mercoledì 12 agosto 2020

interviste dal Libano (di Michele Giorgio e Patrizia Cecconi)

 

La rabbia libanese è incontenibile - Michele Giorgio

La rabbia popolare è incontenibile in Libano. Il governo vacilla e il premier Hassan Diab sabato ha chiamato ad elezioni anticipate. Dei riflessi dell’esplosione a Beirut nella politica libanese abbiamo parlato con Mouin Rabbani, tra i maggiori analisti politici arabi. «Le ricadute in politica interna sono inevitabili» dice Rabbani «i libanesi proseguiranno con più intensità le proteste contro una classe politica che considerano avida, incompetente e dannosa».

Questa classe politica si farà da parte?

Non è garantito che la catastrofica esplosione che ha devastato Beirut e ucciso più di 150 persone produca l’auspicata uscita di scena di personaggi politici, ai vertici talvolta da decenni, che hanno già dimostrato in passato una incredibile capacità di adattamento nelle situazioni di crisi. Un rinnovamento ci sarà e non sarà cosmetico ma, temo, neppure tanto radicale.

Hezbollah è preso di mira. Una parte dei libanesi accusa il movimento sciita, la forza più influente oggi nel panorama politico nazionale, di aver contribuito in modo determinante alla crisi economica e all’isolamento del paese da parte dell’Occidente a causa dei suoi stretti legami con l’Iran e della sua alleanza con la Siria di Bashar Assad.

Queste critiche sono giustificate solo in parte. Hezbollah ha delle responsabilità nella crisi economica libanese ma non più degli altri partiti. Il movimento sciita è entrato stabilmente nel quadro politico libanese non da molti anni e non può aver creato da solo problemi, politici ed economici, che hanno radici lontane. Se ci riferiamo al sistema confessionale, Hezbollah inizialmente ha provato a scardinarlo, anche perché la demografia è dalla sua parte. Un sistema democratico fondato su “un cittadino, un voto” può favorirlo. Ma non è riuscito nel suo tentativo. Ha scelto di unirsi al sistema settario e ora lo difende. E ciò è un problema per quei libanesi che pur non essendo suoi militanti non gli sono ostili e approvano almeno parte delle sue scelte regionali. Questi libanesi spesso sono giovani progressisti, della sinistra radicale, che chiedono un cambiamento vero per salvare il paese allo sbando e sentono di non avere più accanto questa forza che per anni si era proposta come rivoluzionaria, anti-sistema.

Però il sistema settario non lo ha imposto Hezbollah, lo dice la storia del Libano.

Per questo le accuse rivolte al movimento sciita sono giustificate solo in parte. In molti casi sono solo il frutto dell’agenda di forze che vorrebbero vedere una collocazione regionale e internazionale del Libano opposta rispetto a quella che vuole Hezbollah. La tensione tra i due schieramenti salirà con l’annuncio (il 18 agosto, ndr) della sentenza del processo all’Aja (al Tribunale speciale per il Libano) ai presunti responsabili dell’attentato in cui è rimasto ucciso nel 2005 il premier sunnita Rafiq Hariri. Sul banco degli imputati ci sono quattro membri di Hezbollah, non escludo scontri con conseguenze imprevedibili.

Ancora sul sistema settario, davvero gran parte del paese ne vuole la fine? La minoranza cristiana, solo per citare un punto critico, finirebbe per perdere buona parte degli ampi poteri che gli ha assicurato il colonialismo francese.

Lo vuole sinceramente soltanto una parte del paese. I libanesi più di tutto vogliono l’immediata uscita di scena dell’elite politica che da anni grazie al sistema settario si è creata posizioni di vantaggio, anche economico, facendo colare a picco il Libano. Quanto ai cristiani se da un lato il sistema li favorisce in termini di posizioni istituzionali e militari, dall’altro non riescono a ricavarne tutti i benefici. Da anni la minoranza cristiana è spaccata tra coloro che guardano all’alleanza con i musulmani sunniti e all’ex premier Saad Hariri e quelli (sostenitori del capo dello stato Michel Aoun, ndr) che sono convinti che la collaborazione con Hezbollah faccia gli interessi del paese e della loro comunità. Tra questi due schieramenti numerosi giovani cristiani guardano oltre l’appartenenza religiosa e desiderano la fine del sistema confessionale. Lo stesso vale per tanti giovani sunniti e sciiti. Il quadro libanese è molto complesso.

In questa complessità rientrano anche i libanesi che a metà settimana imploravano il presidente Macron a rendere di nuovo il Libano una colonia francese?

Quelle implorazioni, per quanto riprovevoli, non sono incomprensibili dopo un disastro del genere provocato da una amministrazione pubblica fallimentare sotto tutti i punti di vista. Quella gente che abbracciava Macron forse immagina che a Parigi tutto sia meravigliosamente bello e funzionante rispetto al loro paese in ginocchio e in povertà. Sono convinto che i libanesi, o gran parte di essi, siano consapevoli che la classe politica che vogliono cacciare è al potere grazie al sistema settario che ha creato la potenza coloniale francese. Proprio i libanesi che aprono le braccia all’Occidente dovrebbero considerare che gli Usa, parte dell’Europa e alcuni Stati arabi vicini a Washington sono stati fondamentali per consolidare lo status quo emerso dopo la guerra civile libanese (1975-1990, ndr) e che le politiche francesi e americane contribuiscono alla rovina del Libano.

