domenica 23 agosto 2020

Il maiale e il grattacielo - Marco d’Eramo

10 pagine di bibliografia e 33 pagine di indice delle persone, dei luoghi, dei periodici e degli argomenti, con più di 400 pagine, nell’edizione Feltrinelli del 2009.  

È proprio un libro ben argomentato, che si legge come un romanzo. 

Chicago anticipa tutto, e tutti.   

Inventarono la prima catena di (s)montaggio, degli animali morti, gli immensi macelli che davano da mangiare carne a milioni di persone e la conservava, quando ancora l’elettricità non esisteva. 

Passarono da poche centinaia di abitanti a diversi milioni, accolsero migranti di tutto il mondo, per primi i neri del sud, serviva manodopera.   

Ogni ondata di emigranti erano gentaglia, per l’ondata precedente.  L’integrazione non esisteva, se non, in parte, al lavoro, in città tutte le etnie erano separate, ciascuno stava coi suoi.  

Costruirono, in serie, le case in legno, con un risparmio enorme di manodopera, disboscando territori vergini, grandi come diversi stati.   

Anarchici e Pantere Nere furono uccisi senza pietà, omicidi senza fine.  

E poi successero e succedono moltissime altre cose, per esempio Barack Obama proviene da Chicago.

Jean-Patrick Manchette diceva che tutto il mondo è Chicago.   

Vogliatevi bene, leggete anche questo libro di Marco d’Eramo

 

 

Il maiale e il grattacielo, 25 anni dopo - Marco d’Eramo

Il capitalismo sconvolge e rivoluziona tutto, tranne le regole del suo funzionamento e i meccanismi che questo induce. Già 25 anni fa la storia di Chicago si presentava come un’archeologia del capitale, “in quanto scavo nei vari strati delle macerie che esso ha lasciato, degli eserciti umani che ha spostato e mandato allo sbaraglio”. Pubblichiamo la postfazione alla nuova edizione del saggio “Il maiale e il grattacielo” di Marco D’Eramo, in questi giorni in libreria per Feltrinelli

Siamo a una sessantina di km a ovest del lago Michigan, dove i suburbi di Chicago si estendono sempre più intervallati e i pendolari si svegliano sempre più presto per andare a lavorare a downtown. Aurora è un comune di 200.000 abitanti, riproduzione frattale, in piccolo, della città di cui è suburbio: fondata nel 1845, pochi anni dopo Chicago, come la sua città madre divenne florida per le ferrovie, visto che qui nel 1856 la Chicago Burlington and Quincy Railroad aprì uno dei suoi stabilimenti più grandi e fu fino agli anni ’60 del secolo scorso il suo più importante datore di lavoro, prima di chiudere definitivamente all’inizio degli anni ‘70. Come Chicago, Aurora ospita opere architettoniche di valore (edifici di Frank Lloyd e di Mies van der Rohe, tra gli altri).

Aurora è inconfondibilmente midwestern già per il nome: qui nelle grandi piane, i comuni portano nomi che rivelano l'intensità, la speranza, il coinvolgimento che, nel costruirli, ci aveva messo chi li aveva fondati: Aurora appunto, ma anche Confidence, Mystic, Promise City, Bethelem, Chariton, Gravity, Hopeville (Borgosperanza: ancora una volta incrociamo quella potenza del nominare in cui tanto spesso ci siamo imbattuti in questo libro). Ma Aurora oggi non ha niente di biblico (né di nietzscheano, se è per questo), anche se all’inizio del ‘900 si fregiò dell’epiteto di “Città delle Luci” (City of Lights), non si sa quanto ironica parodia della Ville Lumière (Parigi), perché era stata una delle prime cittadine del Midwest a rischiarare le sue notti con l’illuminazione elettrica.

La ragione per cui ci troviamo qui è un enorme edificio basso che si estende su più di quattro ettari nella periferia est di Aurora, in mezzo ai campi, in un paesaggio prosaico. Qui, a una temperatura mantenuta costante, accuditi da inservienti che si spostano in pattini a rotelle da una macchina all’altra, enormi computers processano e immagazzinano miliardi di transazioni finanziarie, consumando quantità stratosferiche di energia elettrica, fornita da due apposite centrali.[1] Perché qui è ospitato il Centro Dati del Chicago Mercantile Exchange (Cme), la più grande borsa di derivati al mondo. Anzi, in tutti i sensi operativi, questo enorme capannone è diventato la borsa di Chicago: perché è in questi computer, e non solo per mezzo di essi, che materialmente avvengono in decimillesimi di secondo tutti gli scambi (acquisti e vendite) di titoli e di derivati, di futures su valute e mercanzie, su tassi d’interesse e assicurazioni, di equities, di swaps e di options, questi arcani termini teologici con cui i sacerdoti del capitale celebrano le loro liturgie. Perché la sede tradizionale del Cme, nel centro di Chicago, su Wacker Drive, dove si trovava la grande fossa delle transazioni, ha chiuso i battenti nel 2016. Proprio come ormai la borsa di Wall Street non è più a New York, ma in una serie di hangar a Mahwah nel New Jersey (dimostrando quanto fosse obsoleta l’idea di poter “Occupy Wall Street”).

Nulla esprime con maggiore chiarezza l’abisso che ci separa dal 1995 (quando apparve la prima edizione di questo libro) quanto il trasloco del Cme. Basta paragonare il sommesso ronfare dei computers di oggi con la fossa (pit in inglese e corbeille in francese) come mi si presentò allora: “Dall’osservatorio che si affaccia a balconata sopra la sala delle transazioni, vedi un antro di 3.600 mq con dentro 4.000 persone che si agitano gridando: i volti si contraggono esaltati in adorazione delle cifre luminose che appaiono sui muri; le mani si muovono frenetiche; le dita parlano rapidissime in un linguaggio da sordomuti; le teste oscillano come a pregare le azioni. A non sapere nulla, assisti a un mistero antico, a una festa in un monastero tibetano, a un’allucinazione delle percezioni, quasi a un’estasi. Neanche da Wall Street si sprigiona questa religiosità aliena. L’esausta, febbrile trance ipnotica dei commessi (floor traders) ricorda i cerimoniali studiati dagli antropologi. E proprio come un antropologo, ti rendi conto di star guardando riti destinati a sparire. ‘che ci scompaiono proprio sotto i nostri occhi’ (Bronislaw Malinowski)” (vedi supra, p. 55).

