L’antropologia culturale è oggi in
Sardegna uno spazio conoscitivo importante e riconosciuto. Lo è per una storia
illustre che ha circa 60 anni e si lega ai nomi di Alberto Mario Cirese e di
Ernesto De Martino. Due antropologi che hanno fatto dell’Università di Cagliari
un vero centro di studi e una fucina di idee e di allievi per più
generazioni. I contributi di Alberto Cirese agli studi sardi (e in
particolare allo studio strutturale della metrica dei canti) sono rimasti
fondamentali, così come la creazione dell’Atlante Demologico Sardo con il
monitoraggio di usi e tradizioni in moltissimi paesi della Sardegna. Ma uno
stabilizzarsi e sistematizzarsi di questi studi è venuto soprattutto dalla
generazione ulteriore, quella degli allievi. Da un lato Clara Gallini,
lombarda, allieva di De Martino, che ha insegnato a Cagliari fino al 1978,
dall’altro Enrica Delitala e Giulio Angioni, i primi antropologi e demologi
sardi, allievi di Cirese.
Una generazione che ora ricordiamo con
il senso di un debito e il dovere di un riconoscimento, perché nel 2014 è morta
Enrica Delitala (1934–2014) e all’inizio di questo 2017 sono morti Giulio
Angioni (1939–2017) e Clara Gallini (1930–2017). La loro assenza è anche una
ferita per le Università sarde in cui gli studi antropologici sono fortemente
indeboliti, ma la loro presenza ha dato una base all’antropologia della
Sardegna, che costituisce un riferimento di eccellenza al quale riferirsi per
dare nuova forza alle ricerche investendo su nuove generazioni.
Cirese e De Martino hanno lasciato molti
allievi, i loro insegnamenti si sono radicati nell’Isola. In un suo saggio del
2015, Una scuola antropologica sarda? [1], Giulio Angioni
aveva tentato di disegnare i “caratteri originali” di una ‘Scuola’
antropologica, connettendola anche con la Scuola di specializzazione in studi
sardi e l’importanza di una archeologia sarda, e di una linguistica sarda
dialoganti con l’antropologia. Una scuola connessa anche al ruolo avuto da
Giovanni Lilliu, l’archeologo scopritore del nuraghe di Barumini e teorico
della ‘costante resistenziale sarda’, nella fondazione dell’antropologia in
Sardegna e nello sviluppo di studi sardi non localistici bensì scientifici e di
ampio orizzonte.
Se dovessi continuare il discorso di
Angioni sulla ‘Scuola antropologica sarda’, parlando ora anche di lui e di
Clara Gallini come dei fondatori, direi che il profilo di questa scuola sta nel
rilievo che Alberto Cirese seppe dare alla valorizzazione della storia degli
studi sardi (dagli studi metrici ottocenteschi alla Deledda) e sulla Sardegna
(da Le Lannou a Wagner) in cui innestare la nuova disciplina, e alla
ricognizione sistematica della cultura popolare con l’Atlante Demologico Sardo.
A sua volta Clara Gallini, venendo dalla tradizione di Ernesto De Martino,
sviluppò le sue ricerche sull’Argia e sulla religiosità popolare in una cornice
analoga, quella delle classi subalterne sarde, per usare il termine gramsciano
allora parte del lessico comune della nuova disciplina, che collocò però anche
in uno scenario culturale che teneva conto del mondo delle lotte per
l’indipendenza dei popoli e contro il sottosviluppo.
Fu nell’esame di etnologia con Clara
Gallini che incontrai il volume di V. Lanternari, Occidente e terzo mondo (Dedalo, Bari, 1967), e
quello di Peter Worsley, La tromba suonerà (Einaudi,
Torino, 1961), che per me fecero da nesso tra impegno universitario e passioni
politiche terzomondiste. Angioni diede carattere sistematico agli studi mono-
grafici di antropologia della Sardegna, con il suo esemplare Sa Laurera. Il lavoro contadino in Sardegna, (EDeS,
Cagliari, 1976), ed altri studi sulla Trexenta, la sua regione storica
contadina e su Guasila, il suo paese natale dove era stato anche consigliere
comunale comunista. Giulio Angioni ebbe il merito di mantenere il rapporto tra
antropologia sarda e circoli culturali europei, e lo fece sia insegnando e
studiando in vari Paesi, sia creando una rivista degli studi europeistici (Europaea, 1995 – 2002) per l’Associazione degli
europeisti di cui fu presidente. Fu impegno di Angioni anche quello di
mantenere Cagliari nella rete dei progetti nazionali, sia con un dottorato
interuniversitario, sia con stage e incontri, cui hanno contribuito anche
coloro che si sono formati a Cagliari e poi hanno insegnato e fatto ricerca
altrove (Pier Giorgio Solinas a Siena, Pietro Clemente a Siena, Roma e Firenze,
Gianni Dore a Venezia).
