10 pagine di bibliografia e 33 pagine di indice delle persone, dei luoghi, dei periodici e degli argomenti, con più di 400 pagine, nell’edizione Feltrinelli del 2009.
È proprio un libro ben argomentato, che si legge come un romanzo.
Chicago anticipa tutto, e tutti.
Inventarono la prima catena di (s)montaggio, degli animali morti, gli immensi macelli che davano da mangiare carne a milioni di persone e la conservava, quando ancora l’elettricità non esisteva.
Passarono da poche centinaia di abitanti a diversi milioni, accolsero migranti di tutto il mondo, per primi i neri del sud, serviva manodopera.
Ogni ondata di emigranti erano gentaglia, per l’ondata precedente. L’integrazione non esisteva, se non, in parte, al lavoro, in città tutte le etnie erano separate, ciascuno stava coi suoi.
Costruirono, in serie, le case in legno, con un risparmio enorme di manodopera, disboscando territori vergini, grandi come diversi stati.
Anarchici e Pantere Nere furono uccisi senza pietà, omicidi senza fine.
E poi successero e succedono moltissime altre cose, per esempio Barack Obama proviene da Chicago.
Jean-Patrick Manchette diceva che tutto il mondo è Chicago.
Vogliatevi bene, leggete anche questo libro di Marco d’Eramo
Il maiale e il grattacielo, 25
anni dopo - Marco
d’Eramo
Il
capitalismo sconvolge e rivoluziona tutto, tranne le regole del suo
funzionamento e i meccanismi che questo induce. Già 25 anni fa la storia di
Chicago si presentava come un’archeologia del capitale, “in quanto scavo nei
vari strati delle macerie che esso ha lasciato, degli eserciti umani che ha
spostato e mandato allo sbaraglio”. Pubblichiamo la postfazione alla nuova
edizione del saggio “Il maiale e il grattacielo” di Marco D’Eramo, in questi
giorni in libreria per Feltrinelli
Siamo a una
sessantina di km a ovest del lago Michigan, dove i suburbi di Chicago si
estendono sempre più intervallati e i pendolari si svegliano sempre più presto
per andare a lavorare a downtown. Aurora è un comune di 200.000 abitanti,
riproduzione frattale, in piccolo, della città di cui è suburbio: fondata nel
1845, pochi anni dopo Chicago, come la sua città madre divenne florida per le
ferrovie, visto che qui nel 1856 la Chicago Burlington and Quincy Railroad aprì
uno dei suoi stabilimenti più grandi e fu fino agli anni ’60 del secolo scorso
il suo più importante datore di lavoro, prima di chiudere definitivamente
all’inizio degli anni ‘70. Come Chicago, Aurora ospita opere architettoniche di
valore (edifici di Frank Lloyd e di Mies van der Rohe, tra gli altri).
Aurora è
inconfondibilmente midwestern già per il nome: qui nelle
grandi piane, i comuni portano nomi che rivelano l'intensità, la speranza, il
coinvolgimento che, nel costruirli, ci aveva messo chi li aveva fondati: Aurora
appunto, ma anche Confidence, Mystic, Promise City, Bethelem, Chariton,
Gravity, Hopeville (Borgosperanza: ancora una volta incrociamo quella potenza
del nominare in cui tanto spesso ci siamo imbattuti in questo libro). Ma Aurora
oggi non ha niente di biblico (né di nietzscheano, se è per questo), anche se
all’inizio del ‘900 si fregiò dell’epiteto di “Città delle Luci” (City of
Lights), non si sa quanto ironica parodia della Ville Lumière (Parigi),
perché era stata una delle prime cittadine del Midwest a rischiarare le sue
notti con l’illuminazione elettrica.
La ragione
per cui ci troviamo qui è un enorme edificio basso che si estende su più di
quattro ettari nella periferia est di Aurora, in mezzo ai campi, in un
paesaggio prosaico. Qui, a una temperatura mantenuta costante, accuditi da
inservienti che si spostano in pattini a rotelle da una macchina all’altra,
enormi computers processano e immagazzinano miliardi di transazioni
finanziarie, consumando quantità stratosferiche di energia elettrica, fornita
da due apposite centrali.[1] Perché
qui è ospitato il Centro Dati del Chicago Mercantile Exchange (Cme), la più
grande borsa di derivati al mondo. Anzi, in tutti i sensi operativi, questo
enorme capannone è diventato la borsa di Chicago: perché è in
questi computer, e non solo per mezzo di essi, che materialmente avvengono in
decimillesimi di secondo tutti gli scambi (acquisti e vendite) di titoli e di
derivati, di futures su valute e mercanzie, su tassi
d’interesse e assicurazioni, di equities, di swaps e
di options, questi arcani termini teologici con cui i
sacerdoti del capitale celebrano le loro liturgie. Perché la sede tradizionale
del Cme, nel centro di Chicago, su Wacker Drive, dove si trovava la grande
fossa delle transazioni, ha chiuso i battenti nel 2016. Proprio come ormai la
borsa di Wall Street non è più a New York, ma in una serie di hangar a Mahwah
nel New Jersey (dimostrando quanto fosse obsoleta l’idea di poter “Occupy
Wall Street”).
Nulla
esprime con maggiore chiarezza l’abisso che ci separa dal 1995 (quando apparve
la prima edizione di questo libro) quanto il trasloco del Cme. Basta paragonare
il sommesso ronfare dei computers di oggi con la fossa (pit in
inglese e corbeille in francese) come mi si presentò allora:
“Dall’osservatorio che si affaccia a balconata sopra la sala delle transazioni,
vedi un antro di 3.600 mq con dentro 4.000 persone che si agitano gridando: i
volti si contraggono esaltati in adorazione delle cifre luminose che appaiono
sui muri; le mani si muovono frenetiche; le dita parlano rapidissime in un
linguaggio da sordomuti; le teste oscillano come a pregare le azioni. A non
sapere nulla, assisti a un mistero antico, a una festa in un monastero tibetano,
a un’allucinazione delle percezioni, quasi a un’estasi. Neanche da Wall Street
si sprigiona questa religiosità aliena. L’esausta, febbrile trance ipnotica dei
commessi (floor traders) ricorda i cerimoniali studiati dagli
antropologi. E proprio come un antropologo, ti rendi conto di star guardando
riti destinati a sparire. ‘che ci scompaiono proprio sotto i nostri occhi’
(Bronislaw Malinowski)” (vedi supra, p. 55).
