martedì 4 agosto 2020

IL GRANDE POETA SOLITARIO, QUESTA SPECIE DI DIAMANTE - Armand Robin




Non fu una folla, in Italia, a dire il vero, ad applaudire la pubblicazione del Dottor Zivago, romanzo ad ogni modo ‘epocale’ di uno dei poeti più alti di ogni tempo, Boris Pasternak. Lo testimonia il ciddì dedicato al Caso Pasternak in allegato alla nuova traduzione del capolavoro – in edizione special –, ad opera di Serena Prinapubblicato da Feltrinelli nel 2007. Al di là dell’entusiasmo di Giangiacomo Feltrinelli, che lo pubblicò in ‘prima’ mondiale nel 1957 (“Zivago sarà sempre accanto a me… per aiutarmi a ritrovare i valori semplici e profondi della vita”), in effetti, il romanzo ‘ghiacciò’ parecchi intellettuali nostrani, di provata fede comunista.
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In un documento russo del 24 agosto 1956, pubblicato da Paolo Mancosu in Zivago nella tempesta (Feltrinelli, 2015), l’opera di Pasternak è definita “contraddistinta dal disinteresse per la realtà sovietica e dall’apologia dell’individualismo”. In particolare, il Dotto Zivago è detto “opera inadatta alla pubblicazione, perché sbilanciata sul piano ideologico”. D’altronde, Pasternak è accusato di aver “espresso posizioni antisovietiche… a colloquio con alcuni collaboratori dell’ambasciata”. Di fatto, Pasternak è l’emblema del poeta al di sopra della Storia, della poesia concentrata su se stessa, aliena ai patti col potere.
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Sessant’anni fa, nell’ottobre del 1958, Boris Pasternak ottiene il Premio Nobel per la letteratura. Come si sa, non andrà a ritirare il premio – altrimenti, non avrebbe potuto far rientro in Urss –, preferendo ‘resistere’ nella sua patria, la Russia. Come si sa, morirà poco più di un anno e mezzo dopo. Pasternak, in conseguenza alla pubblicazione in Italia del Dottor Zivago e al Premio Nobel, è espulso dall’Unione degli scrittori, accusato di “degradazione politica e morale” e di “tradimento nei confronti del popolo sovietico”.
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Pasternak risponde da par suo alle accuse, da poeta. “Mi potete fucilare o deportare, potete fare quello che volete. Vi perdono in anticipo”.
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In Francia il più alto traduttore di Pasternak, devoto alla poesia del grande poeta, si chiama Armand Robin. Eccentrico, poliglotta – ha tradotto anche Majakovskij e Blok, Ungaretti e Pessoa, Goethe e Lope de Vega, parlava venti lingue e altrettanti dialetti – di mestiere Robin ‘ascolta le voci’, cioè registra quanto le emittenti radiofoniche straniere divulgano nell’etere. Robin, fedele a se stesso, amico di Dreu La Rochelle, prima ha lavorato per i ducetti di Vichy, poi ha passato le informazioni ai ‘partigiani’, poi s’è fatto anarchico. Insomma: stava sulle palle a destra e a sinistra – fu il primo, nei primi anni Trenta, quando gli intellettuali parigini erano ubriachi di ideologia sovietica, a svelare, nero su bianco, gli orrori dell’impero comunista. Scrisse libri mirabilmente inopportuni e belli, recuperati, olè, dall’editore di pregio Giometti & Antonello sotto il titolo L’indesiderabile. “La falsa parola” e altri scritti. Una vera primizia. Robin morì, in circostanze poco chiare, trasbordato in un ufficio di polizia dopo una rissa, un anno dopo il suo idolo, Pasternak. Nel 1958, in seguito alla notizia del Nobel, fu lui a scrivere il pensiero più alto, più giusto, più potente, intorno all’opera e all’etica del grande Boris. Il testo fa parte della raccolta appena pubblicata, ed è ricalcato per gentile concessione dell’editore. Mi pare un testo importante per chiarire la dottrina del poeta nei riguardi dei potentati, dei poteri, dei poterucoli. (d.b.)
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Ora che la tempesta attorno al Dottor Zivago sembra essersi un po’ calmata, è possibile parlare di Boris Pasternak con la sincerità che la sua persona e la sua opera evocano in risonanza.
Per quanto intempestivi possano essere stati, i trambusti avvenuti da una parte e dall’altra della «cortina di ferro» si dimostrano di una qualche utilità: in Occidente Boris Pasternak era conosciuto soltanto da un esiguo numero di amanti della poesia, ed eccolo noto all’intero pubblico mondiale grazie a un romanzo. Sebbene la cosa possa apparire insoddisfacente, di fatto una buona parte dell’opinione internazionale ora è pronta a familiarizzare con il grande poeta solitario, colui che nell’immenso impero russo detiene un segreto che da oltre due decadi gli permette di tenere testa a un sistema il cui principio primario è di non lasciare nessun individuo alla propria solitudine.