La scuola cagliaritana nel quadro di
quella sarda ha, in particolare con Angioni, dato dei contributi molto
rilevanti sui temi della cultura materiale e del lavoro, continuando dagli anni
’70 ad oggi a seguire e innovare quel campo di studi, rendendolo sempre più
attuale e attento ai processi in atto [2], con Clara Gallini
ha contribuito all’analisi dei fenomeni religiosi, con lo stile della
antropologia dinamista attenta al rapporto tra fenomeni simbolici e relazioni
sociali, in particolare col magistrale lavoro su Il consumo del sacro. Feste lunghe di Sardegna (Laterza
1971). Nell’ambito degli studi di Storia delle Tradizioni Popolari Enrica
Delitala e il suo gruppo hanno invece continuato l’impresa di ricerca sul campo
legata all’Atlante Demologico Sardo, con il lavoro documentario, e anche quello
di storia e critica storica degli scritti sardi [3].
I caratteri originali di questa
antropologia sarda sono anche legati al dialogo con il marxismo e con Gramsci
che, in modo creativo, ha caratterizzato sia il percorso di Clara Gallini che
quello di Giulio Angioni, ma a partire dai dialoghi con queste teorie che
furono propri di De Martino e di Cirese. I saggi sull’agricoltura e il
pastoralismo, sulle forme artigianali e festive realizzati in questo ambito di
studi, sono anche fortemente legati alla conoscenza dell’Isola dentro i
processi di trasformazione. Ed è questa la ragione per cui addolora la scarsa
attenzione che, a livello istituzionale sia nell’Università che a livello di
Regione, ha avuto la ricerca antropologica, in un mondo di indagini sulla
Rinascita sarda che ha avuto tante risorse. L’antropologia sarda infatti è
stata anche molto attiva sui temi della vita di oggi, e presente su questioni
connesse alla civiltà e ai diritti, estendendo l’attenzione sul lavoro alle
dinamiche delle migrazioni, e con uno sguardo costante, soprattutto da parte di
Angioni, alla vita pubblica sui temi dell’identità, della cultura, dei piani di
sviluppo e regolatori. Non c’è romanzo poi del Giulio Angioni scrittore che non
tratti di problemi di attualità della vita insulare. Direi che Angioni
romanziere ha regalato alla antropologia sarda una cornice preziosa, una
libertà di narrazione inedita: non c’è romanzo di Giulio Angioni che non sia
antropologico, e in essi molti lettori hanno potuto vedere sia il valore dello
scrittore e della sua esperienza di vita sia quello dell’antropologia che gli
ha dato modo di interpretare l’esperienza e trasformarla in racconto.
Un passo indietro
La cornice di questa scuola è, come ho
accennato, in quella che molti considerano l’età d’oro dell’Università di
Cagliari: gli anni 60. Università di transito per molti grandi nomi nazionali e
internazionali Cagliari accoglie scuole, insegnamenti, docenti che arrivavano
da altrove e talora insegnarono nei licei sardi per poter sostenere un lavoro
precario all’Università. Ricordo la memoria entusiasta del pubblico di ex
laureati per un ritorno a Cagliari di Ludovico Geymonat, grande didatta della
Storia filosofica, ma così fu per tanti. Io fui utente di questa grande varietà
di nomi (Aldo Capitini, Giuseppe Petronio, Nicola Abbagnano, Cesare Vasoli,
Manlio Buccellato, Francesco Valentini, Pietro Rossi, Ettore Casari, Angela
Massucco Costa, Cesare Cases, quelli che per me furono anche esami e amicizie,
ma poi Giuliano Procacci, Paolo Spriano, Mario Baratto, e tanti ancora, e i più
giovani Giuliano Gliozzi, Bruno Anatra) e tra loro ebbi come maestro Alberto
Mario Cirese, che ricordava le serate all’Hotel Jolly di Cagliari dei docenti
fuori sede che vedevano partire l’ultimo aereo o l’ultima nave per il
‘Continente’, come soldati di leva, con nostalgia di casa ma anche con una
grande energia di lavoro nell’Isola. Ricordo Aldo Capitini col quale non ho mai
fatto un esame ma che diede a noi giovani una carica pacifista straordinaria e
una ispirazione spirituale che riusciva a penetrare perfino nel nostro
economicismo marxista.