La
previsione si è realizzata molto prima di quanto chiunque potesse immaginare. A
pensare che ancora nel 2000 il Cme si sentiva obbligato a imporre tacchi non
più alti di 5 centimetri nella sala transazioni[2] perché
i commessi avevano cominciato a portare tacchi sempre più alti per poter farsi
vedere prima, quando nella calca alzavano le mani per lanciare un’offerta di
acquisto o di vendita! E ora, solo 20 anni dopo, il bailamme frenetico e quasi
delirante delle transazioni umane è sostituito dal ronron di computer accuditi
da inservienti in pattini a rotelle! Ai porti di mare c’erano voluti secoli per
passare dalla poliglotta, babelica confusione dei moli per velieri allo
sterminato silenzio deserto dei terminal per portacontainer. Alle borse valori
e al capitalismo finanziario è bastato un ventennio.
* * *
Il passaggio
da una borsa valori umana, bipede, funzionante con gesti e suoni, ancora
animale in un certo senso, a una borsa valori silenziosa, cibernetica,
elettronica, automatica, insomma la fulminea transizione dalle grida agli
algoritmi è l’espressione fisica di quell’accelerazione del tempo che secondo
il filosofo Reinhart Koselleck è la caratteristica saliente del moderno. La
velocità con cui il nostro mondo cambia è sempre maggiore, ma il sentimento, la
percezione dell’accelerazione rimane costante. Già all’inizio dell’800 i
romantici tedeschi potevano dire che negli ultimi venti anni il mondo era
cambiato più che nei due secoli precedenti (sfido io! in quei 20 anni c’era
stata la rivoluzione francese ed era cominciata la rivoluzione industriale). E
nel 1886 l’ingegnere elettrico e imprenditore Werner von Siemens diceva:
“periodi di sviluppo che in tempi passati hanno avuto luogo nel corso di
secoli, e che all’inizio della nostra epoca hanno richiesto ancora dei decenni,
si compiono oggi in anni…”[3]
L’accelerazione
del tempo rende irriconoscibili i paesaggi. Cabrini-Green, il complesso di
edilizia popolare più malfamato (e uno dei più segregati) del centro di Chicago
è stato raso al suolo nel 2011 e sono stati demoliti i suoi palazzoni, con i
ballatoi esterni, chiusi da una rete di ferro con le finestre divelte e le
facciate striate dagli incendi (cfr. supra il capitolo
“Cabrini-Green, dove c’era il paradiso” pp. 312-323), ormai rimpiazzati da
casette a schiera: ma prima a Cabrini-Green vivevano fino a 15.000 persone in
3.600 appartamenti, ora le casette a schiera sono solo 586 e di esse solo 150
occupate: effetti collaterali dei risanamenti urbani!
Lo stesso
destino è toccato alle Taylor Homes, altro infame high rise project,
questa volta proprio accanto all’idilliaca enclave dell’University of Chicago,
per cui i “Chicago boys” della scuola economica, profeti e missionari del
capitalismo puro e duro, non osavano uscire a piedi dalla loro oasi. È in via
di completamento la sostituzione dei 28 palazzoni da 16 piani per 4.415
appartamenti demoliti nel 2007 con 2.300 unità in edifici a uno o due piani,
chiamati sempre, con il gusto yankee per l’iperbole, “Legends South”.
Non solo
distruzioni. Nel centro della città, proprio sul Chicago River vicino al
Magnificent Mile si staglia ora la Trump Tower, terminata nel 2009, che svetta
fino a 356 metri (antenna esclusa) in uno stile neo-futuristico che sempre più
fa somigliare i grattacieli a cioccolatini incartati nella stagnola, in un
processo che era già implicito nella rivoluzione che permise a Chicago
d’inventare i grattacieli (vedi supra “Una raschiatina al
cielo”, pp. 64-69), e cioè la trasformazione degli edifici da esoscheletri
(come tra gli animali sono lumache, tartarughe o gamberi), edifici sorretti dai
muri portanti esterni (“muri maestri”), in endoscheletri (come i vertebrati),
dove la funzione portante è invece assolta dalla struttura interna in acciaio.
Ma inevitabilmente questa evoluzione porta a trasformare l’architettura in una
forma di sartoria, dove l’architetto si limita a essere un couturier che
abbiglia l’edificio all’esterno, provvedendolo di sbuffi e décolletés.
Se applicata
alle città, in questo caso a Chicago, l’accelerazione del tempo fa sì che non
si possa parlare di una città in un luogo, in un dove, ma la si debba sempre
pensare in uno spaziotempo, in un dove-quando: di modo che non c’è solo un
altrove, ma c’è anche un altroquando. La città diventa un
“cronotopo”, per usare il termine coniato da Michail Bachtin a proposito della
letteratura: nel cronotopo “ha luogo la fusione di connotati spaziali e
temporali in un tutto dotato di senso e di concretezza. … I connotati del tempo
si manifestano nello spazio, al quale il tempo dà senso e misura. Questo
intersecarsi di piani e questa fusione di connotati caratterizza il cronotopo”.[4] Qui si
può parlare di “cronocittà”.
Walter
Benjamin poteva descrivere Parigi e i suoi Passages presumendo
che fra qualche decennio sarebbero stati ancora lì, come erano già lì qualche
decennio prima. Ma ora devi precisare sempre di quale città stai parlando, in
quale momento. Se descrivessi la Calcutta degli anni ’80 oggi nessuno la
riconoscerebbe. Quell’immagine da cartolina disperata – e leziosa – data
da Città della gioia (Dominique Lapierre, 1985) è
incompatibile con un viaggio nella pulitissima metropolitana della Calcutta di
oggi.