La previsione si è realizzata molto prima di quanto chiunque potesse immaginare. A pensare che ancora nel 2000 il Cme si sentiva obbligato a imporre tacchi non più alti di 5 centimetri nella sala transazioni[2] perché i commessi avevano cominciato a portare tacchi sempre più alti per poter farsi vedere prima, quando nella calca alzavano le mani per lanciare un’offerta di acquisto o di vendita! E ora, solo 20 anni dopo, il bailamme frenetico e quasi delirante delle transazioni umane è sostituito dal ronron di computer accuditi da inservienti in pattini a rotelle! Ai porti di mare c’erano voluti secoli per passare dalla poliglotta, babelica confusione dei moli per velieri allo sterminato silenzio deserto dei terminal per portacontainer. Alle borse valori e al capitalismo finanziario è bastato un ventennio.

* * *

Il passaggio da una borsa valori umana, bipede, funzionante con gesti e suoni, ancora animale in un certo senso, a una borsa valori silenziosa, cibernetica, elettronica, automatica, insomma la fulminea transizione dalle grida agli algoritmi è l’espressione fisica di quell’accelerazione del tempo che secondo il filosofo Reinhart Koselleck è la caratteristica saliente del moderno. La velocità con cui il nostro mondo cambia è sempre maggiore, ma il sentimento, la percezione dell’accelerazione rimane costante. Già all’inizio dell’800 i romantici tedeschi potevano dire che negli ultimi venti anni il mondo era cambiato più che nei due secoli precedenti (sfido io! in quei 20 anni c’era stata la rivoluzione francese ed era cominciata la rivoluzione industriale). E nel 1886 l’ingegnere elettrico e imprenditore Werner von Siemens diceva: “periodi di sviluppo che in tempi passati hanno avuto luogo nel corso di secoli, e che all’inizio della nostra epoca hanno richiesto ancora dei decenni, si compiono oggi in anni…”[3]

L’accelerazione del tempo rende irriconoscibili i paesaggi. Cabrini-Green, il complesso di edilizia popolare più malfamato (e uno dei più segregati) del centro di Chicago è stato raso al suolo nel 2011 e sono stati demoliti i suoi palazzoni, con i ballatoi esterni, chiusi da una rete di ferro con le finestre divelte e le facciate striate dagli incendi (cfr. supra il capitolo “Cabrini-Green, dove c’era il paradiso” pp. 312-323), ormai rimpiazzati da casette a schiera: ma prima a Cabrini-Green vivevano fino a 15.000 persone in 3.600 appartamenti, ora le casette a schiera sono solo 586 e di esse solo 150 occupate: effetti collaterali dei risanamenti urbani!

Lo stesso destino è toccato alle Taylor Homes, altro infame high rise project, questa volta proprio accanto all’idilliaca enclave dell’University of Chicago, per cui i “Chicago boys” della scuola economica, profeti e missionari del capitalismo puro e duro, non osavano uscire a piedi dalla loro oasi. È in via di completamento la sostituzione dei 28 palazzoni da 16 piani per 4.415 appartamenti demoliti nel 2007 con 2.300 unità in edifici a uno o due piani, chiamati sempre, con il gusto yankee per l’iperbole, “Legends South”.

Non solo distruzioni. Nel centro della città, proprio sul Chicago River vicino al Magnificent Mile si staglia ora la Trump Tower, terminata nel 2009, che svetta fino a 356 metri (antenna esclusa) in uno stile neo-futuristico che sempre più fa somigliare i grattacieli a cioccolatini incartati nella stagnola, in un processo che era già implicito nella rivoluzione che permise a Chicago d’inventare i grattacieli (vedi supra “Una raschiatina al cielo”, pp. 64-69), e cioè la trasformazione degli edifici da esoscheletri (come tra gli animali sono lumache, tartarughe o gamberi), edifici sorretti dai muri portanti esterni (“muri maestri”), in endoscheletri (come i vertebrati), dove la funzione portante è invece assolta dalla struttura interna in acciaio. Ma inevitabilmente questa evoluzione porta a trasformare l’architettura in una forma di sartoria, dove l’architetto si limita a essere un couturier che abbiglia l’edificio all’esterno, provvedendolo di sbuffi e décolletés.

Se applicata alle città, in questo caso a Chicago, l’accelerazione del tempo fa sì che non si possa parlare di una città in un luogo, in un dove, ma la si debba sempre pensare in uno spaziotempo, in un dove-quando: di modo che non c’è solo un altrove, ma c’è anche un altroquando. La città diventa un “cronotopo”, per usare il termine coniato da Michail Bachtin a proposito della letteratura: nel cronotopo “ha luogo la fusione di connotati spaziali e temporali in un tutto dotato di senso e di concretezza. … I connotati del tempo si manifestano nello spazio, al quale il tempo dà senso e misura. Questo intersecarsi di piani e questa fusione di connotati caratterizza il cronotopo”.[4] Qui si può parlare di “cronocittà”.

Walter Benjamin poteva descrivere Parigi e i suoi Passages presumendo che fra qualche decennio sarebbero stati ancora lì, come erano già lì qualche decennio prima. Ma ora devi precisare sempre di quale città stai parlando, in quale momento. Se descrivessi la Calcutta degli anni ’80 oggi nessuno la riconoscerebbe. Quell’immagine da cartolina disperata – e leziosa – data da Città della gioia (Dominique Lapierre, 1985) è incompatibile con un viaggio nella pulitissima metropolitana della Calcutta di oggi.