Questa scuola di antropologia sarda è
stata come i fichi d’india, una pianta non endemica che però sul posto ha
attecchito bene, si è fatta autonoma. L’antropologia degli anni ‘60 riporta ai
nomi di Ernesto De Martino e di Alberto Cirese, era una antropologia ancora di
nuova fondazione (la denominazione antropologia culturale a Cagliari arriva nel
1968, e forse è tra le prime in Italia) e di grande respiro nazionale in specie
con la lettura di Gramsci e il dialogo con il pensiero filosofico. Cirese aveva
elaborato in Sardegna tutta la sua problematica della cultura popolare, ma
anche quella metricologica (tutta basata sulla disamina dei “mutos e mutettus”,
i canti popolari sardi [4]) e informatica (a
Cagliari Cirese ha lavorato con il computer – una macchina grande come una
stanza – che era in uno spazio lungo il corridoio del primo piano, a destra,
della Facoltà e lavorava con schede perforate, anche alla indicizzazione degli
articoli dell’Archivio per lo Studio delle Tradizioni Popolari del Pitrè). De
Martino d’altra parte – come suggerisce Angioni – visse la Sardegna come
ambientazione delle sue problematiche della crisi esistenziale, della crisi
della presenza, oltre che indagarvi sui rituali dell’’argia’, il ragno sardo,
sui quali poi scrisse Clara Gallini.
La tesi di Angioni è che questa scuola è
sarda anche perchè i docenti esterni fecero ricerca in Sardegna e si
sardizzarono scientificamente, creando allievi e innestando dunque le loro
prospettive conoscitive nell’albero delle generazioni dei ricercatori sardi.
Così fu certamente anche per Clara Gallini, che alla Sardegna dedicò ricerche e
libri ancora molto rilevanti come Il consumo del sacro (Laterza,
Bari, 1971) , Dono e malocchio
(Palermo, Flaccovio, 1973) , I rituali dell’argia (CDEAM,
Padova, 1961) poi diventato La ballerina variopinta. Una festa di guarigione in Sardegna, Liguori,
Napoli, 1988), libri fondativi degli studi sardi. L’antropologia si aprì dunque
al mondo delle tradizioni sarde e, insieme, alla archeologia e alla
linguistica, formarono un punto di forza di un campo di ricerche relative
all’isola che ha avuto una lunga durata didattica e di approfondimento. Penso
che quegli studi, uniti alla letteratura sarda del dopoguerra (in particolare
scrittori come Giuseppe Dessì, Salvatore Satta, Gavino Ledda, e Giuseppe Fiori
e poi la stagione degli anni ’90 con i romanzi di Angioni, Atzeni, Niffoi e
tantissimi altri autori), al cinema sulla Sardegna con le riprese di De Seta
per il film Banditi a Orgosolo, e alla
documentaristica e al cinema sardo (da Fiorenzo Serra a Gianfranco Cabiddu e
Salvatore Mereu), e alla vivacità della radiofonia isolana abbiano configurato
una sorta di ‘antropologia della Sardegna’ anche a livello diffuso, che ha
avuto nella lezione di Cirese e di De Martino e nel lavoro di Clara Gallini e
di Giulio Angioni, e delle successive generazioni, un nucleo di riferimento
importante.
La seconda generazione e oltre
Giulio Angioni ha rappresentato con
Enrica Delitala la seconda generazione di quella scuola e la ha resa attiva sia
con i suoi studi, che con il restare in rete con molti altri studiosi di
diverse sedi e tenere aperto in modo sistematico un dialogo internazionale.
Giulio portò i suoi studi in Francia, in Germania e in Gran Bretagna, e aprì
soprattutto agli orientamenti scientifici francesi, in cui furono impegnati
anche Gabriella Da Re e Giannetta Murru, sue colleghe e collaboratrici. Così
Cagliari restò punto di riferimento per la piccola ‘diaspora’ degli allievi di
Cirese, tra Siena (Solinas, Clemente) e Venezia (Dore), e per la rete nazionale
universitaria TOFISIROCA (Torino, Firenze, Siena, Roma, Cagliari) che, intorno
a Cirese, si occupò in particolare degli studi gramsciani. Cagliari restò un
riferimento per gli stage di ricerca che sia l’Università di Siena (nei comuni
di Villanovaforru e Ballao) che quella di Roma (nel comune di Armungia per tre
anni) realizzarono in Sardegna e che confluirono in parte in progetti
nazionali, vedi ad esempio il numero di Lares dedicato
alla Sardegna (n.3, 2005) e quello dedicato alle ricerche su Armungia (Lares, 1, 2006).