D’altronde
tutto il volume che hai dietro di te è organizzato secondo il principio del
cronotopo, della città dove-quando in cui “i connotati del tempo si manifestano
nello spazio, al quale il tempo dà senso e misura”. Abbiamo visto il “cronotopo
Chicago” mutare dal piccolo agglomerato del 1840 alla città lignea in preda al
furibondo incendio del 1871, alla metropoli industriale dei mattatoi e delle
ferrovie eretta dagli immigrati etnici europei fino al 1910, alla fucina
plasmata dalla grande immigrazione nera dal sud durante e dopo la prima guerra
mondiale, al grande centro prevalentemente finanziario del secondo dopoguerra.
* * *
Ti chiederai
allora perché vale la pena di ripubblicare questo testo, se riguarda una città
ormai svanita. Un po’ per la stessa ragione che scrivevo nel Postscriptum che
hai letto appena prima di queste pagine: perché già 25 anni fa la storia di
Chicago si presentava come un’archeologia, un’archeologia del capitale, “in
quanto scavo nei vari strati delle macerie che esso ha lasciato, degli eserciti
umani che ha spostato e mandato allo sbaraglio”: già 25 anni fa potevo dire che
“di questa storia così breve, e così gonfia, sono state spazzate via perfino le
effigi”, che “è già scomparso quel che appena ieri aveva creato e fatto grande
Chicago. E la città che oggi vediamo è destinata a svaporare. Quel che non
cambia è il processo del dissolvimento, è il vivere del proprio morire, è
l’autofagia come tecnica di crescita”. È la ragione per cui, a differenza di
precedenti riedizioni, questa volta ho deciso di non aggiornare né il testo né
le statistiche, un po’ perché interi capitoli avrebbero dovuto essere riscritti
(e invece mi pare ancora utile rivisitare oggi Cabrini-Green anche se è stata demolita),
e un po’ perché le nuove cifre e le nuove statistiche non alterano il ritratto
di fondo.
Infatti, una
ragione a mio avviso più seria per ripubblicare questo testo è che sotto certi
aspetti il capitalismo nella sua forma più pura, più libera da vincoli, quale
si è espresso e realizzato a Chicago, si comporta paradossalmente come
l’aristocrazia siciliana descritta da Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo,
pronta “a cambiare tutto per non cambiare niente”. Come dire che il capitalismo
sconvolge e rivoluziona tutto, tranne le regole del suo funzionamento e i
meccanismi che questo induce.
Tutto è
cambiato a Chicago, ma la struttura sociale, “i fondamentali” della città sono
rimasti gli stessi. I singoli quartieri possono in un periodo essere chic e poi
nei decenni successivi diventare slum abbandonati e poi tornare chic, ma quel
che non cambia è la regola e il ritmo del pendolo slum-gentrification-
slum- rigentrification: in un’area uno speculatore immobiliare costruisce
un complesso di unità familiari per una clientela agiata e bianca in villette
unifamiliari o condomini di lusso. Poi, a poco a poco, comincia a vendere a
sovraprezzo qualcuna di queste unità ad acquirenti non “caucasici” (ispanici,
afroamericani…) pronti a pagare un premio, rispetto ai corsi di mercato, per
vivere in un’area bianca. Ma man mano che i “non caucasici” aumentano, l’area
si deprezza e i “caucasici” cominciano ad andarsene, e allora la manutenzione
viene trascurata, villette e condomini si degradano, le unità diventano meno
pregiate, e restano appetibili solo per una clientela meno agiata. S’innesca
una spirale di deterioramento che si conclude solo quando il quartiere è
diventato uno slum. Quando il quartiere è completamente degradato, lo
speculatore è pronto a ricomprarlo a prezzi stracciati per rigentrificarlo di
nuovo e venderlo di nuovo a una clientela ricca, e il ciclo riparte.
Perché, come
hai già visto tante altre volte nella storia che ti ho raccontato, il razzismo
ha un valore di mercato e questo valore di mercato alimenta il razzismo. Così
per un periodo il centro città, l’inner city, diventa uno
slum, un ghetto nero, poi a poco a poco emarginati, disperati, neri, latinos
vengono espulsi, il centro si rigentrifica (come è avvenuto per tutti gli anni
’90 e nel primo decennio di questo secolo). Come mi diceva Philippe Bourgeois
(che abbiamo già incontrato per il suo bello studio su una casa di crack nel
barrio portoricano di New York): “se adesso vuoi trovare gli strafatti
homeless, non li devi cercare a Mission a San Francisco o ad Harlem a New York,
ma nel Wyoming, nei paesetti del Dakota e del Kansas, in piena campagna”.
Ma non è
solo la struttura urbana a funzionare secondo le costanti imposte dalla logica
della rendita. Ero a Chicago, a Grant Park, la sera del 4 novembre 2008, il
giorno in cui il chicagoan Barack Obama fu eletto. Grant Park, dove nel 1968
gli studenti erano stati massacrati di botte durante la Convention democratica.
Lì, quella sera del 2008 sembrava che una nuova grande speranza potesse
riscattare quella città di ghetti, il fantasma dello schiavismo, l’eredità
delle discriminazioni, il retaggio delle insurrezioni soffocate, delle Pantere
nere sterminate.
Non fu così,
non perché Obama non fosse all’altezza: magari non lo era, ma il punto era un
altro; non perché le attese e le speranze fossero esagerate, certamente lo
erano[5], ma non
furono disattese solo per una pur reale codardia. Ma perché la lunga durata,
come la chiamava Fernand Braudel, non fa sconti. Non è perché Benazir Bhutto è
stata per cinque anni primo ministro del Pakistan che in quel paese è cambiato
il rapporto tra uomini e donne e che è stata spazzata via una millenaria
tirannia maschile.
Così
l’elezione di Obama non ha alleviato la vita degli afroamericani statunitensi.
In parte perché Obama è (solo un po’) nero (mamma di origine irlandese), ma non
è un “vero” afroamericano: nessuno dei suoi antenati è mai stato schiavo negli
Usa, ed è questo a costituire lo spartiacque nella società americana. Ma
soprattutto perché, con un effetto boomerang, la sua elezione ha esacerbato il
persistente razzismo latente, che prima veniva rimosso, taciuto e negato. Come
per la struttura castale indiana, così per la struttura razziale statunitense:
sia in India che negli Usa tutti ti ripetono – mentendoti e mentendosi senza
neanche rendersene conto – “era un problema del passato, ma ora è risolto”.
