mercoledì 30 novembre 2016

Considerazioni sulla morte di Fidel Castro - Karim Metref



É morto Fidel!
Aldilà di ogni giudizio sulla persona e sull’opera, ricevere questa notizia per me è come sapere della morte di un parente… lontano, ma parente comunque. Un modello. Un modello d’infanzia che crescendo si finisce per vedere nella sua dimensione umana con pregi e difetti.
Fidel per me è stato un “compagno”. Un compagno d’infanzia. Ci sono quelli cresciuti con storie di Sandokan, quelli cresciuti con storie fantastiche,  fantascienza… Io pur avendo letto di tutto da piccolo, posso dire senza mentire che sono cresciuto a pane e leggende dei leader socialisti.
Mio nonno, mio padre, i miei fratelli, vari miei cugini… tutti erano ammiratori di Lenin, di Mao, Guevara e Castro, Ho Chi Minh e Giap.
La nostra libreria era piena zeppa di propaganda delle repubbliche socialiste, tutte. Più tardi i discorsi del Leader Maximo, incisi su dischi di vinile morbidi allegati alle riviste cubane, mi saranno molto utili per lavorare la mia pronuncia per le lezioni di spagnolo al liceo. Ma da piccolo, dopo cena, nella stanza di mia nonna, si parlava di tutto: della vita, della famiglia, delle storie degli antenati… ma anche della resistenza del popolo russo durante l’assedio di Leningrad. Delle gesta del Marechal Jukov. Dell’avanzata di Mao su Pechino. E dell’entrata dei Barbudos a Santa Clara, dell’umiliazione dei contro-rivoluzinari e della Cia alla Baia dei Porci e della fuga in catastrofe dei Marines da Saigon…
Per noi queste storie erano la vendetta dei poveri sui ricchi. Gli indiani che finalmente riuscivano a mandare in inferno i cowboy con i loro maledetti cappelli che non volano mai via, i loro cavalli instancabili e le loro pistole che non si svuotano mai.
Che emozione quando veniva il Che o Fidel ad Algeri. Non ero ancora nato quando Guevara visitò Algeri per la seconda volta nel 1965. Ed ero molto piccolo nel 1972 quando arrivò Fidel. Non avevamo ancora la tv a casa ma questi eventi animarono le discussioni per anni. Il racconto della visita del Leader cubano ci fu raccontato varie volte da mio padre, che mescolava le letture della stampa ufficiale con le voci che giravano tra la gente. É così che ci raccontò ad esempio come Fidel falsò compagnia alle guardie del corpo del presidente Houari Boumedienne per farsi un bagno di folla da solo. «Le guardie lo ritrovarono- diceva mio padre- in una viuzza della Casbah, intento a chiacchierare e a farsi abbracciare dalla gente che lo accoglieva come un eroe, come un fratello». Il popolo cubano, come quello algerino aveva affrontato una grande potenza militare e ne era uscito a testa alta. Eravamo “popoli vincitori”, almeno così credevamo allora.
Per tutte queste ragioni sento la morte di Fidel come la perdita di un parente. Un parente lontano ma importante. Uno di quelli che nonostante la distanza, contano nella famiglia. Uno considerato da piccoli come un eroe, un modello assoluto, e che poi crescendo si è imparato a guardare con occhi più critici. Tentando di separare il buono dal cattivo.
Fidel è un uomo che si è ribellato all’ingiustizia e ha fatto il suo possibile per sconfiggerla. Ribellarsi con le armi in mano non è il miglior modo di affrontare l’ingiustizia. Ma è sempre meglio che stare in silenzio, meglio della sottomissione. Questo lo diceva anche Ghandi. “Di un ribelle violento posso fare un combattente nonviolento, ma di un codardo non saprei fare nulla.”
Fidel affrontò l’ingiustizia e fece quello che poteva, quello che sapeva… per far finire l’oppressione Ma contrariamente al “Ché”, lui ha dovuto poi governare il paese liberato. Il “Ché” fece il rivoluzionario puro e cercò di farlo «senza perdere l’umanità». E effettivamente non la perse mai, la sua umanità, ma in cambio perse la vita. Lasciando il quesito ancora in sospeso: “si può fare la guerra e vincerla senza perdere l’umanità?”
Il quesito al quale invece la Storia ha risposto più di una volta e senza equivoci è: “Si può tenere il potere con la forza senza perdere la propria umanità?” Questo è ormai chiaro. “Il potere corrompe. E il potere assoluto corrompe assolutamente” per dirla sempre con Gandhi.
Che strumenti abbiamo noi per giudicare l’operato di Fidel Castro a Cuba? I media. Quelli  occidentali che lo odiano a morte e quelli amici che lo idolatrano. É dall’epoca della vittoria castrista a Cuba che siamo divisi tra notizie che lo vogliono demonizzare e altre che lo vogliono divinizzare. Tifoserie opposte che vedono nell’isola, ognuna, solo li aspetti che fanno comodo a la loro versione.
Prima della rivoluzione, Cuba era il casinò e il casino degli USA. La mafia la faceva da padrona. Il popolo era schiacciato e ridotto alla fame sotto il peso della dittatura sanguinaria di Fulgencio Batista. Se la rivoluzione ha avuto il successo folgorante che ha avuto, delle ragioni ci sono, che ne dicano i nostalgici di quella epoca e delle sue belle feste nei locali dell’Avana.