In particolare il numero di Lares del 2005 presenta un quadro dello stato
dell’arte dell’Antropologia sarda, o se si vuole, della scuola sarda di antropologia.
Scrivono Giulio Angioni, Paoletta Atzeni, allieva di Clara Gallini e poi parte
del gruppo di lavoro cagliaritano intorno ad Angioni, Maria Gabriella Da Re,
allieva di Cirese, Giannetta Murru laureata a Sassari ma confluita nella scuola
cagliaritana, Enrica Delitala, Franco Lai di una prima nuova generazione,
Carmen Bilotta, Fabio Calzia, Alberto Caoci, che rappresentano una seconda
nuova generazione, e poi Gerolama Carta Mantiglia che insegnava a Sassari,
Gabriella Mondardini anche lei docente a Sassari, che più volte ha testimoniato
il suo dialogo con Angioni, Cosimo Zene, sardo ma docente a Londra, e Paolo
Piquereddu direttore dell’Istituto Superiore Regionale Etnografico, presieduto
allora da Giovanni Lilliu. Un quadro assai plurale degli studi e delle
relazioni. Questi nessi si trovano anche in un numero doppio di Lares dedicato
a Gramsci (n.2, 2008/2009) col titolo Gramsci ritrovato in
cui gli studi internazionali su Gramsci e gli studi sardi si incontrarono
intorno a Cirese e a Giorgio Baratta. Le generazioni nuove si incontrano anche
in un libro recente che può essere paradigmatico della scuola sarda, quello a
cura di Gabriella Da Re, Dialoghi con la natura in
Sardegna (Olschki, Firenze, 2015). Nel volume confluiscono
infatti studi relativi alla cultura materiale svolti in modi diversi e in
diversi settori della vita e della conoscenza, che documentano anche ricerche
di antropologia visiva e musicale. Il libro presenta un aggiornamento dei
contributi e degli autori: Angioni, Da Re, Murru restano la generazione degli
allievi di Cirese, Tiragallo quella ulteriore, e poi scrivono A. Guigoni, A.
Caoci, C. Maxia, A. Pusceddu, F. Bachis, M. Mossa, che rappresentano due nuovi
livelli generazionali. La prefazione è di una studiosa francese, Carole Counhan,
che ha fatto ricerca in Sardegna. Sono solo liste di nomi che però mostrano una
tendenza al radicamento di questa area di ricerche, che contrasta, in questo
momento con la chiusura degli accessi all’Università (solo due dei citati sono
universitari strutturati).
Liste di nomi, ma anche una idea del
lavoro collettivo, delle generazioni, sono nel volume Cose da prendere sul serio. Le antropologie di Giulio Angioni,
curato da due suoi allievi della generazione che si affaccia ai quarant’anni,
Francesco Bachis e Antonio Pusceddu (Il Maestrale, Nuoro, 2015). Questo volume
nasce come festschrift originale e ironico dedicato a Giulio Angioni, e quindi
è un buon punto di osservazione sul suo percorso e sulla Scuola antropologica
sarda. Ci sono 32 interventi in varie sezioni, che mostrano sia reti
internazionali, sia dialoghi interdisciplinari in Sardegna, nonché scambi a
distanza con gli allievi di Cirese impegnati fuori della Sardegna e con i
propri collaboratori e allievi. Per autori che operano in Belgio, Regno Unito,
Romania e in varie università italiane, Angioni e Cagliari sono un punto di
riferimento. L’antropologia della scuola legata ad Angioni tiene al centro il
tema del lavoro, della cultura materiale, delle tecnologie, è una antropologia
che dialoga ancora in modo aperto con il marxismo, con Gramsci. Personalmente
me ne sono anche sentito distante per diversi anni e penso anche ora che il
marxismo è una teoria troppo pesante per gli antropologi, tanto da schiacciare
le differenze culturali prima ancora di renderle visibili. Ma è anche vero che,
come il pensiero di Gramsci, anche il marxismo ha trovato nuovi innesti,
dialoghi con altre tradizioni, ed è forse soprattutto la rinascita
internazionale dell’attenzione per Gramsci ad avere riaperto un dialogo
post-marxista, anche sulla eredità del marxismo. Una lista di parole chiave
dell’antropologia cagliaritana dovrebbe tenere conto dunque di: lavoro,
tecniche, saperi, dibattito critico sull’identità, dialogo con linguistica e
sociologia, cultura materiale, marxismo, mondo agropastorale, miniere,
emigrazione-immigrazione, genere.
