Primo Levi è
diventato famoso con due capolavori sui Lager e sul ritorno dalla prigionia, Se
questo è un uomo e La tregua. Poi ha scritto racconti che si potrebbero
definire in vario modo, ma che preferisco chiamare semplicemente di
fantascienza: un primo volume l'ha firmato con pseudonimo (forse anche a lui
come alla maggior parte dei critici pareva inizialmente che non fosse
abbastanza serio passare dal grave tema della deportazione a trattare
l'esasperazione dei possibili comportamenti umani); di questa seconda raccolta
invece s'è apertamente assunto la paternità.
Ho già scritto altrove che il suo itinerario espressivo secondo me è esemplare: dopo aver raffigurato situazioni ultime e problemi estremi, Primo Levi non poteva contentarsi di vicende spicciole, di significati parziali, ma per coerenza doveva radicalizzare ogni rappresentazione fino a trapassare l'apparenza addomesticata dalla quotidianità per cogliere, anche nel vivere moderno, i motivi di fondo dell'inquietudine dell'uomo.
A Paolo Milano la spiegazione, che a parer suo Primo Levi dà delle crudeltà e degli errori umani soprattutto nella società contemporanea, appare troppo blanda. Si tratta per lui di ben altro che di «vizi di forma». Il critico ha quasi l'aria di ricordare allo scrittore quanto più potente fosse la sua stigmatizzazione del male nelle opere concentrazionarie.
Il mio giudizio è diverso. Sin dai suoi libri sui Lager, Primo Levi lasciava vedere come lo svolgimento della disumanizzazione nazista fosse impercettibile e costante, finché una struttura esteriormente normale rivelava da ultimo la sua nascosta degradazione.
Si è pronti ad abbassare la testa di fronte a certe esperienze disperanti, ma non a comprenderne la lezione. Si ritiene ancora che il male sia qualcosa d'intero, di facilmente riconoscibile e quindi denunciabile (già il concetto, di per sé poliziesco, di letteratura di denuncia falsa il problema), e non ci s'accorge che anche nel male la cosiddetta «grandezza» è data dall'accumulo d'innumerevoli piccole storture, minuscole sviste, infinitesime deformazioni che, sommate a poco a poco, precipitano generando d'un tratto la tragedia.
In questi bellissimi racconti, asciutti, essenziali, scritti con stile chiaro e pacato, Primo Levi è riuscito a esprimere proprio questo carattere minuto del male, così minuto che può sfuggire a un occhio disattento e risultare naturale. E forse lo è, naturale, sembra dire lo scrittore, con una disperazione che non aveva raggiunto in Se questo è un uomo, e insieme pagando con questa sua disperazione il prezzo a lui necessario per poter credere nel futuro della nostra specie.
In «Studi cattolici», giugno 1971.
Ho già scritto altrove che il suo itinerario espressivo secondo me è esemplare: dopo aver raffigurato situazioni ultime e problemi estremi, Primo Levi non poteva contentarsi di vicende spicciole, di significati parziali, ma per coerenza doveva radicalizzare ogni rappresentazione fino a trapassare l'apparenza addomesticata dalla quotidianità per cogliere, anche nel vivere moderno, i motivi di fondo dell'inquietudine dell'uomo.
A Paolo Milano la spiegazione, che a parer suo Primo Levi dà delle crudeltà e degli errori umani soprattutto nella società contemporanea, appare troppo blanda. Si tratta per lui di ben altro che di «vizi di forma». Il critico ha quasi l'aria di ricordare allo scrittore quanto più potente fosse la sua stigmatizzazione del male nelle opere concentrazionarie.
Il mio giudizio è diverso. Sin dai suoi libri sui Lager, Primo Levi lasciava vedere come lo svolgimento della disumanizzazione nazista fosse impercettibile e costante, finché una struttura esteriormente normale rivelava da ultimo la sua nascosta degradazione.
Si è pronti ad abbassare la testa di fronte a certe esperienze disperanti, ma non a comprenderne la lezione. Si ritiene ancora che il male sia qualcosa d'intero, di facilmente riconoscibile e quindi denunciabile (già il concetto, di per sé poliziesco, di letteratura di denuncia falsa il problema), e non ci s'accorge che anche nel male la cosiddetta «grandezza» è data dall'accumulo d'innumerevoli piccole storture, minuscole sviste, infinitesime deformazioni che, sommate a poco a poco, precipitano generando d'un tratto la tragedia.
In questi bellissimi racconti, asciutti, essenziali, scritti con stile chiaro e pacato, Primo Levi è riuscito a esprimere proprio questo carattere minuto del male, così minuto che può sfuggire a un occhio disattento e risultare naturale. E forse lo è, naturale, sembra dire lo scrittore, con una disperazione che non aveva raggiunto in Se questo è un uomo, e insieme pagando con questa sua disperazione il prezzo a lui necessario per poter credere nel futuro della nostra specie.
In «Studi cattolici», giugno 1971.
Grazie.
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