Il linguaggio politico oscura tutto, e soprattutto si applica unicamente a cose relative, diventando assurdo non appena si tratti di valori assoluti. Ora, Boris Pasternak è «l’individuo in quanto tale assolutamente inscalfito dal comunismo»; inutile aggiungere che per le stesse ragioni egli resta ugualmente estraneo a tutti gli altri movimenti di massa organizzati in questo secolo da ogni parte dell’universo.
Quella di essere un individuo inscalfito e inscalfibile dal comunismo è stata una sua precisa scelta. Non a caso, nel 1934, al Congresso degli scrittori sovietici, in pieno periodo staliniano, lo si vide salire sul palco con calma per fare un breve proclama che spazzava via qualsiasi formula propagandistica: il primo dovere dello scrittore in U.R.S.S. era di «restare se stesso».
Diventò così, in mezzo a una gigantesca impresa totalitaria, una specie di diamante che non si poteva graffiare. Non classificabile, non poteva nemmeno essere definito, se non in negativo: «Non è un socialista realista, non è comunista, non è anticomunista, etc., etc., etc.» Detto altrimenti, lui e il sistema comunista non si sono mai incontrati. È riuscito, lui soltanto, a fare «pianeta a parte».
Poi fece sempre capire a chi voleva saperlo che desiderava stare lì dove stava, così com’era. «Non lascerò mai la Russia». Verso il 1949, lo stato d’Israele (probabilmente d’accordo con il governo russo) gli propose di andare a stabilirsi nel suo territorio; lui rispose di nuovo: «Non lascerò mai la Russia». Adesso è tornato a ribadirlo.
Diversi giornali occidentali hanno creduto che, scrivendo a Krusciov annunciandogli che avrebbe rifiutato il Premio Nobel piuttosto che lasciare la Russia, Boris Pasternak avesse abiurato: è vero esattamente il contrario; Pasternak, inoltre, ha percepito perfettamente la vera trappola che i suoi nemici gli stavano tendendo permettendogli di recarsi a Stoccolma in modo da sbarazzarsi di lui; il suo intuito di poeta gli ha permesso di sventare questa nuova congiura.
Si direbbe che il suo individualismo abbia deciso di seppellire il comunismo sul posto. Basti dire che l’innocente giuria del Premio Nobel, offrendogli degli appoggi ufficiali fuori dalla Russia, indebolisse la sua posizione rispetto al regime sovietico. Una simile resistenza nell’assoluto dell’individualismo è difficilmente comprensibile al di fuori del mondo comunista. Il fatto è che da questa parte della cortina di ferro non comprendiamo bene come il «marxismo-leninismo», o almeno ciò che è diventato, si ispiri al luciferismo della scienza e della tecnica e miri a sostituire la creazione naturale con una nuova «creazione». Il principio è: l’uomo fornirà le prove materiali di come sia capace di scatenare e organizzare una nuova Genesi, a condizione che si lavori in massa.
Il vero poeta, creatore per definizione, è la negazione vivente di un simile meccanismo. Prima di tutto, egli è «l’uomo che crea da solo»… ed è anche quel solitario mostro sociale che spinge l’insolenza (nel senso etimologico del termine: «assenza naturale di abitudine») fino al punto di trarre la propria forza da tutto ciò che appositamente viene fatto per emarginarlo; sì, la sua impertinenza è tale da ribaltare continuamente le situazioni prefabbricate dal comunismo. È probabile che, secondo il Comitato centrale del Partito comunista dell’U.R.S.S., la più grande colpa di Dio, se per caso dovesse affrontare il suo caso, suonerebbe come: «Ha voluto creare, e tutto da solo!» La solitudine è la circostanza aggravante, quando per il poeta è invece la circostanza salvifica. In mancanza di Dio, il P.C. prende i poeti e applica loro l’epiteto di «elementi anti-sociali».
Tutto ciò è noto in Occidente solo in forma astratta: Blok, Esenin, Majakovskij, Pasternak (e altri di cui un giorno si potrà parlare) hanno vissuto questa situazione tragicamente, conoscendo attraverso il dolore il vero volto del potere. Esenin e Majakovskij hanno salvato la loro individualità attraverso l’atto più individualista che ci sia: il suicidio. Queste anime grandi hanno commesso un pleonasma metafisico.
Boris Pasternak ha scelto un’altra via: restare là, in tutti i sensi del termine, lasciando intendere: «Io non sono come voi; voi non mi interessate. Ora fate di me quello che volete». Ma non gli hanno fatto nulla, a parte quelle che vengono chiamate «piccole miserie quotidiane»… Il vincitore è lui. […]
Boris Pasternak ha appena rifiutato di barattare contro una serie di privilegi il proprio destino di «elemento anti-sociale» nella società comunista. Nonostante i pericoli e le meschine persecuzioni, deve sentirsi parecchio felice: ha fatto un altro passo verso la sua sorte di uomo solo.
Se fosse caduto nella trappola tesagli dai suoi nemici comunisti, in Occidente sarebbe diventato un adulato «uomo di lettere». Restando lì dov’è, immutabile, egli preserva quel non so cosa che nella Russia bolscevica dona alla poesia un carattere quasi religioso, assolutamente «non letterario».

 («Gazette de Lausanne», 22 novembre 1958)


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