Angioni scrittore e giornalista
Giulio Angioni ha scritto molto in
riviste, in volumi miscellanei finalizzati, e su temi diversi della vita civile
e politica sarda (incendi, pastorizia, urbanistica, immi- grazione…). I suoi
lavori mostrano una antropologia in azione nel contemporaneo, capace di
suggerire e di criticare, forse inascoltata dai poteri vari. Angioni nei suoi
saggi e articoli entrava nel merito delle ragioni culturali della politica e
suggeriva azioni politiche. Così anche nelle interviste, quasi tutte allo
scrittore, più che all’antropologo, ma tutte legate a temi antropologici. Aveva
avuto un rapporto di amicizia e era anche stato nel gruppo di intellettuali di
sostegno di Renato Soru come presidente della regione sarda. Un tratto forte
della sua ‘consulenza’ pubblica è stato quello di criticare i processi
mitologici di immaginazione del passato che cercavano di legittimare piccoli
gruppi politici e culturali in nome di antiche e per lo più inattendibili
specificità insulari.
Forse in questo campo, in particolare,
l’autorevolezza di Angioni scrittore è stata una diga contro le poche notizie e
le grandi invenzioni che hanno caratterizzato alcune mitologie sarde recenti, quella
delle ‘accabadoras’ portata avanti da Michela Murgia, scrittrice, ma anche
candidata alla presidenza della Regione sarda, e la tesi della Sardegna residuo
di Atlantide, sostenuta dal giornalista Sergio Frau. Un filone mitologico che
si connette ai ‘Falsi d’Arborea’ episodio di filologia storica inventata
nell’800 per sostenere un glorioso e civilissimo medioevo sardo; il segno
principale della sindrome che la psicologa Nereide Rudas identificò nel
libro L’isola dei coralli (Carocci, Roma, 1997), quella
della Sardegna che si vive ‘freudianamente’ come un bambino abbandonato che si
inventa antenati e genealogie gloriose per rafforzare la propria identità.
Angioni era uno dei pochi che poteva
criticare a voce alta – in quanto sardofono, migrante ritornato,
comunista militante e poi critico, legato sempre alla sua terra, conoscitore
dell’isola in lungo e in largo, scrittore riconosciuto e cimentato anche col
sardo – anche gli eccessi e le mode del radicalismo sardista. Giulio Angioni ha
potuto essere duro e sferzante verso le scelte miopi e le culture razziste di
alcuni sindaci della Sardegna, affrontando con chiarezza un nodo quasi
indicibile: quello paradossale per cui una regione in grave decadenza
demografica non potrebbe permettersi di accettare nuovi abitanti. È stato
critico verso una cultura sarda che dicesse ‘prima noi’ con uno slogan suicida.
Lo ho ammirato molto per questo, perché aveva costruito l’autorevolezza che gli
consentiva di dirlo. E che ora a me dà la possibilità di ribadirlo in suo nome.
Vediamo questa sua analisi ora nelle
parole di un giornalista che una domenica mattina visita il Museo Archeologico
di Cagliari nel romanzo Afa (Sellerio,
Palermo, 2008) :
«Perché sono nel
tempio maggiore della nostra Storia, nel massimo santuario dei nostri testimoni
del passato. Testimoni di pietra come queste forme umane maschili, i giganti
guerrieri del Sinis, la statuaria sarda di Monti Prama, di rivoluzionaria
importanza, dicono, perché quei giganti di pietra potrebbero essere pregreci,
prepunici, preestruschi, pre-tutto e però sempre sardi e magari all’origine di
tutto, ma noi non ne sappiamo trarre vanto, dicono, li lasciamo imboscati in
sotterranei polverosi dei musei. Le nostre glorie antiche qui si sviluppano su
quattro piani.
Certo però che a uno
come me questo museo non riesce a dire molto. Il poco che c’è scritto è quasi
solo per chi se ne intende, di cocci testimoni del tempo, sotto vetro. Mentre
fuori di qui c’è chi pensa e scrive e vuole scrivere anche sul mio giornale
dell’isola del passato come piattaforma di sbarco di astronavi aliene
fondatrici di prime civiltà, o ci risente ancora le trombe di Atlantide, i
flauti delle isole felici, voci e suoni del paradiso primigenio.
Mi rassegno, non riesco
a essere un archeologo della domenica. Mi fermo a lungo davanti ai giganti di
pietra del Sinis, i guerrieri di Monti Prama. Cose così muovono qualunque
fantasia, figurarsi in quest’isola, bisognosa di orgoglio nazionale. Ce li
siamo immaginati, i giganti di pietra, ritti sulla costa a dominare il mare,
per chi arrivava in armi».
