomeno un cazzotto, uno spintone,
un buffetto sulla guancia. Niente di niente. Difficile immaginare fino a che
punto poté spingersi nella propensione alle fake news; meglio
citare le sue parole. Un certo giorno, scrisse,
Don Calò fu chiamato a dirimere anche la vertenza fra Li Causi e i
rappresentanti di altri partiti, i quali non volevano permettere al senatore
comunista di tenere un comizio in una certa città [oltre che sul giorno
Montanelli restò nel vago anche sul nome della città, sempre in omaggio alla
preferenza per il verosimile, Ndr]. ‘Quando mai? – disse Don
Calò – Ognuno è libero di tenere i comizi che vuole’.
E fu anzi – secondo Montanelli che di nuovo completa la narrazione del
mafioso – il comizio più tranquillo,
perché quando l’oratore giunse sul posto a bordo di una rombante macchina e
seguito da alcuni accòliti, non vi trovò anima viva. Solo Don Calò c’era a
passeggiare su e giù per la piazza deserta.
Prima di proseguire la citazione, lunga ma molto chiarificatrice, è
necessario osservare che:
a) Li Causi viene indicato come un individuo che si contrappone ai
partiti mentre, in realtà, il comizio era stato indetto da due partiti, Pci e
Psi, nonostante il parere contrario della locale Democrazia cristiana
capeggiata da un parente stretto di Vizzini;
b) i compagni di Li Causi che Montanelli riduce al ruolo di accoliti, e
cioè di chierici minori e di scarsa importanza, erano militanti disposti a
rischiare la vita pur di portare ai braccianti e ai contadini di Villalba,
parole chiarificatrici; tra di essi, quel giorno, figuravano anche personaggi
come Emanuele Macaluso e Michele Pantaleone, futuri parlamentari della
repubblica;
c) la materia del contendere non era il diritto di tenere un comizio ma il
divieto assoluto, posto da Don Calò, di denunciare il ruolo nefasto dei
«gabellotti»;
d) Li Causi non viaggiò su un’auto rombante come gli aristocratici pionieri
della Targa Florio ma, più avventurosamente, su un camion mezzo scassato.
Senatore nel 1944 non poteva esserlo perché le prime elezioni politiche si
sarebbero tenute quattro anni più tardi. Era semmai, ma Montanelli si guarda
bene dal ricordarlo ai suoi lettori, un reduce da anni di galera fascista e
mesi di partecipazione alla Resistenza nell’Italia settentrionale;
e) i partecipanti alla manifestazione, in quelle condizioni d’insicurezza,
non erano molti e pur tuttavia erano lì a sfidare la potenza criminale di Don
Calò creando un precedente che il boss non voleva tollerare.
Riprendiamo il testo di Montanelli là dove l’avevamo lasciato e cioè alla
«piazza deserta» lungo la quale Don Calò passeggiava solitario «coppola in
testa, occhiali sul naso e sigaro in bocca». A questo punto del racconto,
il giornalista supera ogni limite inventando di sana pianta una sceneggiata di
quart’ordine; anziché ricordare che al segnale convenuto, e cioè al grido «non
è vero, non é vero» lanciato dal mafioso all’indirizzo di Li Causi, i picciotti
avevano iniziato la sparatoria e il lancio di tre bombe a mano, Montanelli
racconta che Don Calò, tutto solo nella piazza deserta avrebbe accolto un Li
Causi smarrito fino al punto di chiedere «e la gente dov’è?», con le
seguenti parole:
e iu che ni sacciu. Iu ‘ca sugnu. Mi manciavi tanticchia di pasta e staiu
passiannu pi’ digiriri […] Ah sì? vossia avi a parlari? Tantu
piaciri. Accussì ‘u pozzo sentiri.
