Non fu una
folla, in Italia, a dire il vero, ad applaudire la pubblicazione del Dottor
Zivago, romanzo ad ogni modo ‘epocale’ di uno dei poeti più alti di ogni
tempo, Boris Pasternak. Lo testimonia il ciddì dedicato al Caso
Pasternak in allegato alla nuova traduzione del capolavoro – in
edizione special –, ad
opera di Serena Prina, pubblicato
da Feltrinelli nel 2007. Al di là dell’entusiasmo di Giangiacomo
Feltrinelli, che lo pubblicò in ‘prima’ mondiale nel 1957 (“Zivago sarà sempre
accanto a me… per aiutarmi a ritrovare i valori semplici e profondi della
vita”), in effetti, il romanzo ‘ghiacciò’ parecchi intellettuali
nostrani, di provata fede comunista.
*
In un
documento russo del 24 agosto 1956, pubblicato da Paolo Mancosu in Zivago
nella tempesta (Feltrinelli, 2015), l’opera di Pasternak è
definita “contraddistinta dal disinteresse per la realtà sovietica e
dall’apologia dell’individualismo”. In particolare, il Dotto
Zivago è detto “opera inadatta alla pubblicazione, perché sbilanciata
sul piano ideologico”. D’altronde, Pasternak è accusato di aver “espresso
posizioni antisovietiche… a colloquio con alcuni collaboratori
dell’ambasciata”. Di fatto, Pasternak è l’emblema del poeta al di sopra della
Storia, della poesia concentrata su se stessa, aliena ai patti col potere.
*
Sessant’anni
fa, nell’ottobre del 1958, Boris
Pasternak ottiene il Premio Nobel per la letteratura. Come si sa, non andrà a
ritirare il premio – altrimenti, non avrebbe potuto far rientro in Urss –,
preferendo ‘resistere’ nella sua patria, la Russia. Come si sa, morirà poco più
di un anno e mezzo dopo. Pasternak, in conseguenza alla pubblicazione in Italia
del Dottor Zivago e al Premio Nobel, è espulso dall’Unione
degli scrittori, accusato di “degradazione politica e morale” e di “tradimento
nei confronti del popolo sovietico”.
*
Pasternak
risponde da par suo alle accuse, da poeta. “Mi potete fucilare o deportare,
potete fare quello che volete. Vi perdono in anticipo”.
*
In Francia
il più alto traduttore di Pasternak, devoto alla poesia del grande poeta, si
chiama Armand
Robin.
Eccentrico, poliglotta – ha tradotto anche Majakovskij e Blok, Ungaretti e
Pessoa, Goethe e Lope de Vega, parlava venti lingue e altrettanti dialetti – di
mestiere Robin ‘ascolta le voci’, cioè registra quanto le emittenti
radiofoniche straniere divulgano nell’etere. Robin, fedele a se stesso, amico
di Dreu La Rochelle, prima ha lavorato per i ducetti di Vichy, poi ha passato
le informazioni ai ‘partigiani’, poi s’è fatto anarchico. Insomma: stava sulle
palle a destra e a sinistra – fu il primo, nei primi anni Trenta, quando gli
intellettuali parigini erano ubriachi di ideologia sovietica, a svelare, nero
su bianco, gli orrori dell’impero comunista. Scrisse libri mirabilmente
inopportuni e belli, recuperati, olè, dall’editore di pregio Giometti &
Antonello sotto il titolo L’indesiderabile. “La falsa
parola” e altri scritti. Una vera primizia. Robin morì, in circostanze
poco chiare, trasbordato in un ufficio di polizia dopo una rissa, un anno dopo
il suo idolo, Pasternak. Nel 1958, in seguito alla notizia del Nobel, fu lui a
scrivere il pensiero più alto, più giusto, più potente, intorno all’opera e
all’etica del grande Boris. Il testo fa parte della raccolta appena pubblicata,
ed è ricalcato per gentile concessione dell’editore. Mi pare un testo
importante per chiarire la dottrina del poeta nei riguardi dei potentati, dei
poteri, dei poterucoli. (d.b.)
**
Ora che la
tempesta attorno al Dottor Zivago sembra essersi un po’
calmata, è possibile parlare di Boris Pasternak con la sincerità che la sua
persona e la sua opera evocano in risonanza.
Per quanto
intempestivi possano essere stati, i trambusti avvenuti da una parte e
dall’altra della «cortina di ferro» si dimostrano di una qualche utilità: in
Occidente Boris Pasternak era conosciuto soltanto da un esiguo numero di amanti
della poesia, ed eccolo noto all’intero pubblico mondiale grazie a un
romanzo. Sebbene la cosa possa apparire insoddisfacente, di fatto una
buona parte dell’opinione internazionale ora è pronta a familiarizzare con
il grande poeta solitario, colui che nell’immenso impero russo detiene un
segreto che da oltre due decadi gli permette di tenere testa a un
sistema il cui principio primario è di non lasciare nessun individuo alla
propria solitudine.
Il
linguaggio politico oscura tutto, e soprattutto si applica unicamente a cose
relative, diventando assurdo non appena si tratti di valori assoluti. Ora,
Boris Pasternak è «l’individuo in quanto tale assolutamente inscalfito dal
comunismo»; inutile aggiungere che per le stesse ragioni egli resta ugualmente
estraneo a tutti gli altri movimenti di massa organizzati in questo secolo da
ogni parte dell’universo.