Un piccolo esempio di come i romanzi di
Angioni sia legati ai temi antropologici.
Clara Gallini, storie
Clara Gallini, ha scritto Fabio Dei [5], ha scelto un percorso di marxismo critico, aperto
ai temi del simbolismo, che non era lo stesso del suo maestro Ernesto De
Martino, che alla fine dialogava di più con la fenomenologia. Clara Gallini ha
dato base sociale e storica ad alcuni fenomeni visti altresì come mero
folklore: le feste lunghe, il malocchio, le storie di vita, portando con sé la
Sardegna che si identificava nei grandi movimenti del Terzo Mondo, alla quale
diede una connessione internazionale. Clara ha dato alla Sardegna degli anni ‘60
e ‘70 anche il senso critico verso la grande trasformazione e l’idea della
tradizione che vive nel presente e che in esso si trasforma costantemente.
Così da un lato Il consumo del sacro è una ricerca di antropologia
dinamica (e così si connette a una linea teorica in Italia perseguita da
Vittorio Lanternari, suo maestro dopo la morte di De Martino) e dall’altro è un
modo di guardare alla festa non strutturale o simbolico, ma sociale, basato
dunque sugli stili, le forme, le relazioni tra i sessi, il tempo sospeso.
Dall’altro La sonnambula meravigliosa (Feltrinelli,
Milano, 1983) è una storia di forme e modi della conoscenza colta al limite, e
riprende il De Martino storico del pensiero del magismo. E la ricerca sulle
forme nuove della comunicazione di massa, dai Festival fino a Internet ne
mostra una costante attenzione alle trasformazioni del pensiero e della
mentalità. Una traccia per leggere anche la formazione dei molti allievi di
Clara Gallini in Sardegna tra Università di Cagliari e di Sassari.
Anche Clara Gallini ha avuto una forte
capacità di comunicazione pubblica, con interviste, articoli brevi,
partecipazioni a convegni e dibattiti pubblici. Ed ha portato nel suo lavoro
anche uno stile femminile coraggioso e originale. Lo sentivamo già all’Università
di Cagliari, anche se spesso la criticavamo per il suo modo di vestire, al
tempo in cui eravamo suoi studenti.
Nel suo ultimo lavoro, dedicato alla
malattia e alle memorie dell’infanzia, Incidenti di percorso.
Antropologia di una malattia (Roma, Nottetempo, 2016), ha
lasciato in merito una pagina che è un piccolo saggio della grande ironia e
forza riflessiva che traversò l’antropologia di Clara Gallini:
«Ancora negli anni
settanta, all’Università di Cagliari, avrei portato calze di filanca colorate a
scacchi, disdicevole fatto in cotal luogo, segno di una provocazione ancora
sessantottesca durata poi per tutto il decennio. Ma proprio con le calze colorate
avrei continuato a portare con me un bel po’ di quel provincialismo che ancora
mi accompagna».
La sua immagine di donna coraggiosa e
capace di ascoltare le donne e di interagire con i luoghi, ce la ha restituita
una intervista del giornalista sardo Giacomo Mameli Sardo sono (CUEC, Cagliari, 2012) che ‘adotta’
anche Clara nel mondo insulare. Ne ha riproposto qualche passo anche nel
ricordo che, su La Nuova Sardegna (22.01.
2017), ha scritto come ultimo saluto
«Mi chiamano in Sardegna
come fossi un reperto storico che è ormai inglobato nell’identità sarda. La
Sardegna di oggi è fatta di maggiori aperture rispetto al passato. Ieri, se non
eri sardo, non eri legittimato a parlare della Sardegna, il lavoro di
assorbimento e legittimazione degli esterni è stato molto ampio e aperto. Nella
fine della chiusura verso lo straniero vedo i tratti di una forte crescita
civile. Vorrei tornare a San Francesco di Lula, stare nelle cumbessias con le prioresse [6], capire che cos’è diventato oggi il consumo sardo
del sacro».
Un bel segno di una ‘sardità’ vitale e
critica, che si era portata dentro, ma aveva lasciato anche nel campo degli
studi e nel lavoro didattico nei suoi anni di insegnamento all’Università di
Cagliari. Ripagata anche con pagine di intenso ricordo in Incidenti di percorso:
«Non c’era solo De
Martino. A Cagliari, avrei incontrato la varietà delle teorie, il cambiamento
degli oggetti di ricerca. I docenti provenivano da varie città del
“continente”…e l’università fu per alcuni anni un’isola felice di saperi…Poi,
avrei incontrato varia gente ancora, tra i monti della Barbagia e gli oleandri
della Baronia, con la città di Nuoro come centro: pastori, contadini, massaie
dal volto e dal gesto così diversi da quelli del continente…parlavo soprattutto
con donne…» (ivi: 250-252)
Ammalarsi, morire
Dovremo studiare ancora a lungo gli
scritti di Angioni e di Gallini, fuori dei discorsi di circostanza. Senza fare
tesoro, acquisire, ricordare, trasmettere, gli studi sono a rischio di
perdersi. Già se ne sente traccia nella forte internazionalizzazione di molti
standard della scrittura e del sistema di riferimenti dei giovani antropologi
che vengono dai dottorati italiani e non, forti di lingue ma ignari di eredità.
