Said impegnato con la
Palestina a un livello così profondamente umanista da aiutare a globalizzare la
causa e smantellare l’euro-universalismo
Anni dopo la sua
prematura scomparsa, la torreggiante figura di Edward Said (1935-2003) continua
a illuminare il nostro cammino mentre navighiamo in acque tempestose nella
storia del mondo.
Quali sono state le
origini e le ragioni alla base della sua tenace intransigenza nel dire la
verità al potere, e in che modo ha permesso a un’intera generazione di
pensatori critici di fare lo stesso?
L’aspetto determinante
del carattere morale e intellettuale di Edward Said come portavoce principale
della causa palestinese è stato il modo in cui ha definito quella fondamentale
causa politica della sua e nostra generazione in termini altrettanto definitivi
di altri movimenti cruciali per la giustizia in tutto il mondo.
È stato esattamente
l’opposto dei nativisti che definiscono i termini della loro particolare
politica a scapito degli altri. Questa identificazione con Said non è stata
solo ad un livello emotivo o carismatico. Era profondamente morale e una
questione di principio etico che a sua volta si traduceva in solidi termini
intellettuali e teorici.
Sono stato un
testimone partecipante in due importanti occasioni, solo la punta dell’iceberg,
quando l’universalità dell’appello politico e intellettuale di Said era sulla
scena mondiale. La prima fu nell’ottobre-novembre 2000 quando l’Accademia
Italiana per gli Studi Avanzati alla Columbia University, dove Said ha
insegnato per decenni fino alla sua scomparsa, ospitò l’eminente figura
fondatrice della scuola di Studi subalterni, lo storico indiano Ranajit Guha,
per tenere una serie di seminari.
In questo occasione,
il mio illustre collega della Columbia Gayatri Spivak ed io organizzammo una
conferenza di due giorni sui seminari di Guha che chiamammo “Studi subalterni
in generale”. Said, presente a questa conferenza, tenne un discorso di apertura
nella sua prima sessione plenaria.
Avevamo invitato i
principali pensatori critici e studiosi provenienti da Asia, Africa, America
Latina, Australia, Europa e Stati Uniti – e il vocabolario stesso delle nostre
discussioni erano quasi interamente articolazioni varie del lavoro di Said.
In un’altra occasione,
nell’aprile del 2003, pochi mesi prima della sua morte, in qualità di
presidente del mio dipartimento, organizzai una conferenza internazionale in
occasione del 25° anniversario della pubblicazione di ‘Orientalismo’ di Said,
alla quale ancora una volta avevamo invitato eminenti studiosi, letteralmente
dai quattro angoli del mondo, con Said che avrebbe tenuto le osservazioni
conclusive.
Anche in questa
conferenza fummo tutti testimoni del modo in cui la centralità fondamentale di
‘Orientalismo’ di Said abbia avuto risonanza globale, forse anche al di là
delle sue iniziali aspettative. Si poteva vedere come le opere di pensatori
critici, da Nietzsche a Gramsci ad Adorno a Fanon, fossero tutte arrivate a
compimento nel lavoro di Said.
Diffamare Said
Condivido questi
ricordi per sottolineare il mio suggerimento che gran parte del mondo
civilizzato e colto, il mondo moralmente e politicamente attento e
coscienzioso, ha ragioni per conoscere, amare e ora ricordare e ammirare Said
per obiettivi interni ai propri progetti politici.
Said naturalmente
aveva la sua parte di nemici giurati, forze nefaste investite nella ricerca,
vana, di diffamarlo. Di recente mi sono imbattuto in un altro di questi pezzi
da quattro soldi, questa volta su Newsweek, fra tutti i posti possibili.
Scopriamo che la
pagina delle opinioni di Newsweek è diventata un territorio occupato da un
editore filo-israeliano che sta usando questo forum per promuovere odio verso
arabi e musulmani (in particolare palestinesi), per diffamare l’insurrezione di
Black Lives Matter e cercare di assicurarsi altri quattro anni della malvagia
follia di Trump, tutto perché gli israeliani possano rubare il resto della
Palestina in un atto finale di rapina a mano armata.
Tutti questi pezzi
condividono un errore comune: stanno tutti abbaiando all’albero sbagliato. Said
non è dove stanno abbaiando. È da qualche altra parte.