Fonte: il manifesto

da qui


Il nostro paese è alla deriva - Patrizia Cecconi

Dopo le terribili esplosioni del 4 agosto al porto di Beirut, i circa 160 morti, 5.000 feriti e le 300.000 case distrutte; dopo e durante il dolore e la disperazione dei sopravvissuti; dopo che molti paesi, tra cui l’Italia, e varie espressioni della società civile internazionale si sono mobilitati per fornire sostegno umanitario; dopo le promesse di aiuti “a condizione” offerti con prosopopea pseudo napoleonica dal presidente Macron; dopo le vergognose manifestazioni di gioia da parte di alcuni politici ebrei-israeliani dediti all’odio perfino nella festività ebraica dedicata all’amore (Tu B‘av) come l’ex-deputato Feiglin che ha dato il meglio di sé nel ringraziare Dio per il meraviglioso regalo, cioè la strage di libanesi; dopo aver seguito e valutato le diverse opinioni e convinzioni sulle cause e le responsabilità del disastro, dopo aver attentamente osservato i diversi video delle esplosioni, da alcuni dei quali sembrerebbe che non un errore umano, bensì due missili, abbiano innescato il disastro; dopo aver riflettuto sulle minacce pubblicamente espresse in precedenza da Netanyahu e l’indicazione esatta del luogo che secondo i suoi calcoli conteneva le armi di Hesbollah; dopo le accuse rivolte da qualcuno a Israele e da altri al governo libanese per incuria e negligenza nello stoccaggio di materiale esplosivo anche se destinato all’agricoltura; dopo le accuse a Hesbollah che avrebbe nascosto le sue armi nei magazzini esplosi; dopo tutto questo e durante le manifestazioni antigovernative, in parte spontanee e in parte non si sa, che stanno squassando ulteriormente Beirut (ad oggi oltre 730 feriti e un poliziotto ucciso) e che chiedevano prima le dimissioni e poi la forca per i rappresentanti di un governo ritenuto colpevole dell’attuale disastro oltre che della crisi economica che lo ha preceduto, riteniamo opportuno tenere in sospeso le nostre valutazioni politiche – tanto più che le manifestazioni antigovernative sono trasversali alle varie fazioni, compreso il partito comunista libanese, e molto gradite a Israele e agli Usa – ed ascoltare la voce di qualche persona direttamente  colpita dalla tragedia sebbene fisicamente distante.

L’occasione ce la fornisce una giovane architetta libanese che vive e lavora a Londra. Farle una vera intervista è quasi impossibile perché la ragazza scoppia in lacrime appena inizia a parlare. La zona devastata è quella dove lei è cresciuta e dove la scorsa settimana, poco prima della tragedia, stava tornando per abbracciare i suoi parenti e i suoi amici che non vedeva da un po’. Ha rinviato la partenza per andare a un matrimonio e forse è stata la sua salvezza.

La ragazza chiede di usare un nome di fantasia scelto da lei stessa, quindi la chiameremo Muna. Ha 32 anni e appartiene a una confessione cristiana; la sua famiglia infatti è cattolica sebbene non praticante. In Libano i gruppi religiosi sono numerosi e non si dividono solo tra musulmani sciiti e sunniti o cristiani cattolici e ortodossi, no, sono ben 12 le confessioni musulmane e 6 quelle cristiane e l’equilibrio tra i vari gruppi è dato dalla divisione delle cariche istituzionali tra le diverse confessioni religiose. Vanno male gli atei, ironizzava alcuni anni fa un esponente del partito comunista libanese incontrato a Beirut!

Muna appartiene o forse, dopo il disastro, è più corretto dire apparteneva, a una famiglia benestante di Beirut. Ne è prova la foto della casa meno distrutta tra quelle che mi mostra, in cui è visibile qualche parete ancora in piedi ricca di quadri e icone in mezzo a macerie e mobili rovesciati che fanno pensare agli effetti di un terremoto catastrofico. I suoi amici e le sue amiche che la stavano aspettando per raccontarle dal vivo la situazione insostenibile dovuta alla crisi economica e finanziaria e le conseguenze della rivolta del 17 ottobre contro il governo ora sono tutti senza casa e alcuni di loro non ci sono più. Li hanno portati via le esplosioni, mi dice piangendo.

Lascio che la ragazza si calmi e le chiedo se ha avuto perdite anche nella sua famiglia. Direttamente no, nessuno è morto sotto le esplosioni, ma hanno perso tutto. Poi sua nonna ha avuto un infarto due giorni dopo ed ora non c’è più. Piange ancora Muna. Io non chiedo altro, sarà lei a dire che non sa se il terrore di credersi nuovamente sotto bombardamenti, o il dolore di aver perso alcune persone care, o l’angoscia di un futuro senza più risorse per vivere le abbiano fatto scoppiare il cuore, o se la sua morte sia indipendente dalle esplosioni, ma per lei è un motivo di sofferenza che non può separare dagli altri. Vuole riabbracciare chi è sopravvissuto e piangere insieme sulle persone scomparse. Anche per questo vuole tornare a Beirut e lo farà nei prossimi giorni.