Oggi, sono passati 57 anni da quel primo gennaio 1959 quando i ribelli “barbudos” del Movimento del 26 Luglio (M26-7) entrarono alla Havana. In esilio c’è ancora molta gente. Molte ragazze e ragazzi cubani si prostituiscono ancora. Non ci sono elezioni libere, poca libertà di espressione. I fratelli Castro regnano ininterrottamente da quel lontano 1959…
Dall’altra parte, comparato a tutti i paesi della regione Centro Americana, Cuba è il paese che offre la miglior qualità dell’educazione, della sanità e di ridistribuzione delle poche ricchezze prodotte dal paese. Chi si prostituisce oggi non lo fa più per sopravvivere ma perché nel mondo globalizzato avere un buon telefonino, dei vestiti firmati sono diventati bisogni che molti considerano essenziali. Il cibo scarseggia ma quello necessario per stare in salute ce l’hanno tutti. La corruzione c’è ma non ha niente a che fare con i livelli presenti nei paesi vicini. Nessuna traccia di organizzazioni malavitose importanti. E la povera isola di Cuba si permette persino di mandare aiuti umanitari, fatti non di cibo o medicine ma di personale medico e paramedico e di insegnanti di altissimo livello, a paesi che sono cento volte più ricchi in risorse naturali e non subiscono nessun tipo di embargo.
Che a Cuba ci sono oppositori in carcere, a raccontarcelo sono soprattutto alcuni oppositori che lo scrivono dietro pagamento su tutta la stampa del mondo… e che non stanno in carcere. Quindi forse tutto non è proprio così come lo raccontano. Cuba non è il paradiso che raccontano i “castristi” di tutto il mondo ma nemmeno l’inferno che racconta la stampa dei potenti.
Cuba oggi è un paese del cosiddetto terzo mondo. Ha poche risorse, produce poco Pil. Come molti altri ha un regime autoritario. Molti problemi sociali e politici. Ma meglio di molti altri (forse meglio di tutti) ha investito sulla salute e sull’educazione dei suoi figli. A me non sembra poco.
E credo che è su questa base che si può giudicare il principale artigiano di questa situazione. Come un uomo politico che ha preso il potere con la violenza contro un regime violento e ingiusto. Un uomo che ha subito pressioni enormi e che nello stesso tempo non ha potuto, non ha voluto o non ha saputo sottrarsi al gioco delle parti durante la guerra fredda. Un uomo che ha scelto di tenere saldi i redini del potere e di opporre un regime autoritario e militare a varie forme di aggressioni sia dirette che indirette, sotto forma di embargo e complotti vari.
Non aveva scelta? Questo non è vero. Si ha sempre la scelta? Io non credo che la sorte di tutto un popolo possa mai dipendere da un solo uomo o da un solo gruppo di uomini. Ma nello stesso tempo, bisogna dirlo, la scelta che si presentava nell’immediato era spesso tra tenere il potere in mano o lasciare il paese in mano alle mafie di Miami.
Alla fine quello che è morto ieri è un uomo. Un grande Uomo. Uno di quelli che hanno fatto la Storia. Un uomo che io credo mosso alla base da sani principi di giustizia. Ma pur sempre un uomo. Con le debolezze di ogni umano. Uno che arrivato al potere si è preso forse un po’ troppo sul serio e si è creduto indispensabile. Malattia che colpisce molti leader carismatici, soprattutto quelli che conquistano il potere con la violenza.
Ma dire oggi  “è morto un dittatore” cosa vuol dire? Se questo è solo una valutazione tecnica e significa “è morto il leader di un paese senza funzionamento riconosciuto internazionalmente come democratico”, allora è vero. Ma se questo vuol dire “è morto un uomo malvagio”, allora bisognerebbe specificare  il “perché”, il “come” e soprattutto il “quanto”.
È forse morto un uomo più malvagio degli uomini politici che regnano sulle principali “democrazie” del mondo?
È forse più malvagio di Clinton, Bush e Obama che hanno ridotto il Medio Oriente intero in cenere per avere controllo sul petrolio?
É forse più malvagio dei presidenti francesi che hanno ridotto l’Africa in cenere per pagare i costi della loro bella democrazia?
É più malvagio dei leader del mondo che giocano con la sorte di milioni di profughi e migranti come fossero semplici palline in un macabro gioco del ping-pong?
È più malvagio dei leader, democraticamente eletti o no, che trasferiscono le ricchezze dei loro paesi verso i paradisi fiscali, lasciando i loro fratelli morire di fame e di malattie?
È più malvagio di chi fomenta guerre per far funzionare l’industria bellica o di chi crea le crisi per arricchire le banche?
Diteci quanto è malvagio questo uomo che è morto ieri. Facciamo una scala ragionata degli atti malvagi dei leader del mondo e vediamo come sarà classificato Castro. Fin che questa graduatoria della malvagità non sarà fatta, lasciatelo riposare in pace.
Io che non credo più negli eroi da tempo, preferisco salutare un’ultima volta, con rispetto, l’uomo. Un Uomo che per opporsi all’ingiustizia del mondo ha scelto una via, che io considero sbagliata, quella della violenza. Ma comunque uno che ha preso il proprio coraggio e le proprie responsabilità in mano e ha fatto qualcosa. Qualcosa che nelle intenzioni era giustizia. E che qualche volta ci è andato molto vicino, qualche volta se n’è allontanato proprio. Com’è normale che succeda al semplice essere umano che era, dopo tutto.
(Pubblicato inizialmente sul sito del Centro Sereno Regis)