Il dibattito sulla cosiddetta ‘Theory’, un impasto radicale di teorie
novecentesche che finisce per sostituire le analisi, sembra l’opposto di quei
temi che De Martino, e Cirese trovarono nello stesso Gramsci che oggi anche
nella Theory si cita.
Angioni e Gallini ci hanno dato prova
non solo di grande serietà professionale ma anche di grande umanità. Il primo
con le sue ultime poesie, scritte pochi giorni prima della morte, e legate,
come ci diceva a fine dicembre al fatto che «l’uomo ha da imparare
culturalmente anche il morire» [7]. E Clara
Gallini nel suo Incidenti di percorso ha fatto
la stessa cosa: imparare culturalmente la malattia, il rischio, il proprio
essere soli davanti alla morte. Sono morti a distanza di pochi giorni Angioni e
Gallini, il 12 gennaio l’uno e il 21 l’altra, e ci hanno lasciato due
così alte consapevolezze finali dei destini da lasciare senza parole,
esemplari. Ricordano – ma ormai senza la ambiguità di quel contesto, in cui De
Martino non sapeva della sua malattia senza scampo – il dialogo sulla morte e
il bisogno di fronteggiarla culturalmente che raccontò Cesare Casas in Quaderni piacentini n.23-24, 1965 [8].
Come Clara e Giulio ci hanno insegnato
una modalità laica e consapevole della buona morte, della saggia malattia, così
a noi tocca produrre la versione laica e consapevole, ‘mondana’ – diceva De
Martino – del pianto funebre, del canto di addio e di rimpianto. Noi
continuiamo a piangere i morti, in forme diverse, senza essere oggetti
archeologici; da Jacopone a Ungaretti il pianto ‘che non si vede’ ma che si fa
poesia, si fa discorso, si fa saluto, è una parte della creatività del nostro
mondo.
Nel mondo degli studi mi ha sempre
colpito come fatto positivo l’uso della Facoltà di Lettere dell’Università di
Roma di ricordare il collega scomparso sulla grande scalinata di accesso,
qualche volta anche ‘corpore presenti’. E poi ricordarlo anche in Consiglio di
Facoltà, cosa che si fa ancora, spesso però in una fretta annoiata. Alberto
Cirese eccelleva nel ricordare i colleghi, egli diceva delle parole di addio,
belle, profonde, scandite da una interna metrica, che sembravano avere il
potere di incantare la morte, di ricostruire la socialità oltre lo strappo, di
fare comunità come nel mondo lucano. Non erano forse questi dei lamenti
funebri? Mi sono rimaste nella memoria e nel cuore le parole che disse per due
studiosi che ho sentito molto vicini, Diego Carpitella e Italo Signorini.
Ascoltate questo passo per Diego:
«Così come era sommesso
ed intenso il tuo ricordare, anche dopo lunghi silenzi. Ed era il ritrovarsi
fraterno, come se il tempo non fosse passato. Un viaggio nel cuore della
Sabina, trent’anni fa. La neve ci chiuse. Restammo sospesi: non più
responsabili, in un limpido cristallo di luce irreale. Quante volte m’hai detto
che dovevamo rifare quel viaggio? “Vience dumane, vience a cunsulare”,
dice un pianto funebre che anche a te piacque: vience dumane, Diego, vience a
cunsulare, che quel ritorno ancora lo dobbiamo fare» (inedito Agosto 1990).
E per Italo Signorini:
«Ancora una volta il
ladro notturno è venuto a decimare le nostre già devastate fila. Di nuovo un
vecchio deve piangere chi quasi poteva essergli figlio. Ed il dolore così
inattesamente amaro si fa rivelatore, e in ciò s’accresce, di una ancora non
saputa profondità di affetti: nati silenziosamente non so dove o quando e poi
cresciuto quasi senza darsene conto: il suo riserbo poteva parere distanza e
non era…» [9].