Chiedo a Muna se se la sente di rispondere ancora a qualche domanda e al suo cenno di assenso le chiedo se a suo avviso la rivolta di ottobre e le manifestazioni attuali non abbiano avuto qualche infiltrazione tendente a destabilizzare il paese e indebolire il partito sciita Hesbollah. La ragazza non risponde direttamente a questa domanda, ma torna sul disastro attuale e dice soltanto che lei, i suoi familiari e tutti gli amici con i quali è riuscita a parlare sono sicuri che l’artefice di questo spaventoso evento sia Israele.

Non ha neanche una sola espressione di simpatia verso Hesbollah, quindi la sua convinzione non è di copertura di eventuali responsabilità del partito di Nasrallah. Mi chiede di guardare il video che fornirebbe la prova di quanto afferma, ma ne ho già visti tanti e so che un video può essere anche manipolato e può portare fuori pista in un senso e nell’altro. Le chiedo ancora se esclude una qualche responsabilità di Hesbollah nel cosiddetto incidente, sperando in una sua risposta non evasiva e lei chiarisce che detesta gli Hesbollah per la loro chiusura religiosa, che li considera un elemento negativo nella vita sociale libanese, ma che mai avrebbero distrutto la propria terra. Poi aggiunge che comunque gli Hesbollah sono il nemico giurato di Israele e per Israele far cadere su di loro la colpa del disastro sarebbe una conquista politica così come lo è vedere il Libano in ginocchio per la fame.

Però – le ricordo –  Israele ha declinato ogni responsabilità sulle esplosioni ed è stato tra i primi a offrire aiuti dopo il disastro. Aiuti che il governo, su pressione di Nasrallah, ha rifiutato. Come giudica questo fatto? Muna risponde che avrebbe fatto lo stesso perché l’obiettivo di Israele è mortificare il popolo libanese e affievolirne la dignità, quindi distruggere il Libano dopo aver indebolito o addirittura annientato Hesbollah, che al momento è il suo più agguerrito oppositore, non è una scelta per garantire libertà civili ai libanesi, ma per destabilizzare ulteriormente il paese. Poi aggiunge che “deve essere il popolo libanese a risolvere i suoi problemi interni e non una forza esterna che fin troppo facilmente può sfruttare il giusto malcontento della popolazione.

Le faccio altre due domande e poi la libero della mia presenza perché la sua sofferenza va rispettata e mi sembra di averle già fatto troppa violenza approfittando di una relazione amichevole. Le chiedo se pensa che la conferenza dei donatori riuscirà a porre condizioni (come inizialmente aveva dichiarato Macron) che nei fatti rappresenterebbero la realizzazione del desiderio di Usa e Israele di “addomesticare” il Libano secondo le proprie volontà. La sua risposta è incerta. Mi dice che il malcontento è enorme e secondo lei è dovuto più alla crisi economica che non a ragioni prettamente politiche. Aggiunge che “indirettamente i libanesi subiscono gli effetti delle sanzioni imposte all’Iran da Usa e Israele a causa del legame tra Hesbollah e Iran e che questo può essere agevolmente usato per dirigere il malcontento popolare.”

Sapendo che Muna viene da una famiglia cristiana, come il presidente Michel Aoun, le chiedo cosa pensa di lui e la risposta mi gela. Muna risponde seccamente “a war criminal”, un criminale di guerra. In effetti Aoun molti anni fa, quando Muna non era ancora nata, fu uno dei principali artefici dell’assedio del campo profughi palestinese di Tell el Zaatar che si concluse con migliaia di morti.

L’ultima domanda che le faccio è se lei, stando a Beirut, avrebbe partecipato alle manifestazioni di questi giorni contro il governo e contro Hesbollah ritenuti colpevoli diretti o indiretti della catastrofe. Muna risponde che si sarebbe trovata molto a disagio nel non partecipare perché lei non apprezza il governo, ma si sarebbe trovata ancor più a disagio nel partecipare perché avrebbe sentito la sua partecipazione strumentalizzata da chi sostiene il malcontento e lo foraggia per indebolire la sovranità libanese. Inoltre, nella situazione specifica, lei mantiene la sua convinzione che dietro le esplosioni ci sia la zampa sionista.

In conclusione sembra che il Libano, visto con gli occhi di una giovane fino a pochi giorni fa favorita dalla sorte, ma non indifferente ai problemi del suo paese e del suo popolo, sia uno Stato alla deriva e molti sono i soggetti interessati a dirigerne il futuro, a prescindere dal decantato diritto all’auto-determinazione. Purtroppo nessuna osservazione oggettiva dei fatti può discostarsi da questa conclusione, quale che sia la verità sulle esplosioni del 4 agosto.

L’articolo è uscito anche su Pressenza

da qui

 

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