Edizione straordinaria

intercettato un tweet di Obama (il presidente del vorrei ma non posso) – eccolo in esclusiva:


La guerra al sapere critico - Alvaro Belardinelli


La notizia è dell’8 novembre: la ministra Stefania Giannini ha firmato il decreto “Scuola breve”. Cento scuole superiori sperimenteranno il liceo articolato su quattro anni anziché in cinque. Gli istituti votati alla “sperimentazione” verrebbero scelti mediante un bando di gara da redigere entro dicembre 2016, e da pubblicarsi ufficialmente a settembre 2017.
I genitori interessati dovrebbero quindi iscrivere i propri figli attraverso una domanda di partecipazione. Le ore del quinto anno soppresso verrebbero “recuperate” spalmandole sui quattro anni rimasti: milleventitré ore per il Liceo Classico, novecentonovanta per lo Scientifico, Millecentocinquantacinque per l’Artistico. Nei quattro anni superstiti, dunque, si starebbe sui banchi più ore.
Quasi che la quantità potesse compensare la qualità (anzi, a scuola, sono inversamente proporzionali tra loro). Sarebbe come dire che la domenica, per non perdere tempo a mangiare, si starà a digiuno, ma si recupereranno i pasti perduti mangiando di più dal lunedì al sabato. Con quale danno per la digestione e per la salute?
Qual è, d’altronde, il vantaggio del liceo a quattro anni? Avere un anno in più per lavorare! Non è in fondo il lavoro lo scopo della scuola? Così la pensa il governo Renzi. A scuola si perde tempo. Meglio lavorare. Tutta la propaganda governativa va in questa direzione. Così come in questa direzione va la legge 107/2015 (sedicente Buona Scuola), che obbliga gli studenti a quattrocento ore di “alternanza scuola-lavoro” negli istituti tecnici, e a duecento nei licei.
Lo aveva annunciato il ministro Giuliano Poletti il 23 marzo 2015, con il celebre affondo nel quale disse che non sarebbe male per gli studenti partecipare a stage lavorativi d’estate, come facevano i suoi (eroici) figli, adusi a “spostare casse di frutta in magazzino nei mesi estivi”. I giovani non devono imparare ad usare il cervello, ma i muscoli. O al massimo i polpastrelli, per usare tastiere di computer. Credere, obbedire, farsi spremere: questo sembra essere il motto del governo del Partito “Democratico”. Un’autentica educazione alla schiavitù del lavoro gratuito.
Che i giovani acquisiscano conoscenze non interessa ai nostri ineffabili (s)governanti. Non interessa alla Troika, non al Vaticano, non a Confindustria, non ai banchieri, non alle mafie. A nessuna delle forze che dettano legge in Italia, insomma. Interesserebbe ai docenti degni di questo nome; ma quelli non contano: Renzi li ha già asfaltati con la Legge 107, nell’indifferenza dell’opinione pubblica, che ancora vede gli insegnanti come dei privilegiati rompiballe (anche se ormai hanno stipendi da povertà vera).
Ora devono stare zitti e mosca, quei docenti “contrastivi” – come li ha definiti l’Associazione Nazionale Presidi in un celebre documento dai toni bellici – che hanno sempre tentato di difendere la Scuola Statale (l’unica pubblica) e la propria professionalità. Altrimenti possono essere trasferiti, demansionati, puniti economicamente. Ma agli italioti sta bene così, perché non hanno capito che il pilastro fondamentale di ogni democrazia è proprio la scuola.
I poteri forti vogliono questo: una scuola che lasci la maggior parte dei cittadini nell’incapacità di acquisire conoscenze in modo autonomo, analitico e critico, e di trasformare questa autonomia in indipendenza di giudizio. Solo pochi devono essere intelligenti e colti (cioè umani nel senso più completo della parola): i figli di Lorsignori ed i loro lacchè. Ma per ottenere ciò non serve la ScuolaStatale (soprattutto se non è asservita): essa quindi va dissanguata, disinnescata, ridotta, umiliata, svuotata dall’interno. Scuola povera per poveri.
Per gli altri, per i rampolli del ceto egemonico, ci sono le scuole private d’alto bordo, quelle che pretendono rette annuali da decine di migliaia di euro (dai cinquantaquattromila dell’Eton College a Windsor in Inghilterra agli oltre centomila dell’Istituto Le Rosey presso Ginevra). Questo il mondo progettato dai grandi della Terra: una massa sconfinata di polli d’allevamento, dominati da un’eletta schiera di facoltosissimi nababbi.
Il progetto del “liceo breve”, va esattamente in questa direzione. È un altro tassello dell’infinita serie di scelte politiche che hanno già terremotato la scuola italiana, e che stanno definitivamente spianando quel tanto di buono che comunque ancora (malgrado i governi) sopravvive. Se al referendum del 4 dicembre prossimo dovesse vincere il Sì, l’esecutivo avrebbe la strada ancora più libera per la demolizione totale del sistema scolastico che ha in centocinquant’anni trasformato l’Italia da Paese analfabeta in grande nazione moderna.
A quel punto il governo potrebbe tranquillamente procedere con le deleghe che già la Legge 107/2015 gli assegna in materia scolastica, e il cerchio si chiuderebbe definitivamente. Attenzione, però: che la scuola diventi un contenitore vuoto (come tutte le altre istituzioni democratiche di questo Paese) non sarà un guaio solo per i poveri insegnanti, costretti a morire di demotivazione e di burocrazia. Tutti i cittadini pagheranno lo scotto della distruzione della scuola, perché il Paese s’imbarbarirà sempre più, e sarà sempre più difficile vivervi in pace.
Il governo risparmierà, sì, un miliardo o due (licenziando gli insegnanti “inutili”), ma l’ignoranza ci costerà molto di più. Molto più degli armamenti che, intanto, il governo Renzi continua pervicacemente ad acquistare. Del resto, si sa: armi e guerre ingrossano il Pil (e le saccocce degli amici); i docenti no.
da qui

Quattro ragioni per gridare No - Francesco Gesualdi


Il 4 dicembre voterò no alla modifica costituzionale, perché è un regalo al mondo degli affari contro i cittadini. L’impegno di banche, assicurazioni, multinazionali e delle loro rappresentanze, per convincerci ad accettarla, né è una riprova.

In sintesi ecco le ragioni per cui a me non piace per niente e a loro, invece, piace così tanto:

Accresce il potere delle lobby
La riforma espropria le regioni di importanti competenze economiche, fra cui le grandi opere e la produzione energetica, per portarle sotto controllo statale. In conclusione per ottenere provvedimenti favorevoli ai propri affari, le grandi industrie di costruzioni e di estrazione energetica, non avranno più da fare anticamera in 20 regioni diverse, ma presso un unico ufficio: quello di Palazzo Chigi. Un unico organismo si condiziona sempre meglio di 20, specie se i partiti che ci stanno dietro sono già sotto scacco perché vivono di contributi elargiti dalle imprese.