La
presidenza di Obama ha per così dire sdoganato il razzismo: se accusato,
qualunque razzista poteva risponderti: “Ma che razzisti, abbiamo persino eletto
un presidente nero!”; proprio come un maschio pakistano poteva risponderti
“Abbiamo persino eletto una donna primo ministro”, subito dopo aver picchiato
la propria moglie.
Tanto è vero
che con la presidenza Obama le violenze della polizia nei confronti dei neri
sono aumentate: a tutt’oggi la probabilità che negli Stati uniti uomini e
ragazzi neri siano uccisi dalla polizia è due volte e mezza più alta che per gli
uomini e i ragazzi bianchi.[6] Le
uccisioni di neri da parte della polizia contano per circa un quarto (25%) del
totale mentre i neri costituiscono solo il 12,% della popolazione Usa. C’è
stata una recrudescenza di violenze razziste da parte dei civili. Senza questo
rigurgito di razzismo l’elezione di Donald Trump resterebbe incomprensibile.
E se 25 anni
fa potevo cominciare il capitolo sulla scuola di economia dei Chicago Boys
ricordando il fulminante incipit di un editoriale pubblicato nel 1991 dal
“Washington Post”: “La guerra fredda è finita e l’ha vinta l’Università di
Chicago” (vedi supra p. 388), ora i Chicago Boys fanno ben
altro: dominano il mondo piegandolo a tal punto che tutte le sinistre
occidentali sono state convertite al verbo neoliberista, e che sì è totalmente
realizzata la profezia/minaccia di Margaret Thatcher There is No
Alternative (“Non c’è alternativa” al capitalismo finanziario), a tal
punto che, come scriveva Mark Fisher, “È più facile pensare la fine del mondo
che la fine del capitalismo”.[7]
Perciò, se
il paesaggio architettonico si è modificato in questi decenni, invece il
paesaggio umano di Chicago è rimasto notevolmente stabile e le tendenze
socioeconomiche hanno proseguito imperterrite sulla traiettoria degli ultimi
180 anni, portandola fino alle sue estreme conseguenze.
È la
traiettoria del capitalismo, di come è cresciuto, come si è realizzato, come ha
imposto le sue regole in una città dove ha potuto esprimersi senza i vincoli
esterni che lo limitavano e lo alteravano, senza lo statalismo di Parigi, senza
l’aristocrazia fondiaria e coloniale di Londra. Qui abbiamo potuto vedere la
sua azione nella sua forma più pura.
Franco
Moretti dice che il genere narrativo per eccellenza adottato dalla borghesia
occidentale è stato il “romanzo di formazione”. Ecco, per me Chicago è stato,
ed è il personaggio narrativo che mi ha reso possibile raccontare il “romanzo
di formazione del moderno”. Attraverso le peripezie, le avventure, le
conquiste, le tragedie del personaggio Chicago è possibile leggere in filigrana
la struttura del moderno.
I romanzi di
formazione finiscono in genere quando i loro eroi diventano adulti, salutano la
giovinezza (in senso biologico o in senso sociale). Anche questo romanzo di
formazione si conclude perciò quando Chicago è diventata adulta: certo
continuerà a vivere, ma “l’archeologia del futuro” che abbiamo raccontato è una
storia conclusa.
Sono tante
le città che sono sopravvissute alla propria epopea: oggi Alessandria d’Egitto
ha 5,2 milioni di abitanti, più del triplo di quanto abbia mai avuto in periodo
ellenistico: ma allora era il centro della cultura mondiale (di questa parte di
mondo), oggi è un agglomerato come tanti altri; ad Atene continuiamo ad andarci
per tutto quello che è avvenuto prima di essere stata conquistata da Alessandro
il Macedone nel IV secolo a. C; nella storia del genere umano Roma è importante
per quel che vi è avvenuto fino all’età barocca, non oltre; Parigi ha smesso
definitivamente di essere il centro della cultura mondiale alla fine degli anni
’70 del secolo scorso ed è molto dubbio che mai possa ricoprire di nuovo questo
ruolo.
* * *
Nella sua
prosaica piattezza, Aurora è il posto giusto per salutare questo romanzo di
formazione, perché qui giunge a compimento quel processo di smaterializzazione
del capitale che era cominciato nel 1848 quando un gruppo di mercanti di buoi e
granaglie si erano riuniti per costituire il Chicago Board of Trade, che
sarebbe diventato l’antesignano di tutti i mercati di futures a
venire. Lì, in una città di legno, tra impantanate strade di terra battuta
percorse da mandrie e carriaggi, costoro decisero che avrebbero scambiato non
più soldi contro mucche o contro sacchi di grano, ma soldi contro mucche ancora
da nascere e sacchi di grano che ancora doveva germogliare. E lo facevano per
premunirsi, gli acquirenti contro future carestie che avrebbero fatto schizzare
i prezzi alle stelle, e i venditori contro futuri raccolti abbondanti che
avrebbero deprezzato i corsi. Erano nati i futures. Non a caso per
analizzarne la logica, ho dovuto fare ricorso alla filosofia medioevale, al
tema degli universali, perché con i futures i mercanti del
Chicago Board of Trade si scambiavano non più merci, ma concetti di
merci.
È
assolutamente improbabile che quei rudi pionieri midwestern potessero
prevedere la pazzesca dinamica che quella loro iniziativa avrebbe innescato:
avevano dato il via alla finanziarizzazione del mondo! Ben presto si
ebbero futures di metalli, di legni, di tutte le materie
prime, e poi futures sui cambi delle monete. Il valore del future è
una scommessa sul corso che sarà attribuito a una certa cosa fra un certo
tempo. E si può scommettere su tutto. Si può avere un future sui
mutui e sui debiti, e poi sull’assicurazione che copre mutui o debiti. Ma
perché non avere un future su questi futures? Ecco
perché si chiamano derivati: proprio come in matematica esistono
derivate prime, seconde, terze, così esistono derivati di ordine crescente: in
realtà il paragone più calzante sono le potenze: futures, futures dei futures,
cioè futures al quadrato, futures dei futures dei futures,
e cioè futures al cubo). Cioè concetti, concetti di concetti,
concetti di…
Oggi nessuno
che operi sui derivati si aspetta di vedersi consegnare a casa le materie prime
di cui ha comprato i titoli futuri, tutto avviene a un livello di astrazione,
di incorporeità, di delocalizzazione che è bene espresso dalla metafora che i
fornitori hanno dato ai loro servizi di stockaggio dati: il capitalismo
finanziario agisce come un cloud, come una nuvola da cui piovono
dall’alto quelle valutazioni che determinano le nostre vite. Come gli dei greci
agivano da cime nascoste dalle nuvole, così le agenzie di rating danno voti che
decidono se ognuno di noi potrà godere di pensione, potrà farsi curare, potrà
mandare i figli a scuola, potrà andare in vacanza.