D’altronde tutto il volume che hai dietro di te è organizzato secondo il principio del cronotopo, della città dove-quando in cui “i connotati del tempo si manifestano nello spazio, al quale il tempo dà senso e misura”. Abbiamo visto il “cronotopo Chicago” mutare dal piccolo agglomerato del 1840 alla città lignea in preda al furibondo incendio del 1871, alla metropoli industriale dei mattatoi e delle ferrovie eretta dagli immigrati etnici europei fino al 1910, alla fucina plasmata dalla grande immigrazione nera dal sud durante e dopo la prima guerra mondiale, al grande centro prevalentemente finanziario del secondo dopoguerra.

* * *

Ti chiederai allora perché vale la pena di ripubblicare questo testo, se riguarda una città ormai svanita. Un po’ per la stessa ragione che scrivevo nel Postscriptum che hai letto appena prima di queste pagine: perché già 25 anni fa la storia di Chicago si presentava come un’archeologia, un’archeologia del capitale, “in quanto scavo nei vari strati delle macerie che esso ha lasciato, degli eserciti umani che ha spostato e mandato allo sbaraglio”: già 25 anni fa potevo dire che “di questa storia così breve, e così gonfia, sono state spazzate via perfino le effigi”, che “è già scomparso quel che appena ieri aveva creato e fatto grande Chicago. E la città che oggi vediamo è destinata a svaporare. Quel che non cambia è il processo del dissolvimento, è il vivere del proprio morire, è l’autofagia come tecnica di crescita”. È la ragione per cui, a differenza di precedenti riedizioni, questa volta ho deciso di non aggiornare né il testo né le statistiche, un po’ perché interi capitoli avrebbero dovuto essere riscritti (e invece mi pare ancora utile rivisitare oggi Cabrini-Green anche se è stata demolita), e un po’ perché le nuove cifre e le nuove statistiche non alterano il ritratto di fondo.

Infatti, una ragione a mio avviso più seria per ripubblicare questo testo è che sotto certi aspetti il capitalismo nella sua forma più pura, più libera da vincoli, quale si è espresso e realizzato a Chicago, si comporta paradossalmente come l’aristocrazia siciliana descritta da Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo, pronta “a cambiare tutto per non cambiare niente”. Come dire che il capitalismo sconvolge e rivoluziona tutto, tranne le regole del suo funzionamento e i meccanismi che questo induce.

Tutto è cambiato a Chicago, ma la struttura sociale, “i fondamentali” della città sono rimasti gli stessi. I singoli quartieri possono in un periodo essere chic e poi nei decenni successivi diventare slum abbandonati e poi tornare chic, ma quel che non cambia è la regola e il ritmo del pendolo slum-gentrification- slum- rigentrification: in un’area uno speculatore immobiliare costruisce un complesso di unità familiari per una clientela agiata e bianca in villette unifamiliari o condomini di lusso. Poi, a poco a poco, comincia a vendere a sovraprezzo qualcuna di queste unità ad acquirenti non “caucasici” (ispanici, afroamericani…) pronti a pagare un premio, rispetto ai corsi di mercato, per vivere in un’area bianca. Ma man mano che i “non caucasici” aumentano, l’area si deprezza e i “caucasici” cominciano ad andarsene, e allora la manutenzione viene trascurata, villette e condomini si degradano, le unità diventano meno pregiate, e restano appetibili solo per una clientela meno agiata. S’innesca una spirale di deterioramento che si conclude solo quando il quartiere è diventato uno slum. Quando il quartiere è completamente degradato, lo speculatore è pronto a ricomprarlo a prezzi stracciati per rigentrificarlo di nuovo e venderlo di nuovo a una clientela ricca, e il ciclo riparte.

Perché, come hai già visto tante altre volte nella storia che ti ho raccontato, il razzismo ha un valore di mercato e questo valore di mercato alimenta il razzismo. Così per un periodo il centro città, l’inner city, diventa uno slum, un ghetto nero, poi a poco a poco emarginati, disperati, neri, latinos vengono espulsi, il centro si rigentrifica (come è avvenuto per tutti gli anni ’90 e nel primo decennio di questo secolo). Come mi diceva Philippe Bourgeois (che abbiamo già incontrato per il suo bello studio su una casa di crack nel barrio portoricano di New York): “se adesso vuoi trovare gli strafatti homeless, non li devi cercare a Mission a San Francisco o ad Harlem a New York, ma nel Wyoming, nei paesetti del Dakota e del Kansas, in piena campagna”.

Ma non è solo la struttura urbana a funzionare secondo le costanti imposte dalla logica della rendita. Ero a Chicago, a Grant Park, la sera del 4 novembre 2008, il giorno in cui il chicagoan Barack Obama fu eletto. Grant Park, dove nel 1968 gli studenti erano stati massacrati di botte durante la Convention democratica. Lì, quella sera del 2008 sembrava che una nuova grande speranza potesse riscattare quella città di ghetti, il fantasma dello schiavismo, l’eredità delle discriminazioni, il retaggio delle insurrezioni soffocate, delle Pantere nere sterminate.

Non fu così, non perché Obama non fosse all’altezza: magari non lo era, ma il punto era un altro; non perché le attese e le speranze fossero esagerate, certamente lo erano[5], ma non furono disattese solo per una pur reale codardia. Ma perché la lunga durata, come la chiamava Fernand Braudel, non fa sconti. Non è perché Benazir Bhutto è stata per cinque anni primo ministro del Pakistan che in quel paese è cambiato il rapporto tra uomini e donne e che è stata spazzata via una millenaria tirannia maschile.

Così l’elezione di Obama non ha alleviato la vita degli afroamericani statunitensi. In parte perché Obama è (solo un po’) nero (mamma di origine irlandese), ma non è un “vero” afroamericano: nessuno dei suoi antenati è mai stato schiavo negli Usa, ed è questo a costituire lo spartiacque nella società americana. Ma soprattutto perché, con un effetto boomerang, la sua elezione ha esacerbato il persistente razzismo latente, che prima veniva rimosso, taciuto e negato. Come per la struttura castale indiana, così per la struttura razziale statunitense: sia in India che negli Usa tutti ti ripetono – mentendoti e mentendosi senza neanche rendersene conto – “era un problema del passato, ma ora è risolto”.