Velocizza le leggi al servizio degli affari. 
Salvo poche eccezioni, la riforma riserva il potere legislativo alla sola Camera dei deputati. Il senato ha solo facoltà di commento. In un momento di grandi trasformazioni tecnologiche, le imprese hanno bisogno di rapidi passaggi legislativi per adeguare le norme alla tecnologia che avanza. Del resto la litania la conosciamo: la riforma è per la crescita. Serve, cioè, per creare un contesto attraente per le imprese. E oltre alle riforme per abbattere salari, diritti dei lavoratori, imposte sui profitti, servono leggi rapide per consentire l’uso di tecnologie che rompono con abitudini radicate, con profonde convinzioni morali, con una certa idea di sicurezza, con i rapporti interpersonali. Alcuni esempi sono l’uso dei robot in ambito produttivo e civile, il ricorso sempre più esteso alla bioingegnieria e alla procreazione artificiale, la circolazione dei droni a fini commerciali, le questioni legate a internet. In un contesto tanto amichevole per loro, a destra come a sinistra, le imprese non hanno nessuna difficoltà a fare inserire i loro desiderata nei programmi di governo e garantire automaticamente una corsia di approvazione privilegiata ai loro provvedimenti. Lo stabilisce la norma sul voto a data certa. Ma oltre a nuove regole per l’adozione di nuove tecnologie, le imprese hanno anche bisogno di approvazioni celeri dei trattati internazionali, che ormai si stipulano quasi esclusivamente per creare mercati più vasti e tutelare l’interesse delle imprese contro le leggi che pongono divieti agli affari in nome della salute e dell’ambiente. L’esclusione del Senato dalla ratifica dei trattati internazionali oltre a essere una garanzia di celerità, riduce i rischi di bocciature.

Ignora le peculiarità locali per garantire contesti legislativi uniformi a livello nazionale. 
Riducendo i livelli regionali a meri amministratori di politiche decise a livello statale, la riforma risponde a un’esigenza di fondo delle imprese che è quello dell’omologazione legislativa. Per le imprese è strategico disporre di un unico mercato con uniche regole perché la pluralità di regole, diversificate per territorio, le costringe a una pluralità di strategie produttive, sociali, fiscali, amministrative, che significano aumento di personale e quindi di costi. E’ significativo che anche la sicurezza sul lavoro sia stata riportata sotto controllo statale. Le imprese sognano un mondo con le stesse regole sanitarie, ambientali, sociali, in modo da standardizzare al massimo la produzione e le procedure amministrative. La standardizzazione abbatte i costi, la diversificazione li accresce. In base a questo principio i panini di McDonald’s sono gli stessi da un capo all’altro del mondo. Non a caso le imprese spingono per trattati internazionali che armonizzano le legislazioni nei paesi firmatari, esattamente come vorrebbero fare con il TTIP. La riforma costituzionale è un passo in questa direzione eliminando le diversificazioni in ambito nazionale.

Rende più difficile la partecipazione e la resistenza popolare. 
Lo dimostra la decisione di sottrarre il senato al voto popolare e di riportare un numero crescenti di competenze dalla periferia al centro. Più i centri decisionali si allontano dai territori, più diventa difficile organizzare il controllo e la pressione popolare per opporsi ai provvedimenti dannosi da un punto di vista sociale, sanitario, ambientale. Del resto “la licenza di protestare se vengono proposte modifiche sgradite dello status quo” è uno dei punti che JP Morgan ha messo sotto accusa nel documento del maggio 2013. Ed ecco la richiesta ai paesi del Sud Europa di sbarazzarsi di costituzioni socialisteggianti se vogliono attrarre gli investimenti. Ma a questo punto una domanda si pone: a che serve attrarre investimenti per ottenere nuovi posti di lavoro se dobbiamo pagarli al prezzo della vita e della libertà?

martedì 29 novembre 2016

Un tribunale internazionale per giudicare le multinazionali - David Lifodi


Il castigo penale e civile per le imprese responsabili della violazione dei diritti umani (civili, politici, economici e culturali) rappresenta una rivendicazione storica dei movimenti sociali che di recente è stata fatta propria da Ecuador e Sudafrica, grazie ai quali è stata condotta in sede Onu. La proposta di risoluzione, che prevede la creazione di un trattato vincolante tra gli stati membri delle Nazioni Unite fu approvata addirittura nel 2014, ma per ora non è stata mai applicata.
Eppure, se la risoluzione entrasse in vigore, se ne vedrebbero delle belle. Ad esempio, Chevron non avrebbe avuto modo di instaurare una vera e propria guerra contro l’Ecuador, ma è stato soprattutto negli ultimi 30 anni, grazie al cosiddetto Washington Consensus, che i diritti degli stati nazionali si sono progressivamente ridotti per far posto alle multinazionali. Solo nell’arco temporale che va dal 1986 al 2016 sono stati ratificati almeno tremila accordi bilaterali caratterizzati da una clausola che stabilisce il luogo dove vengono regolate le controversie tra gli stati e le transnazionali. È così che gli investitori privati hanno avuto l’opportunità di scegliere giurisdizioni private per dirimere le loro controversie con gli stati, a partire dal Tribunale della Banca mondiale che ai tempi della guerra dell’acqua e del gas fece dannare non poco la Bolivia. In pratica, gli stati non possono tutelare i diritti umani delle loro popolazioni poiché, se lo fanno, rischiano di essere multati o, nella peggiore delle ipotesi, di finire sotto processo. La progressiva riduzione della sovranità nazionale coincide con i lauti guadagni delle imprese ogni volta che viene riconosciuta loro la vittoria in occasione di un processo. La proposta di Ecuador e Sudafrica ha avuto il merito di riprendere un vecchio sogno del presidente cileno Salvador Allende, il quale fin dal 1972, poco prima del colpo di stato, aveva propugnato la nascita di un osservatorio sulle transnazionali che finì per essere boicottato e osteggiato dalle stesse transnazionali. In un discorso risalente proprio al 1972, Allende sosteneva che era necessario “regolare il potere corporativo che stava crescendo”. Non fu un caso che poco tempo dopo, l’11 settembre 1973, avvenne il golpe.
Nonostante ci sia una fortissima pressione su Ecuador e Sudafrica affinché ritirino la risoluzione, per la quale si sono espressi a favore molti paesi di Asia, Africa e America Latina (tra i contrari, neanche a dirlo, Unione Europea e Stati Uniti), nessuno dei due stati sembra intenzionato a cedere, anzi. L’Ecuador ha già affermato che si appellerà a tutti i gradi di giustizia a farà ricorso ovunque contro il Tribunale federale di Appello degli Stati Uniti che si è pronunciato in favore di Chevron, responsabile di aver danneggiato fortemente i diritti delle comunità indigene dell’Amazzonia ecuadoriana. I prossimi passi saranno quelli di rivolgersi alla giustizia canadese, brasiliana e argentina. Il giudice che ha emesso la sentenza, Lewis Kaplan, è riuscito ad evitare la multa di 9.500 milioni di dollari, imposta a Chevron nel 2011 dal tribunale ecuadoriano di Sucumbios, ma ciò che non si dice è che proprio Kaplan vanta strettissimi legami finanziari con la stessa impresa. La vertenza tra il paese andino e Chevron (allora Texaco), va avanti almeno fin dagli anni Novanta. Lo sfruttamento degli idrocarburi, dal 1964 al 1992, senza alcuna licenza ambientale, ha distrutto due milioni di ettari dell’Amazzonia ecuadoriana e provocato lo sfollamento di migliaia di persone, ma Texaco, divenuta Chevron nel 2001, si è sempre rifiutata di pagare qualsiasi forma di indennizzo. L’Atlante globale della giustizia ambientale, coordinato dall’Istituto di scienza e tecnologia dell’Università Autonoma di Barcellona, solo in ambito latinoamericano, ha censito 99 conflitti ambientali in Colombia, 64 in Brasile, 49 in Ecuador, 36 in Argentina, 35 in Cile, 33 in Perù e 32 in Messico. Si tratta, in particolare, di conflitti legati all’estrazione mineraria, al diritto alla terra e all’acqua e alla costruzione di infrastrutture, a partire dall dighe. Ad esempio, l’Osservatorio cittadino cileno evidenzia la lentezza del governo nel produrre un piano nazionale in grado di monitorare e, soprattutto, regolare le dispute ambientali tutelando i propri cittadini.
Fra i paesi latinoamericani che hanno sostenuto la proposta di Ecuador e Sudafrica troviamo Cuba, Bolivia e Venezuela, mentre tra i contrari Perù, Messico e Colombia, che guarda caso rappresentano il blocco su cui puntano gli Stati Uniti per estendere e rafforzare l’Alleanza del Pacifico in chiave anti Alba. Se le imprese potranno continuare a godere della più completa impunità per quanto riguarda la responsabilità ambientale, le varie Chevron e Monsanto di tutto il mondo avranno l’occasione di ottenere enormi guadagni senza aver nulla da temere da tribunali a loro allineati responsabili di processi farsa.