Questo
processo di smaterializzazione, di astrazione sempre crescente era cominciato a
Chicago e si conclude oggi nell’automatismo degli algoritmi che governano l’high
frequency trading. I primi mercanti della Windy city sarebbero rimasti di
stucco a visitare il grande hangar di computers ad Aurora e a sapere che
avevano messo in moto tutto questo.
Il bello
della storia è che riserva sempre sorprese, e lo farà anche quando queste
pagine saranno ingiallite: perché nessuno di noi vedrà mai la fine del film, di
questo film straordinario che è la storia del nostro pianeta e di quei feroci,
indomiti bipedi spellicciati che siamo noi umani.
NOTE
[1] I server di Aurora necessitano di 184 megawatt di elettricità,
l’equivalente, secondo Alexandre Laumonier, del consumo quotidiano di 100.00
abitazioni domestiche: cfr. 6/5, Zones Sensibles, Bruxelles 2013,
trad. it. Nero, Roma 2018, p. 134.
[2] Traders’ furious land war erupts outside CME’s data center,
“Chicago Business”, 12 maggio 2017, https://www.chicagobusiness.com/article/20170512/NEWS01/170519929/traders-furious-land-war-erupts-outside-cme-s-data-center.
[3] Citato da Reinhart Koselleck in Accelerazione e
secolarizzazione, Istituto Suor Orsola Benincasa, Edizioni Sciengifiche
Italiane, Napoli 1989, p. 10.
[4] Michail Bachtin, Estetica e romanzo (1975), trad.
it. Einaudi (1979), Torino 200, pp. 231-2. Il testo da cui è presa la
citazione, “Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo. Saggi di poetica
storica”, risale al 1937-8.
[5] Basti pensare al premio Nobel per la Pace che fu assegnato a Obama
appena eletto, ancora prima che avesse avuto modo di compiere un singolo gesto
di politica internazionale: un premio preventivo!
[6] Getting killed by police is a leading cause of death for young
black men in America, “Los Angeles Times”, 16 agosto 2019.
[7] Mark Fisher, Capitalist Realism. Is There No Alternative?,
O Books, Winchester (Uk), Washington (Usa), p. 1.
Tutti
sperimentiamo continuamente che l'introduzione di nuove tecnologie cambia la
vita di ogni giorno, tuttavia non ci rendiamo conto di quanto questo fenomeno,
se assecondato dalla ricerca del profitto, possa sconvolgere nel giro di un
tempo brevissimo la vita di enormi masse di persone e di come per esempio a
partire dal secolo scorso abbia determinato lo sviluppo dello stile di vita
americano. Leggendo questo libro scopriamo come invenzioni e innovazioni
tecnologiche apparentemente minime siano state determinanti per la direzione
presa dalla società e ci stupiamo della rapidità dei loro effetti su un gran
numero di persone.
Prima del
1830 i chiodi erano fabbricati a mano ed erano molto costosi. Le case venivano
fabbricate da carpentieri specializzati, capaci di fissare pesanti assi con
incastri di precisione. In quell'anno entrarono in commercio chiodi fabbricati
a macchina a basso prezzo. Molto velocemente si scoprì che case molto
resistenti, anche a due piani, potevano essere costruite inchiodando tra di
loro sottili travicelli dallo spessore standardizzato (5x10 cm.) senza
ricorrere a personale specializzato. Il loro costo era molto basso e la
manodopera per costruire una casa era più di dieci volte inferiore a quella
necessaria con tecniche tradizionali. Già dal 1846 furono messi in vendita
progetti di case costruite con questa tecnica e a partire dal 1860 era
addirittura possibile acquistare su un catalogo case complete, che venivano
spedite dalle segherie di Chicago, con accluse le istruzioni per essere
montate. La veloce penetrazione nel West, con le città che sorgevano a vista
d'occhio, è stata resa possibile dalla disponibilità di queste case.
È
affascinante scoprire lo sviluppo del commercio della carne nella seconda metà
dell'Ottocento: i maiali, ("la forma più compatta in cui il raccolto del
mais può essere trasportato al mercato") arrivavano a Chicago da tutti gli
Stati Uniti, per essere sgozzati in enormi mattatoi e per essere
successivamente riinviati alla loro destinazione finale. I mattatoi di Chicago
erano allora forse le industrie più avanzate dal punto di vista tecnologico:
qui viene inventata, alla fine del secolo scorso, la catena di smontaggio (disassembly
line) diretta progenitrice della catena di montaggio (assembly line)
delle fabbriche automobilistiche.
La storia
degli uomini si intreccia con quella dello sviluppo delle tecniche anche nel
caso della refrigerazione necessaria al trasporto della carne. All'inizio il
ghiaccio naturale veniva raccolto d'inverno nei grandi laghi, trasportato al
sud e immagazzinato in enormi depositi sotterranei (uno dei più grandi poteva
contenere 175.000 tonnellate di ghiaccio). Questo sistema fu in auge per circa una
ventina d'anni, ma con l'invenzione dei moderni frigoriferi ad ammoniaca
compressa divenne improvvisamente obsoleto: le città, le industrie, i mestieri
nati intorno all'industria del trasporto e dell'immagazzinamento del ghiaccio
svanirono nel nulla nel giro di pochi anni e gli operai che si erano
specializzati in questo mestiere dovettero bruscamente riciclarsi.