Quella di
essere un individuo inscalfito e inscalfibile dal comunismo è stata una sua
precisa scelta. Non a
caso, nel 1934, al Congresso degli scrittori sovietici, in pieno periodo
staliniano, lo si vide salire sul palco con calma per fare un breve proclama
che spazzava via qualsiasi formula propagandistica: il primo dovere dello
scrittore in U.R.S.S. era di «restare se stesso».
Diventò
così, in mezzo a una gigantesca impresa totalitaria, una specie di diamante che
non si poteva graffiare. Non classificabile, non poteva nemmeno essere definito, se non in
negativo: «Non è un socialista realista, non è comunista, non è anticomunista,
etc., etc., etc.» Detto altrimenti, lui e il sistema comunista non si sono mai
incontrati. È riuscito, lui soltanto, a fare «pianeta a parte».
Poi fece
sempre capire a chi voleva saperlo che desiderava stare lì dove stava, così
com’era. «Non lascerò mai la Russia». Verso il 1949, lo stato d’Israele
(probabilmente d’accordo con il governo russo) gli propose di andare a
stabilirsi nel suo territorio; lui rispose di nuovo: «Non lascerò mai la
Russia». Adesso è tornato a ribadirlo.
Diversi
giornali occidentali hanno creduto che, scrivendo a Krusciov annunciandogli che
avrebbe rifiutato il Premio Nobel piuttosto che lasciare la Russia, Boris
Pasternak avesse abiurato: è vero esattamente il contrario; Pasternak,
inoltre, ha percepito perfettamente la vera trappola che i suoi nemici gli
stavano tendendo permettendogli di recarsi a Stoccolma in modo da sbarazzarsi
di lui; il suo intuito di poeta gli ha permesso di sventare questa
nuova congiura.
Si direbbe
che il suo individualismo abbia deciso di seppellire il comunismo sul posto.
Basti dire che l’innocente giuria del Premio Nobel, offrendogli degli appoggi
ufficiali fuori dalla Russia, indebolisse la sua posizione rispetto al regime
sovietico. Una simile resistenza nell’assoluto dell’individualismo è
difficilmente comprensibile al di fuori del mondo comunista. Il fatto è che da
questa parte della cortina di ferro non comprendiamo bene come il
«marxismo-leninismo», o almeno ciò che è diventato, si ispiri al luciferismo
della scienza e della tecnica e miri a sostituire la creazione naturale con una
nuova «creazione». Il principio è: l’uomo fornirà le prove materiali di come
sia capace di scatenare e organizzare una nuova Genesi, a condizione che si
lavori in massa.
Il vero
poeta, creatore per definizione, è la negazione vivente di un simile
meccanismo. Prima di tutto, egli è «l’uomo che crea da solo»… ed è anche quel
solitario mostro sociale che spinge l’insolenza (nel senso etimologico del
termine: «assenza naturale di abitudine») fino al punto di trarre la propria forza
da tutto ciò che appositamente viene fatto per emarginarlo; sì, la sua
impertinenza è tale da ribaltare continuamente le situazioni prefabbricate dal
comunismo. È probabile che, secondo il Comitato centrale del Partito comunista
dell’U.R.S.S., la più grande colpa di Dio, se per caso dovesse affrontare il
suo caso, suonerebbe come: «Ha voluto creare, e tutto da solo!» La solitudine è
la circostanza aggravante, quando per il poeta è invece la circostanza
salvifica. In mancanza di Dio, il P.C. prende i poeti e applica loro l’epiteto
di «elementi anti-sociali».
Tutto ciò è
noto in Occidente solo in forma astratta: Blok, Esenin, Majakovskij, Pasternak
(e altri di cui un giorno si potrà parlare) hanno vissuto questa situazione
tragicamente, conoscendo attraverso il dolore il vero volto del potere. Esenin e Majakovskij hanno
salvato la loro individualità attraverso l’atto più individualista che ci sia:
il suicidio. Queste anime grandi hanno commesso un pleonasma metafisico.
Boris
Pasternak ha scelto un’altra via: restare là, in tutti i sensi del termine,
lasciando intendere: «Io non sono come voi; voi non mi interessate. Ora fate di
me quello che volete». Ma non gli hanno fatto nulla, a parte quelle che vengono chiamate
«piccole miserie quotidiane»… Il vincitore è lui. […]
Boris
Pasternak ha appena rifiutato di barattare contro una serie di privilegi il
proprio destino di «elemento anti-sociale» nella società comunista. Nonostante
i pericoli e le meschine persecuzioni, deve sentirsi parecchio felice: ha fatto
un altro passo verso la sua sorte di uomo solo.
Se fosse
caduto nella trappola tesagli dai suoi nemici comunisti, in Occidente sarebbe
diventato un adulato «uomo di lettere». Restando lì dov’è, immutabile, egli
preserva quel non so cosa che nella Russia bolscevica dona alla poesia un
carattere quasi religioso, assolutamente «non letterario».
(«Gazette de Lausanne», 22 novembre 1958)
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