I motivi del mio NO al Referendum - Carlo Soricelli


Come curatore dell’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro e metalmeccanico in pensione volevo spiegare a chi mi conosce e apprezza il mio lavoro volontario dei motivi del mio No al Referendum.
Alcuni sono proprio sul referendum. Il primo motivo è la legge chiamata Italicum, che da un premio di maggioranza incredibile a chi prende più voti.
Se un partito prende anche solo il 25% dei voti ma è quello con più voti prende la maggioranza assoluta dei seggi. Immaginate il partito più lontano da voi, quello che tramate al pensiero che possa prendere il potere, e che questo con la sua maggioranza possa addirittura fare leggi per distruggere l’unità del Paese e che attraverso questa maggioranza elegge senatori, il Presidente della Repubblica, i membri della Corte Costituzionale ecc. Verrà modificato in casa del vittoria del Si? Io non posso non ricordarmi di “un stai sereno” riferito all’allora primo ministro Letta. Tantissimi italiani non verrebbero così rappresentati in Parlamento. Secondo motivo il Senato non viene abolito come in tanti auspicavano, ma viene tolta solo la possibilità che i senatori siano eletti dai cittadini, visto che i senatori verrebbero di fatto nominati dai partiti politici. Il Senato esiste già dai tempi dell’antica Roma e già 2000 anni fa le classi meno abbiente eleggevano direttamente i loro senatori. Tra l’altro il risparmio con questa riforma è irrisorio, visto che tutta la struttura burocratica del Senato rimane. Già questi motivi basterebbero per votare No.
Come curatore dell’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro posso affermare, senza temere smentite che la maggioranza dei morti sul lavoro in questi nove anni di monitoraggio sono nelle piccole aziende, tra gli agricoltori, gli artigiani e le Partite Iva. Quasi inesistenti nelle aziende dove il Sindacato è presente. Il disinteresse del Governo Renzi verso queste tragedie è stato totale, se pur avvertiti con mail fin dall’insediamento della strage di agricoltori schiacciati dal trattore delle imminenti stragi che si verificano puntuali ogni anno, non è mai stata spesa una parola di Solidarietà e neppure di interventi mirati per far diminuire questa carneficina. Da quando si sono insediati il Primo Ministro Renzi, il Ministro del Lavoro Poletti e quello delle Politiche Agricole Martina i morti schiacciati dal trattore sono stati oltre 400, un numero pazzesco se pensiamo che sono vite umane perse di tutte le età. Twittano su tutto, ma mai sentito niente sui lavoratori che l’anno scorso sono morti numerosissimi, con un incremento anche rispetto al 2008, anno d’apertura dell’Osservatorio.
Ma quello che più mi ha inquietato di questo governo è stato il Jobs act. Nulla di più nefasto di questa legge per i lavoratori dipendenti che di fatto diventano tutti precari, sia i nuovi assunti che quelli che continuano a mantenere l’articolo 18. Ne spiego i motivi. Senza l’articolo 18, si limita di fatto la libera iscrizione a un sindacato che non sia al servizio delle aziende. E questo basta poco a capirlo, chi avrà il coraggio di iscriversi a un sindacato scomodo se con una scusa (ma anche senza) può essere licenziato? Crolleranno le iscrizioni al sindacato e con questo la possibilità per i lavoratori di dire la loro opinione sull’organizzazione aziendale, sulla Sicurezza, su un’ingiustizia subita, sui salari che crolleranno.  Insomma senza l’articolo 18 i lavoratori sono alla mercé di ogni tipo di angheria. Ci sono anche ottimi imprenditori e qui a Bologna ce ne sono tanti, ma ce ne sono almeno altrettanti che approfitteranno di questa libertà di “fare” per imporre tutto quello che vogliono. Io lavoravo prima dell’introduzione dello Statuto dei Lavoratori e potrei raccontarne tantissime su questo arbitrio che c’era sui luoghi di lavoro. Le prossime vittime del Jobs act saranno i lavoratori non indispensabili assunti a tempo indeterminato, in caso di crisi, vera o creata appositamente. Saranno loro a essere licenziati per poi essere rimpiazzati da lavoratori senza più l’articolo 18. Se poi io fossi un Dipendente Pubblico non dormirei sonni tranquilli su questo fronte. Con la vincita del Si questo governo si spingerà oltre e la possibilità d’introduzione del jobs act anche per questi lavoratori sarà nella logica delle cose.
Si, spero proprio che questo governo cada, che questo Parlamento dominato da lobby di ogni tipo vada a casa, che si vada finalmente alle elezioni sperando che i lavoratori dipendenti e pensionati si accorgano finalmente che in parlamento non hanno nessuno che li rappresenti e li tuteli, che in questi ultimi vent’anni hanno votato partiti e parlamentari che non hanno mai difeso i loro interessi, che decine di milioni di voti non hanno nessuna rappresentanza politica organizzata.

