il Corriere della Sera, 19 novembre 2016. Novantantun anni, 102 libri, 26
milioni di copie solo in Italia: Andrea Camilleri è lo scrittore più importante
che abbiamo. «Vorrei l’ eutanasia, quando sarà il momento. La morte non mi
fa paura. Ma dopo non c’ è niente. E niente di me resterà: sarò dimenticato,
come sono stati dimenticati scrittori molto più grandi. E quindi mi viene
voglia di prendere il viagra, di ringiovanire, pur di vivere ancora qualche
anno, e vedere come va a finire. Vedere che presidente sarà Trump: uno tsunami
mondiale, un Berlusconi moltiplicato per diecimila. E vedere cosa sarà del mio
Paese».
«A guardare l’ Italia ridotta così, mi sento in colpa. Avrei voluto fare
di più, impegnarmi di più. Nel Dopoguerra ci siamo combattuti duramente, ma
avevamo lo stesso scopo: rimettere in piedi il Paese. Oggi quello spirito è
scomparso».
Renzi non è un buon presidente del Consiglio?
«No. È un giocatore avventato e supponente. Mi fa paura quando racconta balle: ad esempio che il futuro dei nostri figli dipende dal referendum. Mi pare un gigantesco diversivo per realizzare un altro disegno».
«No. È un giocatore avventato e supponente. Mi fa paura quando racconta balle: ad esempio che il futuro dei nostri figli dipende dal referendum. Mi pare un gigantesco diversivo per realizzare un altro disegno».
Quale?
«Mi sfugge, ma c’è».
«Mi sfugge, ma c’è».
Al referendum andrà a votare?
«Pur di votare No mi sottoporrò a due visite oculistiche, obbligatorie per entrare nella cabina elettorale accompagnato. Io le riforme le voglio: il Senato deve controllare la Camera, non esserne il doppione. Ma questa riforma è pasticciata. E non ci consente di scegliere i nostri rappresentanti».
«Pur di votare No mi sottoporrò a due visite oculistiche, obbligatorie per entrare nella cabina elettorale accompagnato. Io le riforme le voglio: il Senato deve controllare la Camera, non esserne il doppione. Ma questa riforma è pasticciata. E non ci consente di scegliere i nostri rappresentanti».
Spera nei Cinque Stelle?
«Non mi interessano. Non ci credo. Mi ricordano l’ Uomo Qualunque: Grillo è Guglielmo Giannini con Internet. Nascono dal discredito della politica, ma non hanno retto alla prova dei fatti: Pizzarotti è stato espulso dal movimento; la Raggi non mi pare stia facendo grandi cose».
«Non mi interessano. Non ci credo. Mi ricordano l’ Uomo Qualunque: Grillo è Guglielmo Giannini con Internet. Nascono dal discredito della politica, ma non hanno retto alla prova dei fatti: Pizzarotti è stato espulso dal movimento; la Raggi non mi pare stia facendo grandi cose».
Se vince il No cosa succede?
«Entra in campo Mattarella. Che si comporterà bene; perché è un gran galantuomo».
«Entra in campo Mattarella. Che si comporterà bene; perché è un gran galantuomo».
Il padre fascista e Montalbano
«Galantuomo era mio padre Giuseppe, anche se avevamo idee politiche opposte. Lui aveva fatto tutta la Grande guerra nella Brigata Sassari. Adorava il suo comandante: Emilio Lussu. Vide morire Filippo Corridoni. Poi divenne fascista e fece la marcia su Roma. Però quando il mio compagno Filippo Pera mi disse che non sarebbe più venuto a scuola perché era ebreo, mio padre si indignò: “È una sciocchezza che il Duce fa per il suo amico Hitler“.
«Galantuomo era mio padre Giuseppe, anche se avevamo idee politiche opposte. Lui aveva fatto tutta la Grande guerra nella Brigata Sassari. Adorava il suo comandante: Emilio Lussu. Vide morire Filippo Corridoni. Poi divenne fascista e fece la marcia su Roma. Però quando il mio compagno Filippo Pera mi disse che non sarebbe più venuto a scuola perché era ebreo, mio padre si indignò: “È una sciocchezza che il Duce fa per il suo amico Hitler“.
Lealtà, fedeltà alla parola data, ironia, arte di guardare oltre le cose:
sotto molti aspetti Montalbano è il ritratto di papà. Fu mia moglie Rosetta a
farmelo notare. I padri si innamorano sempre un po’ delle mogli dei figli; e
Rosetta a lui ha voluto molto bene».