La presidenza di Obama ha per così dire sdoganato il razzismo: se accusato, qualunque razzista poteva risponderti: “Ma che razzisti, abbiamo persino eletto un presidente nero!”; proprio come un maschio pakistano poteva risponderti “Abbiamo persino eletto una donna primo ministro”, subito dopo aver picchiato la propria moglie.

Tanto è vero che con la presidenza Obama le violenze della polizia nei confronti dei neri sono aumentate: a tutt’oggi la probabilità che negli Stati uniti uomini e ragazzi neri siano uccisi dalla polizia è due volte e mezza più alta che per gli uomini e i ragazzi bianchi.[6] Le uccisioni di neri da parte della polizia contano per circa un quarto (25%) del totale mentre i neri costituiscono solo il 12,% della popolazione Usa. C’è stata una recrudescenza di violenze razziste da parte dei civili. Senza questo rigurgito di razzismo l’elezione di Donald Trump resterebbe incomprensibile.

E se 25 anni fa potevo cominciare il capitolo sulla scuola di economia dei Chicago Boys ricordando il fulminante incipit di un editoriale pubblicato nel 1991 dal “Washington Post”: “La guerra fredda è finita e l’ha vinta l’Università di Chicago” (vedi supra p. 388), ora i Chicago Boys fanno ben altro: dominano il mondo piegandolo a tal punto che tutte le sinistre occidentali sono state convertite al verbo neoliberista, e che sì è totalmente realizzata la profezia/minaccia di Margaret Thatcher There is No Alternative (“Non c’è alternativa” al capitalismo finanziario), a tal punto che, come scriveva Mark Fisher, “È più facile pensare la fine del mondo che la fine del capitalismo”.[7]

Perciò, se il paesaggio architettonico si è modificato in questi decenni, invece il paesaggio umano di Chicago è rimasto notevolmente stabile e le tendenze socioeconomiche hanno proseguito imperterrite sulla traiettoria degli ultimi 180 anni, portandola fino alle sue estreme conseguenze.

È la traiettoria del capitalismo, di come è cresciuto, come si è realizzato, come ha imposto le sue regole in una città dove ha potuto esprimersi senza i vincoli esterni che lo limitavano e lo alteravano, senza lo statalismo di Parigi, senza l’aristocrazia fondiaria e coloniale di Londra. Qui abbiamo potuto vedere la sua azione nella sua forma più pura.

Franco Moretti dice che il genere narrativo per eccellenza adottato dalla borghesia occidentale è stato il “romanzo di formazione”. Ecco, per me Chicago è stato, ed è il personaggio narrativo che mi ha reso possibile raccontare il “romanzo di formazione del moderno”. Attraverso le peripezie, le avventure, le conquiste, le tragedie del personaggio Chicago è possibile leggere in filigrana la struttura del moderno.

I romanzi di formazione finiscono in genere quando i loro eroi diventano adulti, salutano la giovinezza (in senso biologico o in senso sociale). Anche questo romanzo di formazione si conclude perciò quando Chicago è diventata adulta: certo continuerà a vivere, ma “l’archeologia del futuro” che abbiamo raccontato è una storia conclusa.

Sono tante le città che sono sopravvissute alla propria epopea: oggi Alessandria d’Egitto ha 5,2 milioni di abitanti, più del triplo di quanto abbia mai avuto in periodo ellenistico: ma allora era il centro della cultura mondiale (di questa parte di mondo), oggi è un agglomerato come tanti altri; ad Atene continuiamo ad andarci per tutto quello che è avvenuto prima di essere stata conquistata da Alessandro il Macedone nel IV secolo a. C; nella storia del genere umano Roma è importante per quel che vi è avvenuto fino all’età barocca, non oltre; Parigi ha smesso definitivamente di essere il centro della cultura mondiale alla fine degli anni ’70 del secolo scorso ed è molto dubbio che mai possa ricoprire di nuovo questo ruolo.

* * *

Nella sua prosaica piattezza, Aurora è il posto giusto per salutare questo romanzo di formazione, perché qui giunge a compimento quel processo di smaterializzazione del capitale che era cominciato nel 1848 quando un gruppo di mercanti di buoi e granaglie si erano riuniti per costituire il Chicago Board of Trade, che sarebbe diventato l’antesignano di tutti i mercati di futures a venire. Lì, in una città di legno, tra impantanate strade di terra battuta percorse da mandrie e carriaggi, costoro decisero che avrebbero scambiato non più soldi contro mucche o contro sacchi di grano, ma soldi contro mucche ancora da nascere e sacchi di grano che ancora doveva germogliare. E lo facevano per premunirsi, gli acquirenti contro future carestie che avrebbero fatto schizzare i prezzi alle stelle, e i venditori contro futuri raccolti abbondanti che avrebbero deprezzato i corsi. Erano nati i futures. Non a caso per analizzarne la logica, ho dovuto fare ricorso alla filosofia medioevale, al tema degli universali, perché con i futures i mercanti del Chicago Board of Trade si scambiavano non più merci, ma concetti di merci.