Gli
avvenimenti materiali esplorati nei loro aspetti meno ovvii e nelle reciproche
connessioni esprimono una loro complessa logica che coinvolge il modo di
comportarsi e di pensare della gente. In questa prospettiva la comprensione
delle tecnologie disponibili gioca un ruolo cruciale.
Questo libro
così attento alle inaspettate conseguenze delle invenzioni non è quindi una
storia della tecnologica ma è una ricerca interdisciplinare insieme storica,
sociologica ed economica che ha in più il sapore dell'esperienza vissuta sul
campo da parte di un europeo attratto da questa straordinaria metropoli
americana.
Marco
d'Eramo parte dalla Chicago di adesso e attraverso lo studio del suo passato
cerca di capirne il presente e di intravedere il suo e il nostro futuro. Nel
far questo l'autore si immerge il più possibile nei fatti, nelle cifre delle
statistiche che ad un occhio capace di stupirsi rivelano realtà insospettate
(chi avrebbe mai pensato che a un operaio di una fabbrica automobilistica nel
1925 per acquistare un macchina servivano tre mesi di salario, contro i cinque
necessari oggi?), che distruggono molti dei nostri pregiudizi.
L'analisi
dei particolari ricompone così il quadro generale. Dai mille dettagli
imprevedibili salta fuori una visione interessantissima e sorprendente dello
sviluppo americano. Vediamo concretamente all'opera la logica del profitto e
del mercato, che sfruttando al massimo le più recenti invenzioni, plasma
insieme lo sviluppo economico, la planimetria delle città e la vita degli
individui. Entriamo nei motivi profondi alla base degli irrisolti problemi,
politici, razziali ed economici, che attenagliano la società americana e che ci
riguardano direttamente, perché la nostra società tende ad avvicinarsi sempre
di più al modo di vita americano e Chicago è in parte anche il nostro futuro,
un futuro che è già cominciato.
Il libro è
scritto con un grande talento narrativo: le date, le percentuali, le cifre non
affaticano il lettore ma lo affascinano per il significato inatteso che riesce
a scorgerci. Un libro che si legge scorrevolmente come un romanzo, restando
nello stesso tempo scientifico nel metodo, a cominciare dalla
rara abitudine di presentare al lettore i documenti originali in modo che possa
accertarsi direttamente della fondatezza delle conclusioni dell'autore.
Giorgio
Parisi
Dal maiale al capitale - Nicola
Gaiarin recensione
a: Feltrinelli,
Milano 1999 |
In un libro affascinante, che spiega come sia ancora
possibile mostrarsi critici nei confronti degli eccessi del capitalismo e
rimanere tuttavia intelligenti, Marco d’Eramo ha indagato e portato alla luce
alcuni paradossi della società contemporanea. Il Maiale il grattacielo.
Chicago: una storia del nostro futuro - questo il titolo del libro,
pubblicato da Feltrinelli nel 1995 - si avventura in un ambizioso e stimolante
viaggio attraverso i paradossi di una città emblematica. Chicago, la patria di
McDonalds e del Primo Maggio, della sociologia urbana e degli anarchici di
inizio novecento, viene sezionata dall’occhio attento di uno studioso che
inverte i presupposti abituali delle letture antropologiche. In questo caso il
viaggiatore, provenendo dal vecchio mondo, accetta la sfida dell’altrove assumendo
lo sguardo paradossale del “meno civilizzato”. L’osservatore veste i panni,
almeno in una logica iperliberista, del “primitivo”: è l’abitante di una terra
antiquata e arretrata che tenta di rivolgere la lente d’ingrandimento verso il
paese del grande sogno del capitale, gli Stati Uniti. D’Eramo legge la storia
di Chicago andando in profondità, rivelando la stratigrafia, le faglie,
gli spostamenti lenti, le emergenze improvvise che hanno consentito a una
grande città americana di diventare quello che è. Cerca di raccontare una
storia del nostro futuro, mostrando una delle possibili direzioni di sviluppo
che si aprono di fronte alle città contemporanee. Lo fa con dati, grafici,
numeri. Si sforza di essere il più possibile oggettivo. D’Eramo è un fisico di
formazione, e il suo gusto per la precisione riesce a ridurre al minimo
l’interferenza dei pregiudizi dello scienziato riguardo all’oggetto osservato.
Ma, si potrebbe dire, proprio perché è un fisico, D’Eramo assume
l’interferenza, l’influenza dello sguardo dell’osservatore come dato primario.
La storia del nostro futuro immaginata attraverso l’incontro con Chicago è
anche “solo una storia”, un punto di vista possibile, una forzatura. Un modo di
anticipare il futuro sapendo che estraendolo, come il Dio di Leibniz, dal
palazzo dei possibili, si ottiene l’effetto contrario. Descrivere e raccontare
sono anche modi per esorcizzare e rendere impossibile quello che si descrive.
D’Eramo osserva Chicago dall’interno, dopo averci
vissuto per più di un anno e aver attraversato in tutte le direzioni lo spazio
fisico della metropoli. Il suo non è certo uno sguardo ingenuo, non finge di
non sapere e non cancella il proprio punto di vista parziale. Da sociologo,
oltre che da fisico, D’Eramo assume il peso e la responsabilità di uno sguardo
localizzato, in situazione, carico di una memoria personale e collettiva molto
forte. Dietro l’osservatore forse c’è Marx, ma di sicuro c’è la consapevolezza
di una crisi che mina alla base tanto il marxismo quanto ogni forma semplificata
di liberismo. Il problema non è tanto quello di individuare una logica
universale o globale: a d’Eramo non interessa l’Impero. La macchina imperiale è
troppo grossolana e imprecisa per render conto della complessità del mondo
reale. Di fronte alla polverizzazione delle esperienze che caratterizza ogni
singola metropoli, le chiavi di lettura si devono moltiplicare senza convergere
necessariamente in un quadro teorico unificato. Forse occorre ripartire
dall’analisi dettagliata, dalle mille variabili che rendono difficile decifrare
anche solo la storia di un palazzo o di un’azienda. Ben vengano le analisi
imperiali, ma forse servono solo per rispondere a un bisogno rimosso di teoria.