Tutto qui, una semplice variante sicula delle baruffe tra Peppone e don
Camillo. Carabinieri e magistrati avevano denunciato, sia pure a piede libero,
Don Calò e i suoi scherani per tentata strage? Montanelli non ne parla. Così
come non spende una parola sui diciotto feriti, tra i quali figurò lo stesso Li
Causi. Del processo imminente non si fa cenno alcuno. Perché rovinare il
divertente quadretto delle dispute dialettali dei soliti siciliani con la
coppola e gli occhiali scuri? Meglio lasciare i lettori nell’ignoranza più
assoluta di quanto era realmente accaduto; meglio spacciare come autentico il
ritratto del «capo dei capi» nelle sembianze del perfetto mediatore, regolatore
e pacificatore. Nel primo dei suoi articoli «siciliani» di quell’autunno
Montanelli aveva a lungo ironizzato sull’omertà diffusa nei paesini dell’isola
tra la gente che viveva nella miseria e sotto il fuoco incrociato delle minacce
di banditi, mafiosi e «sbirri». Ma se i silenzi e i dinieghi di chi era
costretto a vivere nel terrore dovevano essere considerati come manifestazioni
di omertà, neanche si trattasse di una loro tara congenita, come si dovrebbe
definire l’omissione più totale dei fatti reali operata dal «principe dei
giornalisti?». E che dire del tentativo di derubricare una sparatoria alle
irrilevanti dimensioni di uno sfottò allusivo?
In tempi relativamente recenti Beppe Severgnini, rispondendo a una domanda
di un suo lettore ammise che Il Giornale di Montanelli aveva
commesso un grave errore conducendo una campagna contro il giudice Falcone, e
tuttavia cercò di giustificare il suo ex direttore affermando ch’egli sapeva
poco della Sicilia e che, su questa materia, aveva dato fiducia alle persone
sbagliate. Si può comprendere l’imbarazzo dell’ex allievo di fronte al maestro ma
le cose non stavano così. Indro, il bugiardo, per anni si occupò di Sicilia e
di mafia sempre con la massima coerenza e guidato da una convinzione che espose
con estrema chiarezza nella lettera golpista consegnata
all’ambasciatrice americana Clare Luce, il 6 maggio 1954, che è stata possibile
conoscere soltanto nel 1998 dopo che la Library of Congress l’aveva
desecretata. Si tratta di un documento importante, e non soltanto per la
biografia dell’«eroe della libertà di stampa», giacché costituisce un tassello
del lungo mosaico delle trame eversive in Italia. In quell’occasione, dopo
essersi dilungato sulla sua attività tesa a contrapporre la violenza di «centomila
bastonatori» a un’eventuale vittoria dei comunisti, al fine di «salvare
l’Italia» anche a costo di smembrarla e di rinunciare alla democrazia,
Montanelli chiese a Clare Luce, notoriamente maccartista, di chiarire se gli
Stati uniti, in caso di fallimento del golpe, sarebbero stati disposti a
intervenire per fare della Sicilia, roccaforte anticomunista, una nuova Taiwan.
Indicò nel principe (Galvano?) Lanza di Trabia latifondista e già ufficiale del
Sim (Servizio informazione militare) al tempo del fascismo, il personaggio sul
quale puntare, perché si trattava di «un giovane e coraggiosissimo
avventuriero» capace di assicurare «un’eccellente rapporto con la MAFIA
(sic!) che laggiù ha un potere decisivo, molto più importante di quello del
governo».
Come si vede siamo ben oltre l’omertà, siamo ormai nel campo del
reclutamento, nel proprio esercito anticomunista, dei benemeriti «privati» di
Don Calò.
*Silverio Corvisieri è giornalista e scrittore. Ha lavorato all’Unità fino al
1967, poi ha fondato e diretto il Quotidiano dei lavoratori. Come
storico e saggista, tra le altre cose, ha raccontato in diversi volumi il
contributo dato alla Resistenza da gruppi e movimenti dissidenti da
quelli organizzati nel Cln. In La villeggiatura di Mussolini. Il
confino da Bocchini a Berlusconi (Baldini e Castoldi, 2004) ha
ricostruito la storia del confino di polizia durante il regime fascista. È
stato deputato dal 1976 al 1987 in Democrazia proletaria, nella Sinistra
indipendente e nel Pci.
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