È assolutamente improbabile che quei rudi pionieri midwestern potessero prevedere la pazzesca dinamica che quella loro iniziativa avrebbe innescato: avevano dato il via alla finanziarizzazione del mondo! Ben presto si ebbero futures di metalli, di legni, di tutte le materie prime, e poi futures sui cambi delle monete. Il valore del future è una scommessa sul corso che sarà attribuito a una certa cosa fra un certo tempo. E si può scommettere su tutto. Si può avere un future sui mutui e sui debiti, e poi sull’assicurazione che copre mutui o debiti. Ma perché non avere un future su questi futures? Ecco perché si chiamano derivati: proprio come in matematica esistono derivate prime, seconde, terze, così esistono derivati di ordine crescente: in realtà il paragone più calzante sono le potenze: futuresfutures dei futures, cioè futures al quadrato, futures dei futures dei futures, e cioè futures al cubo). Cioè concetti, concetti di concetti, concetti di…

Oggi nessuno che operi sui derivati si aspetta di vedersi consegnare a casa le materie prime di cui ha comprato i titoli futuri, tutto avviene a un livello di astrazione, di incorporeità, di delocalizzazione che è bene espresso dalla metafora che i fornitori hanno dato ai loro servizi di stockaggio dati: il capitalismo finanziario agisce come un cloud, come una nuvola da cui piovono dall’alto quelle valutazioni che determinano le nostre vite. Come gli dei greci agivano da cime nascoste dalle nuvole, così le agenzie di rating danno voti che decidono se ognuno di noi potrà godere di pensione, potrà farsi curare, potrà mandare i figli a scuola, potrà andare in vacanza.

Questo processo di smaterializzazione, di astrazione sempre crescente era cominciato a Chicago e si conclude oggi nell’automatismo degli algoritmi che governano l’high frequency trading. I primi mercanti della Windy city sarebbero rimasti di stucco a visitare il grande hangar di computers ad Aurora e a sapere che avevano messo in moto tutto questo.

Il bello della storia è che riserva sempre sorprese, e lo farà anche quando queste pagine saranno ingiallite: perché nessuno di noi vedrà mai la fine del film, di questo film straordinario che è la storia del nostro pianeta e di quei feroci, indomiti bipedi spellicciati che siamo noi umani.


NOTE

[1] I server di Aurora necessitano di 184 megawatt di elettricità, l’equivalente, secondo Alexandre Laumonier, del consumo quotidiano di 100.00 abitazioni domestiche: cfr. 6/5, Zones Sensibles, Bruxelles 2013, trad. it. Nero, Roma 2018, p. 134.

[2] Traders’ furious land war erupts outside CME’s data center, “Chicago Business”, 12 maggio 2017, https://www.chicagobusiness.com/article/20170512/NEWS01/170519929/traders-furious-land-war-erupts-outside-cme-s-data-center.

[3] Citato da Reinhart Koselleck in Accelerazione e secolarizzazione, Istituto Suor Orsola Benincasa, Edizioni Sciengifiche Italiane, Napoli 1989, p. 10.

[4] Michail Bachtin, Estetica e romanzo (1975), trad. it. Einaudi (1979), Torino 200, pp. 231-2. Il testo da cui è presa la citazione, “Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo. Saggi di poetica storica”, risale al 1937-8.

[5] Basti pensare al premio Nobel per la Pace che fu assegnato a Obama appena eletto, ancora prima che avesse avuto modo di compiere un singolo gesto di politica internazionale: un premio preventivo!

[6] Getting killed by police is a leading cause of death for young black men in America, “Los Angeles Times”, 16 agosto 2019.

[7] Mark Fisher, Capitalist Realism. Is There No Alternative?, O Books, Winchester (Uk), Washington (Usa), p. 1.

da qui

 

 

Tutti sperimentiamo continuamente che l'introduzione di nuove tecnologie cambia la vita di ogni giorno, tuttavia non ci rendiamo conto di quanto questo fenomeno, se assecondato dalla ricerca del profitto, possa sconvolgere nel giro di un tempo brevissimo la vita di enormi masse di persone e di come per esempio a partire dal secolo scorso abbia determinato lo sviluppo dello stile di vita americano. Leggendo questo libro scopriamo come invenzioni e innovazioni tecnologiche apparentemente minime siano state determinanti per la direzione presa dalla società e ci stupiamo della rapidità dei loro effetti su un gran numero di persone.

Prima del 1830 i chiodi erano fabbricati a mano ed erano molto costosi. Le case venivano fabbricate da carpentieri specializzati, capaci di fissare pesanti assi con incastri di precisione. In quell'anno entrarono in commercio chiodi fabbricati a macchina a basso prezzo. Molto velocemente si scoprì che case molto resistenti, anche a due piani, potevano essere costruite inchiodando tra di loro sottili travicelli dallo spessore standardizzato (5x10 cm.) senza ricorrere a personale specializzato. Il loro costo era molto basso e la manodopera per costruire una casa era più di dieci volte inferiore a quella necessaria con tecniche tradizionali. Già dal 1846 furono messi in vendita progetti di case costruite con questa tecnica e a partire dal 1860 era addirittura possibile acquistare su un catalogo case complete, che venivano spedite dalle segherie di Chicago, con accluse le istruzioni per essere montate. La veloce penetrazione nel West, con le città che sorgevano a vista d'occhio, è stata resa possibile dalla disponibilità di queste case.

È affascinante scoprire lo sviluppo del commercio della carne nella seconda metà dell'Ottocento: i maiali, ("la forma più compatta in cui il raccolto del mais può essere trasportato al mercato") arrivavano a Chicago da tutti gli Stati Uniti, per essere sgozzati in enormi mattatoi e per essere successivamente riinviati alla loro destinazione finale. I mattatoi di Chicago erano allora forse le industrie più avanzate dal punto di vista tecnologico: qui viene inventata, alla fine del secolo scorso, la catena di smontaggio (disassembly line) diretta progenitrice della catena di montaggio (assembly line) delle fabbriche automobilistiche.

La storia degli uomini si intreccia con quella dello sviluppo delle tecniche anche nel caso della refrigerazione necessaria al trasporto della carne. All'inizio il ghiaccio naturale veniva raccolto d'inverno nei grandi laghi, trasportato al sud e immagazzinato in enormi depositi sotterranei (uno dei più grandi poteva contenere 175.000 tonnellate di ghiaccio). Questo sistema fu in auge per circa una ventina d'anni, ma con l'invenzione dei moderni frigoriferi ad ammoniaca compressa divenne improvvisamente obsoleto: le città, le industrie, i mestieri nati intorno all'industria del trasporto e dell'immagazzinamento del ghiaccio svanirono nel nulla nel giro di pochi anni e gli operai che si erano specializzati in questo mestiere dovettero bruscamente riciclarsi.