(Carlo Soricelli Curatore dell’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro http://cadutisullavoro.blogspot.it)

Ku Klux Klan, il fiume carsico del razzismo - Lanfranco Caminiti


Forse si può partire da due storie, da come si raccontano le cose.
La prima: Tom è uno schiavo nero, ma un uomo di fiducia del suo buon padrone bianco. Viene venduto insieme a un’altra schiava, perché la piantagione è in difficoltà. Lei scappa, e finisce in una comunità di quaccheri in Canada. Lui, Tom, no. Lui è fedele al suo padrone, sa che è stato venduto per necessità. Il figlio del padrone, il tredicenne George, che gli è affezionato, gli promette che un giorno lo libererà. Tom passa di disavventura in disavventura, ma è sempre docile. Una sola cosa si rifiuta di fare: l’aguzzino di altri neri. E pagherà caro questo rifiuto. Quando George, ormai adulto, lo ritroverà, Tom morirà tra le sue braccia. È questa, stringata, la trama di La capanna dello zio Tom, il fortunato – vendette trecentomila copie solo quando apparve, il 1850, vero best-seller dell’Ottocento – libro di Harriet Stowe. La guerra civile è ancora lontana – ci vorranno altri dieci anni – ma la Stowe è una convinta abolizionista. Il libro fu amato nel Nord degli Stati uniti – quando Lincoln incontrò la Stowe, la abbracciò commosso –, e odiato nel Sud.
La seconda storia: gli Stoleman sono una famiglia del Nord (Austin, il capofamiglia, è un politico abolizionista), mentre i Cameron sono una classica famiglia del Sud. Si conoscono, si frequentano, i rispettivi figli – maschi e femmine – intrecciano storie di amicizia e amore. La guerra civile li divide, e scava un solco fra loro. Mentre Austin Stoleman diviene sempre più potente, il Sud è in un crescendo di caos, con i neri sempre più arroganti, rozzi e brutali, appoggiati da corrotti politici repubblicani del Nord. L’Era della Ricostruzione sta mostrando un volto di tragedia: tutti i valori sono rovesciati, il mondo è sottosopra. Le elezioni sono una farsa, che finisce con il moltiplicare il desiderio di vendetta dei neri e la povertà dei bianchi. Dopo un ennesimo tentativo di violenza e stupro di un nero ai danni di una donna bianca, sarà uno dei giovani Cameron a chiamare a raccolta altri bianchi e costruire un’armata di cavalieri che ristabilisca l’ordine e i valori tradizionali del Sud: sono i Clansmen. The Clansmen è il libro di Thomas Dixon – pubblicato nel 1905 – che dieci anni dopo Griffith userà come sceneggiatura per l’epopea di Nascita di una nazione, vero capolavoro cinematografico (è il primo film in cui il plot fa da protagonista) che servirà per prestare un “codice d’onore” all’oscuro movimento del Ku Klu Klan che era stato smantellato dopo la fine della Guerra civile e favorirne la riorganizzazione, e anche per rifondarne l’immaginario simbolico – le tuniche bianche con il cappuccio, le croci sulle maniche, le croci bruciate per incutere timore, tutto questo è “opera” di Griffith. Il film – che ebbe un successo straordinario, restando per decenni in testa alla classifica delle pellicole più viste nella storia del cinema e una di quelle che produsse maggiori guadagni (il più ricco risultò proprio Dixon che accettò di prendere il venticinque percento degli incassi invece di un saldo per l’acquisto della trama) – provocò tumulti negli Stati uniti, con il boicottaggio in molti cinema del Nord e accoglienze entusiaste al Sud. Dixon disse sempre che lui non condivideva le azioni del Ku Klux Klan, anche se ne apprezzava le motivazioni. Griffith diede un colpo alla botte, dopo quello al cerchio, con il suo successivo capolavoro, Intolerance, in cui si schierava apertamente contro il razzismo.
E forse si può partire dalla storia, dalle cose come sono. La Prima sezione del XIV Emendamento della Costituzione degli Stati uniti d’America recita così: «All persons born or naturalized in the United States, and subject to the jurisdiction thereof, are citizens of the United States and of the State wherein they reside / Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati uniti e soggette alla loro giurisdizione sono cittadini degli Stati uniti e dello Stato in cui risiedono». E prosegue: «Nessuno Stato potrà legiferare o rafforzare leggi che limitino i privilegi e le immunità dei cittadini degli Stati uniti; nessuno Stato potrà privare qualsiasi persona della vita, della libertà o della proprietà senza un regolare processo; né negare a qualsiasi persona sotto la sua giurisdizione l’eguale protezione delle leggi».
Il Quattordicesimo Emendamento, votato nel 1868, mirava soprattutto a fare piazza pulita dei Black Codes nel Sud, quell’accozzaglia di disposizioni che, dopo la Guerra Civile, impedivano ancora la piena libertà dei neri, sia nel lavoro sia nella cittadinanza, ristabilendo la supremazia dei bianchi. Strenuo oppositore ne fu il Partito Democratico, che basava la sua strabordante rappresentatività negli Stati del Sud e quindi nel Congresso sull’esclusione dei neri dall’esercizio del diritto di voto. Da allora, è stato la base per diverse e controverse decisioni della Corte Suprema fino ai nostri giorni (a esempio, sull’aborto, sulla scuola, sul voto).