D’Eramo assume fin dall’inizio la profondità di uno sguardo riflessivo, e perciò
può permettersi di lasciare spazio alla ricchezza descrittiva. La storia di
Chicago è soprattutto l’intreccio di una miriade di storie eterogenee. Il
futuro non ha un solo vettore, le frecce si scontrano, cambiano direzione,
invertono senso di marcia.
Anche rivolgendo lo sguardo al passato, in ogni caso,
le cose non migliorano granché. La storia di una metropoli non è un percorso
ininterrotto e rettilineo, è piuttosto una sovrapposizione di piani
frammentati. Le linee evolutive sono discontinue, frattali, piene di
biforcazioni. Dove ci si attende una connessione si trova una faglia, dove le
distanze sono più evidenti si verificano sorprendenti risonanze. Sono queste le
piste, le tracce sepolte seguite da d’Eramo. Le stesse tracce che spiegano
perché negli States ci siano così pochi cognomi di origine tedesca (la risposta
si nasconde tra le pieghe della feroce persecuzione antitedesca scatenata dallo
scoppio della prima guerra mondiale) o perché la scuola economica di Chicago
abbia fatto incetta di premi nobel (e di posti nell’amministrazione Reagan). Ma
il viaggio nella fantascienza contemporanea di Chicago è anche un viaggio
attraverso gli splendori e le miserie del capitalismo. La natura “ferroviaria”
del capitale, che ha portato a immense deforestazioni e a devastazioni di
lunghissima durata (dallo sterminio dei bisonti alle deportazioni degli
indiani) si traduce, nel giro di due secoli, in un’avventura archeologica. Il
traffico su rotaia, con le sue linee parallele che coprivano gli USA, lascia il
posto alle rotte decentrate del capitalismo automobilistico, più fluido e
imprevedibile. Eppure anche l’epopea del vagone ferroviario conteneva i germi
di un intrico caotico di flussi contrastanti: le difficoltà di fissare orari
unificati, gli scontri tra linee e società private concorrenti, gli incidenti
ferroviari causati dalla corsa al ribasso nei prezzi e dalla binarizzazione
selvaggia del paese (nel 1909 negli Stati Uniti morivano, in incidenti
ferroviari, 19 persone su un milione, mentre in Austria la percentuale era
venti volte minore, attorno a 0,99 per milione) contribuivano a gettare le basi
per uno sviluppo straordinario ma pagato a prezzo esorbitante.
È in una di queste avventure archeologiche che si scopre la
ragione del titolo. Il maiale è infatti il fondamento dell’economia di Chicago.
Non un maiale semplicemente macellato, ma un’entità definita in modo preciso e
rigoroso, una quantità matematizzabile, un oggetto sezionato con precisione
chirurgica. Sulla matematica del maiale e sulla razionalità della sua
lavorazione è nata la ricchezza della città. Il meatpacking, localizzato
soprattutto nella zona Sud di Chicago, è l’emblema del maiale industrializzato:
la carne confezionata, conservata, distribuita, spedita in giro per gli States
è il simbolo della forza economica di Chicagoland. E proprio nella Windy Town
si compie la sublimazione del sezionamento scientifico del suino. L’aspetto
aereo e astratto della carne impacchettata è trova la sua realizzazione
nei futures, beni ideali, forward contracts che
permettono di vendere oggi raccolti o derrate future, scommettendo sull’aumento
o la diminuzione dei prezzi, ma portando all’estreme conseguenze la possibilità
di fissare un’equivalenza della merce. Sul transito dei futures prospera
la Chicago del duemila, erede immateriale della Packingtown ottocentesca. Da
qui nasce l’esigenza di determinare standard perfettamente misurabili per
derrate alimentari o per carichi di legname. Fissare standard significa
stabilire discontinuità, individuare equivalenze, creare codici comuni. In
questo modo, però, si gettano le basi per quella che è una delle
caratteristiche più deleterie della spinta globalizzante, vale a dire la
cancellazione delle differenze tra i prodotti. Stabilire categorie di
equivalenza significa escludere di fatto dal mercato tutto quello che non
rientra in queste categorie. Le mele non conformi a standard di misura vengono
gettate, tutto ciò che si allontana dall’ideale e dalle categorie di giudizio
non può rientrare nel circolo di equivalenze del mercato, e quindi non conta, è
deleterio.
A rendere interessante il libro per il dibattito
attuale è però un altro elemento. Nella sua acuta lettura degli eccessi
capitalisti d’Eramo individua uno dei tratti distintivi di quello che si
potrebbe chiamare integralismo del capitale. L’autore non cerca e non offre
soluzioni facili: si sforza piuttosto di lavorare sulle distinzioni,
evidenziando la dimensione microstorica e microsociologica che caratterizza i
singoli casi analizzati. E tuttavia emerge con forza la natura paradossale
delle rivendicazioni totalizzanti della logica del capitale. Nel momento stesso
in cui denuncia, a ragione, la natura ideologica dei presupposti marxisti, il
capitalismo deregulated compie una petizione di principio. Rivolgendo contro di
esso le obiezioni di un pensatore “amico” come Karl Popper, si potrebbe
constatare l’impossibilità di falsificare la logica del capitale. La presunta
scientificità capitalista si infrange contro una fiducia cieca nel suo destino
storico. Ma la credenza nel potere assoluto dell’individuo e nelle possibilità
di autoregolazione del capitale porta a contraccolpi di dogmatismo
sconcertanti. Le complicità che legano la logica del socialismo reale a quella
del capitalismo presente e futuro è sconcertante: “Se il miracolo non avviene è
perché non si è pregato abbastanza; se il comunismo non si è realizzato è
perché c’era poco comunismo. Se nell’economia di mercato imperversano miserie e
abomini, non è perché c’è qualcosa di sbagliato, ma perché non c’è abbastanza
mercato, perché troppi ostacoli si contrappongono alla perfetta realizzazione
della competizione, pura, trasparente e immacolata. La ricetta di ogni
integralismo è "Encore un effort": il mercato funziona male,
dunque ancora più mercato” [1] . Il mercato
non può sbagliare, il suo radioso destino è già scritto, credere in esso è solo
questione di fede.