E il finale
«La morte lacera e stronca; agli studi
cui s’affidò noi oggi ci affidiamo per riallacciare il filo» [10]. Anche così –
con queste parole di Cirese sui fili da riallacciare – possiamo giustamente
accomiatarci dai due maestri di cui ora parliamo: Clara e Giulio, che abbiamo
visto qui nella chiave della loro opera relativa alla Sardegna. Ma non prima di
averli ascoltati in alcuni dei loro ultimi dialoghi con la vita. Clara Gallini,
la fragilità, la perdita dell’indipendenza, il senso di un futuro incerto:
«Ancora cammino
traballante, per via della valvola in testa, col relativo tubicino che scarica
nello stomaco. E i dolori al capo si sono attenuati solo in parte. In casa, ce
la faccio, ma per strada mi muovo insicura, per via della gente e delle
automobili. Ho bisogno di appoggiarmi a un braccio altrui…l’autonomia è una
forza che richiede la gran capacità di trasformarsi in atto di mediazione tra
la tua persona e quella altrui…».(pag. 258-259) .
Giulio Angioni, le poesie dell’addio :
Chemio 1
«Oggi qui si sta in
quattro in sala chemio
adagio distillando dalla
flebo
ciascuno un suo dolore».
Quando non si saprà
«Quando non si saprà
di te che sarai stato,
dell’albero che un
giorno avrai piantato
in terra smemorata
e la parola d’aria
respirata
sarà altra cosa in
chissà quale stato
tu forse lo saprai
che qui e ora sei».
Restanti
Resuscitiamo i morti
con foto e audiovisivi
e il passato rivive
da sembrare che morte
non dissolva.
La gente di una volta lo
sapeva
come tenere vivi i
propri morti,
lari e penati in stretta
convivenza
che stavano qui in casa
là nella stanza buona,
li potevi pensare
a fare un pisolino dopo
pranzo
o al lavoro in campagna
o in viaggio e poi
ritornano,
la notte custodivano la
casa
stavano insieme a noi
o felici o scontenti
come noi
nell’hora mortis nostrae
ci accoglievano
per essere all’altezza
del morire.Le poesie sono state pubblicate su face
book nella pagina di Giulio Angioni nei giorni tra la fine di dicembre e il 12
gennaio, giorno della sua morte.
Dialoghi Mediterranei, n.24, marzo 2017
Note
[1] In L. Marrocu,
F.Bachis, V. Deplano, La Sardegna contemporanea.
Idee, luoghi, processi culturali, Roma, Donzelli, 2015: 750
[2] Si veda ad esempio il
volume a cura di Gabriella Da Re, Dialoghi con la natura in
Sardegna, per una antropologia delle pratiche e dei saperi.(Donzelli
2015) in cui hanno scritto tutti gli allievi e collaboratori di Giulio Angioni
e c’è un suo saggio dal titolo Saper fare .
[3] Enrica Delitala ha
sintetizzato il percorso dell’insegnamento in cinquanta anni di attività
in Frammenti di storia degli studi, Nuoro, Isre, 2014
[4] Un bilancio di questi
studi formali è anche in Ragioni metriche:
versificazione e tradizioni orali, Palermo, Sellerio, 1988
[5] Addio a Clara Gallini. Il codice dell’insolito, ne Il Manifesto, 22.01.2017
[6] Nelle feste lunghe
novenali sarde, si vive nelle piccole case addossate al santuario, le
‘cumbessias’ e le ‘prioresse’ sono tra le organizzatrici delle feste
[7] Queste parole che mi
ha riportato una sua allieva Tatiana Cossu, nella sostanza le ha scambiate
anche con me in alcune telefonate di saluto
[8] Cesare Cases, Un colloquio con Ernesto De Martino
[9] Queste parole
illustrano anche il mio sentimento verso Italo Signorini, che era così
totalmente diverso da me e solo nel compiersi del suo destino mi sono reso
conto di come lo avevo accolto e piantato nei miei sentimenti e valori
[10] A. M. Cirese, Per
Italo Signorini. Pagine lette al Consiglio della Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università La Sapienza di Roma, il 2 maggio 1994, in Ossimori, 4, 1994:
126-127; questi passi li ho tratti da un mio articolo Sora nostra morte corporale. Morire ieri e oggi. Da un libro di
Giancarlo Baronti, in ANUAC, vol.5, n.2, 2016: 24 – 25
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Pietro Clemente, professore ordinario
di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia
Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia
delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana
per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); direttore della
rivista LARES, membro della redazione di Antropologia Museale,
collabora con la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo
Stefano. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a
cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di
“Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio
culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia
contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli
antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in
M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della
Enciclopedia italiana (2014).
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