Ho frequentato l’analisi costi benefici (ACB) in misura
sufficiente a vedere come si fanno “venir fuori” i risultati desiderati: specie
quando, caso molto frequente, a pagarla è il promotore del progetto; ma anche
quando l’“ente terzo” che la effettua si dimostra sensibile alle pressioni
politiche (cioè, in tutti gli altri casi).
Il risultato dipende dalle “assunzioni” (cioè dai fattori che vengono presi
in considerazione e dal metodo per dar loro un prezzo fittizio), ma,
soprattutto, dagli elementi su cui si “soprassiede”. Non che l’ACB sia
inutile: spesso serve a “fare ordine” in progetti scritti con i piedi e a volte
anche a modificarne qualche aspetto secondario; ma a liquidarli senza
remissione, mai.
Questo vale anche per l’ACB del TAV Torino-Lione condotta dallo staff di
Marco Ponti: il risultato è sì negativo, ma le assunzioni sul volume di
traffico che il Tav potrà attrarre sono decisamente sovradimensionate.
D’altronde, con progetti che hanno tempi di realizzazione così lunghi si
dovrebbe prendere in considerazione gli sviluppi futuri della crisi ambientale
e climatica; e lì non ve n’è traccia.
Se ne parla invece nelle considerazioni con cui Marco Ponti e Francesco
Ramelli polemizzano con un testo in cui Stefano Caserini definisce
illusoria l’idea di un’”auto non inquinante” (Micromega n. 4-2020 e
blog 28.7.2020).
Non entro nel merito della contesa. Sono un nemico giurato dell’auto
privata tanto quanto Marco Ponti è un sostenitore senza se e senza ma del
trasporto su gomma. Noto soltanto che per stabilire quanto sia
inquinante un’auto Ponti e Ramelli si limitano a prenderne in considerazione le
emissioni allo scarico, mentre è accertato che fino all’85 per cento del
particolato prodotto dal traffico è dovuto all’attrito degli pneumatici e dei
freni (fonte, tra le altre, la società inglese Emissions
Analytics).
Quindi, anche se tutte le auto fossero elettriche poco cambierebbe. Poi, in
perfetto stile ACB, Ponti e Ramelli traducono l’inquinamento in denaro per
concludere che tra un’auto Euro0 e una Euro6 il costo dell’inquinamento (da
scarichi) scende da 3,04 a 0,14 centesimi di euro al km, (- 88%). Come parlare
ancora di inquinamento?
Ponti insiste quindi su un refrain che gli è caro: il trasporto
pubblico è sovvenzionato in perdita; il trasporto privato invece “sovvenziona”
lo Stato con le accise sui combustibili, senza le quali nessun
bilancio pubblico sopravviverebbe: viva l’auto!
In realtà l’auto è l’industria più sovvenzionata del mondo (rottamazioni,
finanziamenti alla ricerca, contributi a fondo perduto agli investimenti). Ma
anche qui tutto dipende dalle assunzioni: ci sono costi di cui bisogna decidere
da che parte stanno: quella del trasporto pubblico o quella dell’auto privata?
Per esempio, una metropolitana sotterranea (centinaia di milioni di € a
chilometro) non è forse un pedaggio che il trasporto pubblico paga per lasciare
le strade libere al trasporto privato? E il parcheggio a bordo strada (su
entrambi i lati) è o non è un regalo di spazio pubblico agli automobilisti,
pagato dai contribuenti? E il restringimento della carreggiata e il
rallentamento del traffico che esso comporta non sono forse costi, in termini
di consumi, usura e utilizzo dei mezzi pubblici, di perdita di tempo – quanto
vale quello dei passeggeri? – imputabili al traffico privato?
Che poi completa l’opera con l’intasamento della carreggiata residua: nei
giorni di blocco del traffico i mezzi pubblici viaggiano a una velocità
commerciale tripla; con la stessa quantità di mezzi, autisti e combustibile
(meno stop and go) strade urbane sgombre moltiplicherebbero per tre la capacità
del TPL (Trasporto pubblico urbano) attuale.
Ma sono la costruzione di strade e autostrade (grandi attrattori di
traffico incrementale, cioè promozione dell’auto), le loro dimensioni a misura
di automobile e lo sprawl (dispersione urbana) che ne consegue a comportare dei
costi astronomici mai considerati. Tutto dipende infatti dalle assunzioni…
Poi, alla fine del loro articolo, giunti al nodo dei cambiamenti climatici,
Ponti e Ramelli cedono la parola al premio Nobel William Nordhaus, che
“stima i costi del cambiamento climatico per un aumento della temperatura di
3°C pari al 2,1% del PIL mondiale”.
In questo confortato dall’IPCC (il gruppo di scienziati che si occupano per
conto dell’ONU di studiare i cambiamenti climatici) che, in uno scenario BAU (businness
as usual), prevedono un aumento della temperatura globale di 3,66°C al 2100
(più del doppio della linea invalicabile indicata altrove dall’IPCC stesso) e una
perdita di PIL del 2,6%: niente.
Si tratta di uno scenario che include inabitabilità di una parte
consistente del pianeta per eccessivo caldo o per innalzamento del livello dei
mari di un metro, ma forse 3; scioglimento irreversibile di ghiacciai, Groenlandia, calotte
polari e permafrost siberiano; moltiplicazione di eventi meteo estremi;
proliferazione di pandemie e centinaia di milioni di abitanti della Terra
costretti a migrare.
Da accogliere in Europa e negli altri paesi temperati con i mezzi
utilizzati con i profughi che già oggi tentano la traversata dei confini in
Messico, Libia, Turchia o Myanmar. Ma il PIL, tutto sommato, perderebbe
poco. Anche se quest’anno, con solo “un po’” di covid, è già diminuito di
tre volte tanto. Ecco dove ci porta l’ACB, la traduzione delle assunzioni in
prezzi fittizi, moneta sonante.
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