Ma l’effetto perverso di questa epifania del sacro
postmoderno è ben più evidente in una altro contesto: “Ora l’America, in quanto
"terra promessa del capitalismo”, … ha portato all’estremo limite
l’individualismo e l’eguaglianza formale. Ma le stesse necessità del capitale
hanno riprodotto e nutrito un sistema castale, una frammentazione in
sottosistemi olistici” [2] . Sottosistemi
in cui la logica immunitaria e aggressiva della comunità separata porta alla
nascita di divisioni etniche, sottogruppi di censo e di razza, città private
difese da guardie armate, paradisi per anziani dove i pensionati vivono su
roulotte e case mobili dopo aver pagato mutui per tutta la vita. A colpire i
difensori del capitalismo avanzato dovrebbe essere soprattutto la natura
semireligiosa di queste forme di appartenenza. Certamente non spetta allo stato
il compito di dare significato e di offrire valori ai singoli cittadini. Il
vuoto di valori non si può colmare con un intervento dall’alto. Ma la vertigine
del capitale sembra dare origine a movimenti opposti: un nuovo fondamentalismo
di casta, non opposto ma strettamente legato alla spinta del capitalismo
stesso, nasce dalla progressiva realizzazione della terra promessa. Perciò,
continua d’Eramo, “La logica del capitale appare in questo senso cannibalica,
poiché, in base alle sue necessità, essa incrina e distrugge alcuni valori
cardine che stanno alla base dell’ideologia capitalista, quelli che
costituivano lo “spirito del capitalismo” di cui parlava Max Weber” [3] .
Sono queste contraddizioni, che certo non ricadono interamente sulle spalle del
mercato, a dar vita alla progressiva balcanizzazione di alcune aree del
pianeta. L’alleanza tra globalizzazione, rete dei saperi, circolazione
dell’informazione, rinascita delle rivendicazioni particolariste, non è esterna
alla logica del capitalismo (come, ingenuamente, sembrano credere i No Global,
continuando a ragionare in termini di contrapposizioni frontali), ma ne fa
pienamente parte [4] .
Molte delle argomentazioni proposte da d’Eramo
permettono anche una lettura critica delle rivendicazioni “libertarie” portate
avanti in questi mesi dal popolo di Seattle. Le moltitudini antimperialiste,
bloccate su una posizione di demonizzazione del capitale, dimostrano di
attribuire al “nemico” lo stesso alone sovrannaturale intravisto dai suoi
sostenitori. In questo senso, uno dei capitoli più interessanti del Maiale
e il grattacielo, riguarda la grottesca commistione di rivendicazioni
sociali e rivalse religiose che contraddistinsero il movimento dei Black
Muslims. Un personaggio come Malcom X, legato a deliranti e improbabili
teorizzazioni sulla natura maligna dell’uomo bianco e sul carattere magico del
potere che ha causato la sottomissione del popolo nero ai diavoli bianchi,
risulta perfettamente integrato nel contesto di un sistema di vita come quello
americano, in cui prosperano - accanto alle punte più avanzate della ricerca e
della tecnologia - antidarwinismo, sette cristiane, predicatori televisivi e un
sospetto innato nei confronti delle applicazioni della scienza. La spinta
rivoluzionaria incarnata dall’icona Malcom X sembra andare a braccetto con la
fede cieca nel mercato o con l’utopia del presunto potere di autoregolazione
del capitale. Non siamo poi molto distanti dal miscuglio di new age,
radicalismo politico, rivendicazioni legittime, senso di rivalsa e ecumenismo
cattolico che caratterizza alcune frange del movimento No global (uso il
termine in modo volutamente vago e impreciso). L’esplosione dei valori e la
disgregazione del senso di appartenenza danno luogo a forme di comunità
svuotate di ogni fondamento reale. Mostrando lo sviluppo di una pericolosa paranoia
identitaria nel cuore del “razionalismo” del mercato, d’Eramo mette in guardia
anche contro le risposte troppo semplicistiche al problema. È sulle
contraddittorie alleanze tra posizioni opposte che vale la pena di riflettere,
senza necessariamente prendere parte per uno schieramento o per l’altro.
Altrimenti si corre il rischio di perpetuare la lettura della scuola di
Chicago, che faceva del tessuto sociale uno spazio fisico, un territorio
suddiviso in mondi lontani in perenne conflitto tra loro (e la società
multietnica americana, sotto molti aspetti un modello da seguire, è anche il
luogo in cui comunità sradicate inventano nuovi steccati e perpetuano antichi
conflitti). L’orizzonte di senso di ogni forma di darwinismo urbano è uno
strano ibrido tra positivismo e superstizione: fiducia cieca nel progresso e
necessità di definire la propria identità rispetto ad un nemico sempre più
vicino e minaccioso.
Le vie d’uscita o le soluzioni possibili di fronte a
una simile impasse teorica e pratica non si trovano operando divisioni nette o
giocando con le logiche di parte, ma mettendo a punto strategie di riflessione
e azione capaci di assumere la responsabilità dei paradossi della situazione
attuale. Tra le altre cose, Il maiale e il grattacielo è anche
un tentativo di rileggere la dimensione sociale come luogo di relazione e non
come campo di battaglia tra schieramenti opposti. Solo la piena comprensione
della natura riduzionistica e contraddittoria delle categorie di riflessione
tradizionali (destra/sinistra; globale/locale; capitalismo/marxismo, ecc.)
potrà permettere di elaborare una nuova logica, capace di riflettere in modo
realmente efficace sulla natura contraddittoria e stratificata del nostro
tempo. È quello che ha provato a fare d’Eramo, cercando di mostrare quella che
nella quarta di copertina viene definita come la “straordinaria forza
rivoluzionaria, sovversiva, del capitalismo puro”.
[1] Marco d’Eramo, Il maiale e il grattacielo,
Feltrinelli, Milano 1999 p.333.
[2] Cit. p. 268.
[3] Ibid.
[4] Su questi aspetti paradossali d’Eramo si è soffermato nel
suo libro successivo, Lo sciamano in elicottero.Per una storia del
presente, Feltrinelli, Milano 1999.
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