Umanità condivisa
Durante la sua vita,
nell’impegno e con l’esempio, Edward Said ha creato un particolare tipo di
intellettuale pubblico che si è occupato della questione dominante del suo
tempo, per lui focalizzata sulla questione delle aspirazioni nazionali
palestinesi, in termini universali non eurocentrici.
È questo senso
cruciale di umanità condivisa che ha portato la Palestina nell’epicentro del
dialogo globale. Said si è impegnato con la Palestina a un livello così
profondamente umanista da contribuire a globalizzare la causa palestinese in
termini che avrebbero smantellato l’euro-universalismo che aveva sfidato con
gran parte del suo lavoro accademico.
Due grandi tendenze
intellettuali sono decisive per gran parte della scena americana del 20° secolo
– altrimenti priva di qualsiasi tradizione intellettuale nostrana: gli
intellettuali immigrati ebrei degli anni ’30 e successivi, e gli intellettuali
afro-americani dell’Harlem Renaissance e dopo, con Hannah Arendt e James
Baldwin come principali esempi di ciascuno.
Nel primo caso, gli
Stati Uniti sono diventati i beneficiari delle atrocità omicide dei nazisti in
Europa, e nel secondo, la scena stessa è stata abbellita dalle vittime di un
razzismo terrorizzante che aveva preso di mira gli afro-americani con una
svolta epocale nell’immaginazione morale e intellettuale di una nazione.
L’intellettuale
nell’esilio
Come erede di queste
due tradizioni, il successo di Said nel corso della vita è di aver creato una
posizione per un diritto intellettuale arabo o musulmano o immigrato tra queste
due potenti tradizioni, tra Arendt e Baldwin, per così dire. Lo stesso Edward
Said non la vide in quel modo, poiché si identificava profondamente con il
filosofo ebreo tedesco Theodor Adorno, e si considerava in esilio e quindi
teorizzava la condizione di esilio.
Ma all’ombra di questa
categoria di intellettuali esiliati sono emersi ovviamente gli informatori nativi
come Fouad Ajami. Molto più esatto è vedere Said come la globalizzazione di una
nuova categoria di intellettuale organico da qualche parte tra l’ebreo
immigrato e gli intellettuali afroamericani senza poteri.
È proprio questa
posizione iconica di Said all’interno di un’esperienza unicamente americana a
turbare profondamente i sionisti razzisti, che pensavano di avere le spalle
coperte dal mercato americano per le loro malvagie ruberie in Palestina.
Proprio nel cuore dell’impero che continuano a mungere per armi e protezione
politica è emersa una voce singolarmente potente: Edward Said.
Certo, lo odiano per
vendetta, proprio per quelle stesse ragioni per cui il mondo in generale lo ama
e lo ammira profondamente. “Accusano” Edward Said di aver ispirato aspetti
dell’insurrezione di Black Lives Matter.
Questa non è
un’accusa. Questo è un motivo per festeggiare.
Naturalmente Said è
stato fonte d’ispirazione per gli afroamericani nelle loro storiche lotte per
la giustizia e oggi, in figure giustamente famose come Angela Davis, Cornel
West, Alice Walker e Eddie S Glaude Jr, sentiamo forte e chiaro gli echi della
voce di Said e del modo in cui ha esteso il potere del suo intelletto
carismatico al movimento Black Lives Matter.
E nessun arabo, nessun
palestinese, nessuno in Asia, Africa e America Latina che si preoccupi
ugualmente della giusta causa di neri e palestinesi potrebbe essere più
orgoglioso di Said per questo ruolo fondamentale.
Hamid Dabashi è Hagop
Kevorkian Professor di Studi iraniani e Letteratura Comparata alla Columbia
University nella città di New York. I suoi ultimi libri includono Reversing the
Colonial Gaze: Persian Travelers Abroad (Cambridge University Press, 2020), e
The Emperor is Naked: On the Inevitable Demise of the Nation-State (Zed, 2020).
Il suo prossimo libro, On Edward Said: Remembrance of Things Past, dovrebbe
essere pubblicato da Haymarket Books entro la fine dell’anno.
Traduzione: Simonetta
Lambertini-invictapalestina.org
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