Gli avvenimenti materiali esplorati nei loro aspetti meno ovvii e nelle reciproche connessioni esprimono una loro complessa logica che coinvolge il modo di comportarsi e di pensare della gente. In questa prospettiva la comprensione delle tecnologie disponibili gioca un ruolo cruciale.

Questo libro così attento alle inaspettate conseguenze delle invenzioni non è quindi una storia della tecnologica ma è una ricerca interdisciplinare insieme storica, sociologica ed economica che ha in più il sapore dell'esperienza vissuta sul campo da parte di un europeo attratto da questa straordinaria metropoli americana.

Marco d'Eramo parte dalla Chicago di adesso e attraverso lo studio del suo passato cerca di capirne il presente e di intravedere il suo e il nostro futuro. Nel far questo l'autore si immerge il più possibile nei fatti, nelle cifre delle statistiche che ad un occhio capace di stupirsi rivelano realtà insospettate (chi avrebbe mai pensato che a un operaio di una fabbrica automobilistica nel 1925 per acquistare un macchina servivano tre mesi di salario, contro i cinque necessari oggi?), che distruggono molti dei nostri pregiudizi.

L'analisi dei particolari ricompone così il quadro generale. Dai mille dettagli imprevedibili salta fuori una visione interessantissima e sorprendente dello sviluppo americano. Vediamo concretamente all'opera la logica del profitto e del mercato, che sfruttando al massimo le più recenti invenzioni, plasma insieme lo sviluppo economico, la planimetria delle città e la vita degli individui. Entriamo nei motivi profondi alla base degli irrisolti problemi, politici, razziali ed economici, che attenagliano la società americana e che ci riguardano direttamente, perché la nostra società tende ad avvicinarsi sempre di più al modo di vita americano e Chicago è in parte anche il nostro futuro, un futuro che è già cominciato.

Il libro è scritto con un grande talento narrativo: le date, le percentuali, le cifre non affaticano il lettore ma lo affascinano per il significato inatteso che riesce a scorgerci. Un libro che si legge scorrevolmente come un romanzo, restando nello stesso tempo scientifico nel metodo, a cominciare dalla rara abitudine di presentare al lettore i documenti originali in modo che possa accertarsi direttamente della fondatezza delle conclusioni dell'autore.

Giorgio Parisi

da qui

 


Dal maiale al capitale - Nicola Gaiarin

recensione a:
Il maiale e il grattacielo, Marco d’Eramo

Feltrinelli, Milano 1999

 

 In un libro affascinante, che spiega come sia ancora possibile mostrarsi critici nei confronti degli eccessi del capitalismo e rimanere tuttavia intelligenti, Marco d’Eramo ha indagato e portato alla luce alcuni paradossi della società contemporanea. Il Maiale il grattacielo. Chicago: una storia del nostro futuro - questo il titolo del libro, pubblicato da Feltrinelli nel 1995 - si avventura in un ambizioso e stimolante viaggio attraverso i paradossi di una città emblematica. Chicago, la patria di McDonalds e del Primo Maggio, della sociologia urbana e degli anarchici di inizio novecento, viene sezionata dall’occhio attento di uno studioso che inverte i presupposti abituali delle letture antropologiche. In questo caso il viaggiatore, provenendo dal vecchio mondo, accetta la sfida dell’altrove assumendo lo sguardo paradossale del “meno civilizzato”. L’osservatore veste i panni, almeno in una logica iperliberista, del “primitivo”: è l’abitante di una terra antiquata e arretrata che tenta di rivolgere la lente d’ingrandimento verso il paese del grande sogno del capitale, gli Stati Uniti. D’Eramo legge la storia di Chicago andando in profondità, rivelando la  stratigrafia, le faglie, gli spostamenti lenti, le emergenze improvvise che hanno consentito a una grande città americana di diventare quello che è. Cerca di raccontare una storia del nostro futuro, mostrando una delle possibili direzioni di sviluppo che si aprono di fronte alle città contemporanee. Lo fa con dati, grafici, numeri. Si sforza di essere il più possibile oggettivo. D’Eramo è un fisico di formazione, e il suo gusto per la precisione riesce a ridurre al minimo l’interferenza dei pregiudizi dello scienziato riguardo all’oggetto osservato. Ma, si potrebbe dire, proprio perché è un fisico, D’Eramo assume l’interferenza, l’influenza dello sguardo dell’osservatore come dato primario. La storia del nostro futuro immaginata attraverso l’incontro con Chicago è anche “solo una storia”, un punto di vista possibile, una forzatura. Un modo di anticipare il futuro sapendo che estraendolo, come il Dio di Leibniz, dal palazzo dei possibili, si ottiene l’effetto contrario. Descrivere e raccontare sono anche modi per esorcizzare e rendere impossibile quello che si descrive.

 D’Eramo osserva Chicago dall’interno, dopo averci vissuto per più di un anno e aver attraversato in tutte le direzioni lo spazio fisico della metropoli. Il suo non è certo uno sguardo ingenuo, non finge di non sapere e non cancella il proprio punto di vista parziale. Da sociologo, oltre che da fisico, D’Eramo assume il peso e la responsabilità di uno sguardo localizzato, in situazione, carico di una memoria personale e collettiva molto forte. Dietro l’osservatore forse c’è Marx, ma di sicuro c’è la consapevolezza di una crisi che mina alla base tanto il marxismo quanto ogni forma semplificata di liberismo. Il problema non è tanto quello di individuare una logica universale o globale: a d’Eramo non interessa l’Impero. La macchina imperiale è troppo grossolana e imprecisa per render conto della complessità del mondo reale. Di fronte alla polverizzazione delle esperienze che caratterizza ogni singola metropoli, le chiavi di lettura si devono moltiplicare senza convergere necessariamente in un quadro teorico unificato. Forse occorre ripartire dall’analisi dettagliata, dalle mille variabili che rendono difficile decifrare anche solo la storia di un palazzo o di un’azienda. Ben vengano le analisi imperiali, ma forse servono solo per rispondere a un bisogno rimosso di teoria. D’Eramo assume fin dall’inizio la profondità di uno sguardo riflessivo, e perciò può permettersi di lasciare spazio alla ricchezza descrittiva. La storia di Chicago è soprattutto l’intreccio di una miriade di storie eterogenee. Il futuro non ha un solo vettore, le frecce si scontrano, cambiano direzione, invertono senso di marcia.