Allora, comunque, non bastò. E ci vollero, tra il 1870 e il 1871, gli Enforcement Acts di Ulysses Grant, il generale che aveva vinto la Guerra civile e che ora era presidente, per cercare di sistemare le cose. Furono tre leggi; la prima: «An Act to enforce the Right of Citizens of the United States to vote in the several States of this Union, and for other Purposes / per rafforzare il diritto di voto»; la seconda era sostanzialmente simile alla prima, ma veniva irrobustita perché divenisse effettiva – prevedeva una possibilità di controllo da parte federale su elezioni di stato e locali se anche solo due cittadini in città con più di ventimila abitanti l’avessero chiesto e più severità per chi ne impedisse l’applicazione, con multe più salate e in alcuni casi la prigione. La terza, formalmente: «An Act to enforce the Provisions of the Fourteenth Amendment to the Constitution of the United States, and for other Purposes / per l’applicazione del Quattordicesimo Emendamento» è anche nota come Ku Klux Klan Act. La legge consentiva al presidente di far intervenire l’esercito per ristabilire l’ordine e di sospendere l’habeas corpus, se fosse servito a fermare la violenza del Klan. Era ormai guerra dichiarata. Fu grazie a questa legge che il Klan venne portato davanti ai tribunali del Sud e molti suoi membri condannati, fino a perdersene le tracce.
Fondato nel 1866 da un pugno di veterani confederati come un social club in Pulaski, Tennessee, e estesosi in molti Stati del Sud, divenne ben presto un’altra cosa. L’anno dopo, in un convegno delle numerose branche locali, si decise che da quel momento si sarebbero chiamati «l’Invisibile Impero del Sud», con Maghi, Dragoni, Titani e Ciclopi a costituirne la gerarchia. La crescita del Klan coincise con la seconda fase della Reconstruction Era, che aveva assunto caratteri più duri: il Sud era stato diviso in cinque distretti militari e a ciascun Stato era stato intimato di convalidare il Quattordicesimo Emendamento. Molti neri cominciavano a partecipare alla vita pubblica, vincendo le elezioni locali e anche quelle per il Congresso: ovviamente, erano sotto le bandiere del Partito repubblicano. È a questo punto che iniziano le intimidazioni e le violenze del Klan, rivolte contro leader e elettori bianchi e neri repubblicani, con il tentativo di ripristinare la supremazia dei bianchi. Il Klan si unisce a altre organizzazioni simili: i Cavalieri della Bianca Camelia, della Louisiana, e la Fratellanza Bianca. Almeno il dieci per cento dei politici repubblicani eletti diventa vittima di atti di violenza: sette vengono uccisi. Bianchi repubblicani (derisi, per essere dei traffichini della politica, dei tappetari, carpetbaggers) e istituzioni nere, come chiese e scuole, sono colpiti.
Nel 1870, il Klan è ormai diffuso in quasi tutti gli Stati del Sud: ma non ha una struttura centrale o una gerarchia riconosciuta, e ogni branca locale agisce di testa propria. Una delle zone di maggior radicamento è il South Caroline, dove nel gennaio 1871 cinquecento uomini mascherati assaltano la prigione e linciano nove neri detenuti.
Sebbene successivamente – quando le azioni clamorose e clandestine del Klan divennero un boomerang, perché portavano sempre più truppe dell’Unione e sempre più controllo del Nord – i leader democratici dipinsero gli appartenenti al Klan come i bianchi più poveri del Sud, i membri dell’organizzazione attraversavano invece tutte le classi sociali: dai piccoli coltivatori ai semplici lavoratori, dai padroni delle piantagioni a avvocati, commercianti, medici, pastori. Nelle aree dove l’attività del Klan era più forte, i rappresentanti locali della legge erano iscritti o si rifiutavano di intraprendere azioni contro, e anche i membri che, arrestati, confessavano non trovavano poi testimoni che ne corroborassero le prove. Ma la durezza di Grant non si fermò;per la fine degli anni Settanta dell’Ottocento il Klan era smantellato. Solo che i suoi obiettivi – frenare l’avanzata dei neri – si erano realizzati attraverso l’immissione in massa nel Partito democratico.
Fu il film di Griffith a far rivivere il Klan. Bianchi, protestanti, la prima riunione si svolse a Atlanta, Georgia, nel 1915. Stavolta non ce l’avevano solo con i neri, ma con la Chiesa cattolica, gli ebrei, gli alcolizzati, le prostitute, quelli dalla dubbia e doppia moralità, gli immigrati, le organizzazioni sindacali e il comunismo: era il razzismo moderno. Lo sviluppo di questo secondo Klan fu impetuoso, allargandosi verso il Midwest e il West. Nel Michigan, a Detroit, c’erano quarantamila membri, lavoratori e middle class che lottavano contro gli immigrati dell’Est europeo e gli ebrei. Al Sud la maggioranza erano Democratici, altrove erano sia Repubblicani che democratici. Nel 1924, si contavano tra l’un milione e mezzo e i quattro milioni di iscritti – qualcosa che stava tra il quattro e il quindici per cento della popolazione elettorale. In Indiana, un elettore su cinque era del Klan. Ma il Klan cresceva anche nelle grandi città del Sud, come Dallas. Era un movimento di massa, il razzismo come ideologia politica.
Il “colpo di genio” del nuovo fondatore, Simmons, era stato affidarsi a due pubblicitari di mestiere, Elizabeth Tyler, detta Bessie, e Edward Young Clarke; lei, sposata la prima volta a quindici anni e dopo risposatasi tre o quattro volte, lui, un puttaniere: hanno una storia ma la tengono clandestina. Prendono le quote di iscrizione e ne versano una parte all’organizzazione centrale e ne trattengono l’altra. Combattono l’immoralità, ma si danno alla bella vita. Li scoprono, scoppia lo scandalo. Ma il colpo di grazia è il processo al Grande Dragone dell’Indiana, per il sequestro, lo stupro e l’orribile assassinio – «il corpo sembrava masticato» – di una ragazzina di sedici anni. L’eccessiva infatuazione verso il nazismo tedesco diventa poi una condanna quando l’America entra in guerra. Di nuovo, il Klan scompare.
Per riapparire quando il movimento per i diritti civili diventa una realtà forte nel Sud. È allora chetornano le croci di fuoco, la violenza, l’assassinio contro i neri e contro i bianchi venuti per aiutarli a registrarsi per il voto. Nel 1965, sarà il presidente Lyndon Johnson – un uomo del Sud, Texas – a rivolgere un discorso pubblico, in televisione, contro il Klan, dopo l’assassinio di una giovane donna bianca che organizzava le lotte per i diritti civili in Alabama.