«Il matrimonio dei miei genitori era stato combinato. Nozze di zolfo,
toccate anche a Pirandello: gli zolfatari facevano sposare i loro eredi per
concentrare la proprietà, e ritardare il fallimento cui erano condannati. Però
il matrimonio dei miei era riuscito. Quando mio padre morì, Turiddu Hamel, il
sarto, si inchinò al passaggio della bara. Hamel era l’ antifascista del paese.
Mi raccontò che, quando stava morendo di fame perché entrava e usciva dal
carcere, papà gli aveva commissionato una divisa nera: “E sia chiaro che non
lo faccio per sfregio…”. “To patri sapiva campari” mi disse il
vecchio sarto: Giuseppe Camilleri sapeva vivere».
La guerra di casa
«Anche io sono stato fascista. Avevo sedici anni quando il Duce annunciò la guerra: ascoltai il discorso dagli altoparlanti in piazza. Tornai a casa entusiasta, e trovai nonna Elvira e nonna Carolina in lacrime. Tutte e due avevano perso un figlio nelle trincee: “A guerra sempre tinta è“, la guerra è sempre cattiva. Anche mio padre la conosceva. E conosceva gli inglesi».
«Anche io sono stato fascista. Avevo sedici anni quando il Duce annunciò la guerra: ascoltai il discorso dagli altoparlanti in piazza. Tornai a casa entusiasta, e trovai nonna Elvira e nonna Carolina in lacrime. Tutte e due avevano perso un figlio nelle trincee: “A guerra sempre tinta è“, la guerra è sempre cattiva. Anche mio padre la conosceva. E conosceva gli inglesi».
«Il primo a dirmi che in realtà ero comunista fu il vescovo di Agrigento,
Giovanbattista Peruzzo, piemontese di Alessandria. Leggevo le firme delle
riviste del Guf, Mario Alicata, Pietro Ingrao, e mi riconoscevo. Ma la vera
svolta fu un libro, che mi fece venire la febbre e mi aprì gli occhi: La
condizione umana di Malraux».
«Nell’ estate del ’42 andai a Firenze al raduno della gioventù fascista. C’
era il capo della Hitler Jugend, Baldur von Schirach, venuto ad
annunciare l’ Europa di domani: un’ enorme caserma, con un unico vangelo, il Mein
Kampf. C’ erano ragazzi e ragazze di tutta l’ Europa occupata: Francia,
Spagna, Polonia, Ungheria; le ungheresi erano bellissime, facemmo amicizia
parlando latino. Sul fondale c’ era un’ enorme bandiera tedesca. Protestai: “Siamo
in Italia!“. Così issarono anche un tricolore. Ma Pavolini mi individuò tra
la folla, mi chiamò, e mi rifilò un terribile càvucio nei cabasisi: insomma, un
calcio nelle palle. Finii in ospedale. Il prefetto, che era amico di mio padre,
mi fece trasferire in una clinica privata, nel caso che Pavolini mi avesse
cercato».
«Fui richiamato il primo luglio 1943. Mi presentai alla base navale di
Augusta e chiesi la divisa. “Quale divisa?“. Mi mandarono a spalare
macerie in pantaloncini, maglietta, sandali e fascia con la scritta Crem: Corpo
reale equipaggi marittimi. La mia guerra durò nove giorni. Nella notte
dell’ 8 luglio il compagno che dormiva nel letto a castello accanto al mio
sussurrò: “Stanno sbarcando“. Uscii sotto le bombe, buttai la fascia,
tentai l’ autostop: incredibilmente un camion si fermò. Arrivai così a
Serradifalco, nella villa con la grande pistacchiera dove erano sfollate le
donne di famiglia. Zia Giovannina fece chiudere i cancelli e mettere i
catenacci: “Qui la guerra non deve entrare!“. Arrivarono gli americani e
abbatterono tutto con i carri armati».