 Anche rivolgendo lo sguardo al passato, in ogni caso, le cose non migliorano granché. La storia di una metropoli non è un percorso ininterrotto e rettilineo, è piuttosto una sovrapposizione di piani frammentati. Le linee evolutive sono discontinue, frattali, piene di biforcazioni. Dove ci si attende una connessione si trova una faglia, dove le distanze sono più evidenti si verificano sorprendenti risonanze. Sono queste le piste, le tracce sepolte seguite da d’Eramo. Le stesse tracce che spiegano perché negli States ci siano così pochi cognomi di origine tedesca (la risposta si nasconde tra le pieghe della feroce persecuzione antitedesca scatenata dallo scoppio della prima guerra mondiale) o perché la scuola economica di Chicago abbia fatto incetta di premi nobel (e di posti nell’amministrazione Reagan). Ma il viaggio nella fantascienza contemporanea di Chicago è anche un viaggio attraverso gli splendori e le miserie del capitalismo. La natura “ferroviaria” del capitale, che ha portato a immense deforestazioni e a devastazioni di lunghissima durata (dallo sterminio dei bisonti alle deportazioni degli indiani) si traduce, nel giro di due secoli, in un’avventura archeologica. Il traffico su rotaia, con le sue linee parallele che coprivano gli USA, lascia il posto alle rotte decentrate del capitalismo automobilistico, più fluido e imprevedibile. Eppure anche l’epopea del vagone ferroviario conteneva i germi di un intrico caotico di flussi contrastanti: le difficoltà di fissare orari unificati, gli scontri tra linee e società private concorrenti, gli incidenti ferroviari causati dalla corsa al ribasso nei prezzi e dalla binarizzazione selvaggia del paese (nel 1909 negli Stati Uniti morivano, in incidenti ferroviari, 19 persone su un milione, mentre in Austria la percentuale era venti volte minore, attorno a 0,99 per milione) contribuivano a gettare le basi per uno sviluppo straordinario ma pagato a prezzo esorbitante.

È in una di queste avventure archeologiche che si scopre la ragione del titolo. Il maiale è infatti il fondamento dell’economia di Chicago. Non un maiale semplicemente macellato, ma un’entità definita in modo preciso e rigoroso, una quantità matematizzabile, un oggetto sezionato con precisione chirurgica. Sulla matematica del maiale e sulla razionalità della sua lavorazione è nata la ricchezza della città. Il meatpacking, localizzato soprattutto nella zona Sud di Chicago, è l’emblema del maiale industrializzato: la carne confezionata, conservata, distribuita, spedita in giro per gli States è il simbolo della forza economica di Chicagoland. E proprio nella Windy Town si compie la sublimazione del sezionamento scientifico del suino. L’aspetto aereo e astratto della carne impacchettata è trova la sua realizzazione nei futures, beni ideali, forward contracts che permettono di vendere oggi raccolti o derrate future, scommettendo sull’aumento o la diminuzione dei prezzi, ma portando all’estreme conseguenze la possibilità di fissare un’equivalenza della merce. Sul transito dei futures prospera la Chicago del duemila, erede immateriale della Packingtown ottocentesca. Da qui nasce l’esigenza di determinare standard perfettamente misurabili per derrate alimentari o per carichi di legname. Fissare standard significa stabilire discontinuità, individuare equivalenze, creare codici comuni. In questo modo, però, si gettano le basi per quella che è una delle caratteristiche più deleterie della spinta globalizzante, vale a dire la cancellazione delle differenze tra i prodotti. Stabilire categorie di equivalenza significa escludere di fatto dal mercato tutto quello che non rientra in queste categorie. Le mele non conformi a standard di misura vengono gettate, tutto ciò che si allontana dall’ideale e dalle categorie di giudizio non può rientrare nel circolo di equivalenze del mercato, e quindi non conta, è deleterio.

 A rendere interessante il libro per il dibattito attuale è però un altro elemento. Nella sua acuta lettura degli eccessi capitalisti d’Eramo individua uno dei tratti distintivi di quello che si potrebbe chiamare integralismo del capitale. L’autore non cerca e non offre soluzioni facili: si sforza piuttosto di lavorare sulle distinzioni, evidenziando la dimensione microstorica e microsociologica che caratterizza i singoli casi analizzati. E tuttavia emerge con forza la natura paradossale delle rivendicazioni totalizzanti della logica del capitale. Nel momento stesso in cui denuncia, a ragione, la natura ideologica dei presupposti marxisti, il capitalismo deregulated compie una petizione di principio. Rivolgendo contro di esso le obiezioni di un pensatore “amico” come Karl Popper, si potrebbe constatare l’impossibilità di falsificare la logica del capitale. La presunta scientificità capitalista si infrange contro una fiducia cieca nel suo destino storico. Ma la credenza nel potere assoluto dell’individuo e nelle possibilità di autoregolazione del capitale porta a contraccolpi di dogmatismo sconcertanti. Le complicità che legano la logica del socialismo reale a quella del capitalismo presente e futuro è sconcertante: “Se il miracolo non avviene è perché non si è pregato abbastanza; se il comunismo non si è realizzato è perché c’era poco comunismo. Se nell’economia di mercato imperversano miserie e abomini, non è perché c’è qualcosa di sbagliato, ma perché non c’è abbastanza mercato, perché troppi ostacoli si contrappongono alla perfetta realizzazione della competizione, pura, trasparente e immacolata. La ricetta di ogni integralismo è "Encore un effort": il mercato funziona male, dunque ancora più mercato” [1] . Il mercato non può sbagliare, il suo radioso destino è già scritto, credere in esso è solo questione di fede.