Dagli anni Settanta in poi il Klan è solo una piccola struttura insieme a altre micro-organizzazioni di estrema destra: nel 1990 se ne stimano tra i cinque e i diecimila membri, soprattutto nelle aree del profondo Sud. Vi si iscrive anche un giovane democratico, David Duke, a appena diciassette anni, fino a diventare Gran Mago. Duke tenta più volte l’elezione con il Partito democratico, ma non ci riesce. Così, entra nel Partito repubblicano, proprio come Steve Bannon, anima nera di Breitbart News e ora consigliere strategico di Trump, prima democratico e poi repubblicano, per essere finalmente eletto. Poi, esce dal Klan. Poi chissà.
Il Klan è così, scompare e poi riappare. Come il fascismo.  

(*) Ripreso da “Comune-info” ma pubblicato anche su “il dubbio” e su lanfrancocaminiti.com.

Il fascismo profondo, ultima risorsa di Renzi - Giorgio Cremaschi


Anche se più volte son stato tentato di farlo, ho finora sempre evitato di ricorrere alla parola fascismo per definire ciò che si agita attorno alla controriforma renziana della Costituzione. Questa cautela però non ha più ragione d'essere dopo le ultime parole del presidente del consiglio, quelle a commento della sentenza della Corte Costituzionale che ha bocciato il decreto Madia. Renzi ha bollato quella sentenza come un esempio della burocrazia che blocca il paese. E naturalmente tutta la grande stampa e le tv hanno raccolto e amplificato il messaggio, gridando che per colpa della burocrazia i furbetti del cartellino la faranno franca.
Dunque secondo il presiedente del consiglio e la sua stampa la Corte Costituzionale, cioè il presidio supremo e ultimo della nostre libertà democratiche, è burocrazia. Una burocrazia che si oppone al progresso del paese e che per questo dovrebbe essere spazzata via con la nuova costituzione, che opera una cancellazione ad ampio raggio di poteri democratici a favore del governo, che così finalmente potrebbe decidere senza intralci.
Peccato però che attualmente sia ancora in vigore la vera Costituzione e che, come suo dovere, la Corte ne abbia preteso il rispetto da parte di un governo che invece si comporta come se avesse già vinto il referendum. Il decreto Madia è stato bocciato perché non prevede alcun ruolo delle regioni in quel processo di privatizzazione e liquidazione del pubblico che costituisce il suo scopo di fondo. Si badi bene la Corte non è arrivata a giudicare incostituzionale la svendita di servizi e stato sociale, ma ha semplicemente detto che secondo le regole vigenti il governo non può fare tutto da solo.
Apriti cielo, la burocrazia ci blocca, ha urlato il coro dei renziani. La legalità ci uccide esclamò il reazionario francese Barrot nel 1849. Le classi dominanti chiamano pastoie burocratiche le regole democratiche e i diritti quando vogliono sovvertirli, quando ritengono che il loro affari ed interessi siano troppo frenati dai lacci e laccioli che vengono dalla democrazia. Questo sovversivismo dall'alto è una caratteristica storica delle classi dirigenti del nostro paese, come ci ha insegnato Antonio Gramsci sul fascismo. E oggi questa storica insofferenza verso regole e diritti da parte dei potenti di casa nostra può godere di due fondamentali apporti. Da un lato la spinta del capitalismo finanziario multinazionale a distruggere ogni costruzione pubblica che freni il suo dominio. È stata la banca Morgan ad affermare brutalmente come le costituzioni antifasciste costituiscano un freno al pieno dispiegarsi delle politiche liberiste e di austerità. D'altro lato la rabbia popolare per le devastazioni della crisi a volte spinge a trovare il colpevole nel vicino di casa, migrante o impiegato pubblico a seconda delle preferenze. E il sistema mediatico da anni alimenta la guerra tra i poveri e la sfiducia verso la democrazia.
Così quando il presidente del consiglio chiama burocrazia la democrazia, sintetizza tre spinte reazionarie. Quella delle multinazionali, quella dei nostri poteri forti di sempre, quella qualunquista di massa. Renzi tenta la stessa fusione politica riuscita al fascismo storico, naturalmente con altre forme e modi, ma con un punto comune: il ricorso alla insofferenza che in Italia c'è verso regole e diritti, il sentimento per il quale alla fine ci voglia qualcuno che comandi sul serio senza ostacoli. Una volta erano i treni che dovevano arrivare in orario ora sono le leggi, il concetto di fondo è sempre lo stesso. Il fascismo è un' autobiografia della nazione, scrisse Piero Gobetti.
Non pensiamo quindi che le frasi reazionarie e sovversive di Renzi siano un errore, esse sono invece una calcolata ultima carta per vincere il referendum. Che la controriforma ha già perso tra la popolazione più attiva e attenta, ma che può ancora vincere se si muove la maggioranza silenziosa. Quella a cui si rivolge ora la campagna del presidente del consiglio, solleticandone i più antichi pregiudizi, risvegliandone le più irrazionali paure. Attenzione, in un paese logorato da dieci anni di crisi economica senza uscita e da un ancora più lungo percorso di riduzione della democrazia, l'appello di Renzi al fascismo profondo che si annida nella società può avere successo.
In questi ultimi giorni di campagna referendaria vanno denunciati con forza gli interessi economici ed i poteri che si celano dietro la controriforma della costituzione. Interessi e poteri che in caso vittoria si considererebbero svincolati da ogni limite. Va diffuso l'allarme democratico per un successo del SI, che farebbe un danno persino superiore a quello dei contenuti autoritari della costituzione renziana. Dobbiamo far capire che basta un SI per rovinarci.