«In testa c’ era un generale su una jeep guidata da un negro. Passando vide
una croce, là dove i tedeschi avevano sepolto un camerata fatto a pezzi da una
scheggia. Il generale battè con le nocche sull’ elmetto del negro, e la jeep si
fermò. Prese la croce, la spezzò, la gettò via. Poi diede altri due colpi sull’
elmetto, e la jeep ripartì. Sfilarono altri sedici uomini. Io ero annichilito
dalla paura. L’ ultimo mi sorrise e mi parlò: “Ce l’ hai tanticchia d’ olio,
paisà? Agghio cogliuto l’ insalatedda…”. Erano tutti siciliani. Mi sciolsi
in un pianto dirotto, e andai a prendere l’ olio per l’ insalata. Poi chiesi
chi fosse l’ uomo sulla jeep. Mi risposero: “Chisto è o mejo generale che
avemo; ma como omo è fitusu. S’ acchiama Patton“».
I litigi con Sciascia
«Noi comunisti siciliani le elezioni le avevamo vinte. Alle Regionali dell’ aprile 1947 il Blocco del popolo prese 200 mila voti più della Dc. Il Primo maggio mi ritrovai con gli amici a festeggiare, e mi ubriacai. Arrivò la notizia di Portella della Ginestra: gli agrari avevano fatto sparare sui compagni. Vomitai tutto. Da allora non ho più toccato un goccio di vino».
«Noi comunisti siciliani le elezioni le avevamo vinte. Alle Regionali dell’ aprile 1947 il Blocco del popolo prese 200 mila voti più della Dc. Il Primo maggio mi ritrovai con gli amici a festeggiare, e mi ubriacai. Arrivò la notizia di Portella della Ginestra: gli agrari avevano fatto sparare sui compagni. Vomitai tutto. Da allora non ho più toccato un goccio di vino».
«Leonardo Sciascia era di un anticomunismo viscerale. Eravamo molto amici,
ma abbiamo litigato come pazzi. Nei giorni del sequestro Moro lui e Guttuso
andarono da Berlinguer e lo trovarono distrutto: Kgb e Cia, disse, erano d’
accordo nel volere la morte del prigioniero. Sciascia lo scrisse. Berlinguer
smentì, e Guttuso diede ragione a Berlinguer. Io mi schierai con Renato: era
nella direzione del Pci, cos’ altro poteva fare? Leonardo la prese malissimo: “Tutti
uguali voiauti comunisti, il partito viene prima della verità e dell’ amicizia!“».
«Un’ altra cosa non mi convinceva di Sciascia. Nei suoi libri a volte
rendeva la mafia simpatica. A teatro gli spettatori applaudivano, quando nel Giorno
della civetta don Mariano distingue tra “uomini, mezzi uomini,
ominicchi, piglianculo e quaquaraquà“. Leonardo mi chiedeva: ma perché
applaudono? “Perché hai sbagliato” gli rispondevo. Altre volte rendeva
la mafia affascinante. “Lei è un uomo” fa dire a don Mariano. Ma la
mafia non ti elogia, la mafia ti uccide; per questo di mafia ho scritto
pochissimo, perché non voglio darle nobiltà. Eppure a Leonardo ho voluto un
bene dell’ anima. Andavo di continuo a rileggere i suoi libri. Per me erano come
un elettrauto: mi ricaricavano».
La cecità
«Da quando sono diventato cieco, i pensieri tinti mi visitano più spesso. Cerco di scartarli; però tornano. A volte mi viene la paura del buio, come da bambino. Una paura fisica, irrazionale. Allora mi alzo e a tentoni corro di là, da mia moglie. Per fortuna ho Valentina, cui detto i libri: è l’ unica che sa scrivere nella lingua di Montalbano, anche se è abruzzese.
«Da quando sono diventato cieco, i pensieri tinti mi visitano più spesso. Cerco di scartarli; però tornano. A volte mi viene la paura del buio, come da bambino. Una paura fisica, irrazionale. Allora mi alzo e a tentoni corro di là, da mia moglie. Per fortuna ho Valentina, cui detto i libri: è l’ unica che sa scrivere nella lingua di Montalbano, anche se è abruzzese.
Fino a poco fa vedevo ancora le ombre. Sono felice di aver fatto in tempo a
indovinare il viso della mia pronipote, Matilde. Ora ha tre anni, è cresciuta,
mi dicono che è bellissima, ma io non la vedo più. Di notte però riesco a
ricostruire le immagini. L’ altra sera mi sono ricordato la Flagellazione di
Piero della Francesca. Ho pensato all’ ultima volta che l’ ho vista, a Urbino –
aprirono il Castello apposta per me -, e l’ ho rimessa insieme pezzo a pezzo. È
stato meraviglioso».
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