 Ma l’effetto perverso di questa epifania del sacro postmoderno è ben più evidente in una altro contesto: “Ora l’America, in quanto "terra promessa del capitalismo”, … ha portato all’estremo limite l’individualismo e l’eguaglianza formale. Ma le stesse necessità del capitale hanno riprodotto e nutrito un sistema castale, una frammentazione in sottosistemi olistici” [2] . Sottosistemi in cui la logica immunitaria e aggressiva della comunità separata porta alla nascita di divisioni etniche, sottogruppi di censo e di razza, città private difese da guardie armate, paradisi per anziani dove i pensionati vivono su roulotte e case mobili dopo aver pagato mutui per tutta la vita. A colpire i difensori del capitalismo avanzato dovrebbe essere soprattutto la natura semireligiosa di queste forme di appartenenza. Certamente non spetta allo stato il compito di dare significato e di offrire valori ai singoli cittadini. Il vuoto di valori non si può colmare con un intervento dall’alto. Ma la vertigine del capitale sembra dare origine a movimenti opposti: un nuovo fondamentalismo di casta, non opposto ma strettamente legato alla spinta del capitalismo stesso, nasce dalla progressiva realizzazione della terra promessa. Perciò, continua d’Eramo, “La logica del capitale appare in questo senso cannibalica, poiché, in base alle sue necessità, essa incrina e distrugge alcuni valori cardine che stanno alla base dell’ideologia capitalista, quelli che costituivano lo “spirito del capitalismo” di cui parlava Max Weber” [3] . Sono queste contraddizioni, che certo non ricadono interamente sulle spalle del mercato, a dar vita alla progressiva balcanizzazione di alcune aree del pianeta. L’alleanza tra globalizzazione, rete dei saperi, circolazione dell’informazione, rinascita delle rivendicazioni particolariste, non è esterna alla logica del capitalismo (come, ingenuamente, sembrano credere i No Global, continuando a ragionare in termini di contrapposizioni frontali), ma ne fa pienamente parte [4] .

 Molte delle argomentazioni proposte da d’Eramo permettono anche una lettura critica delle rivendicazioni “libertarie” portate avanti in questi mesi dal popolo di Seattle. Le moltitudini antimperialiste, bloccate su una posizione di demonizzazione del capitale, dimostrano di attribuire al “nemico” lo stesso alone sovrannaturale intravisto dai suoi sostenitori. In questo senso, uno dei capitoli più interessanti del Maiale e il grattacielo, riguarda la grottesca commistione di rivendicazioni sociali e rivalse religiose che contraddistinsero il movimento dei Black Muslims. Un personaggio come Malcom X, legato a deliranti e improbabili teorizzazioni sulla natura maligna dell’uomo bianco e sul carattere magico del potere che ha causato la sottomissione del popolo nero ai diavoli bianchi, risulta perfettamente integrato nel contesto di un sistema di vita come quello americano, in cui prosperano - accanto alle punte più avanzate della ricerca e della tecnologia - antidarwinismo, sette cristiane, predicatori televisivi e un sospetto innato nei confronti delle applicazioni della scienza. La spinta rivoluzionaria incarnata dall’icona Malcom X sembra andare a braccetto con la fede cieca nel mercato o con l’utopia del presunto potere di autoregolazione del capitale. Non siamo poi molto distanti dal miscuglio di new age, radicalismo politico, rivendicazioni legittime, senso di rivalsa e ecumenismo cattolico che caratterizza alcune frange del movimento No global (uso il termine in modo volutamente vago e impreciso). L’esplosione dei valori e la disgregazione del senso di appartenenza danno luogo a forme di comunità svuotate di ogni fondamento reale. Mostrando lo sviluppo di una pericolosa paranoia identitaria nel cuore del “razionalismo” del mercato, d’Eramo mette in guardia anche contro le risposte troppo semplicistiche al problema. È sulle contraddittorie alleanze tra posizioni opposte che vale la pena di riflettere, senza necessariamente prendere parte per uno schieramento o per l’altro. Altrimenti si corre il rischio di perpetuare la lettura della scuola di Chicago, che faceva del tessuto sociale uno spazio fisico, un territorio suddiviso in mondi lontani in perenne conflitto tra loro (e la società multietnica americana, sotto molti aspetti un modello da seguire, è anche il luogo in cui comunità sradicate inventano nuovi steccati e perpetuano antichi conflitti). L’orizzonte di senso di ogni forma di darwinismo urbano è uno strano ibrido tra positivismo e superstizione: fiducia cieca nel progresso e necessità di definire la propria identità rispetto ad un nemico sempre più vicino e minaccioso.

 Le vie d’uscita o le soluzioni possibili di fronte a una simile impasse teorica e pratica non si trovano operando divisioni nette o giocando con le logiche di parte, ma mettendo a punto strategie di riflessione e azione capaci di assumere la responsabilità dei paradossi della situazione attuale. Tra le altre cose, Il maiale e il grattacielo è anche un tentativo di rileggere la dimensione sociale come luogo di relazione e non come campo di battaglia tra schieramenti opposti. Solo la piena comprensione della natura riduzionistica e contraddittoria delle categorie di riflessione tradizionali (destra/sinistra; globale/locale; capitalismo/marxismo, ecc.) potrà permettere di elaborare una nuova logica, capace di riflettere in modo realmente efficace sulla natura contraddittoria e stratificata del nostro tempo. È quello che ha provato a fare d’Eramo, cercando di mostrare quella che nella quarta di copertina viene definita come la “straordinaria forza rivoluzionaria, sovversiva, del capitalismo puro”.



[1] Marco d’Eramo, Il maiale e il grattacielo, Feltrinelli, Milano 1999 p.333.

[2] Cit. p. 268.

[3] Ibid.

[4] Su questi aspetti paradossali d’Eramo si è soffermato nel suo libro successivo, Lo sciamano in elicottero.Per una storia del presente, Feltrinelli, Milano 1999.

 

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