Ogni palestinese
conosce l’espressione infantile del suo viso, che il dolore ha trasformato [in
quella] di un adulto. Nei media israeliani è permesso pubblicare solo la prima
lettera del suo nome, A. Quello, e il fatto che questo processo si è tenuto a porte
chiuse è stata la sommatoria di un trattamento speciale adeguato ad un
adolescente di 13 anni e 9 mesi quando avrebbe commesso i reati per i quali è
stato condannato.
E tutto il resto –
il suo arresto dopo che la folla l’aveva aggredito, le sue ferite, l’interrogatorio
brutale, l’accusa più grave, il giudizio e la sentenza – il sistema giudiziario
lo ha trattato esattamente nel modo in cui l’opinione pubblica israeliana
chiedeva: vendetta, vendetta, vendetta.
I giudici Yoram
Noam, Rivka Friedman-Feldman e Moshe Bar-Am lo hanno giudicato colpevole di due
tentativi di omicidio, sebbene non abbia accoltellato nessuno. Fin da principio
ha raccontato a coloro che lo interrogavano e ai giudici che lui e suo cugino,
Hassa Manasra, sono andati circa un anno fa a Pisgat Ze’ev [colonia israeliana,
ndt.] per spaventare gli ebrei con i coltelli che avevano con sé ( a causa del
modo in cui il regime israeliano opprime i palestinesi ), forse per
accoltellare qualcuno, ma senza volere ammazzare nessuno. È stato condannato
perché il quindicenne Manasra ha accoltellato un giovane e un ragazzo ( la
squadra della polizia di frontiera avrebbe potuto arrestarlo ma lo hanno ucciso
come è di moda da queste parti).
I giudici non hanno
dato importanza alla testimonianza di A, che lui e Manasra avevano deciso fin
dall’inizio che non avrebbero ferito donne, bambini o anziani; di proposito non
hanno provato a colpire un vecchio che hanno incrociato sul loro cammino. I
giudici non hanno dato credito al racconto di A, che ha provato a evitare che
suo cugino ferisse il ragazzo. I giudici non hanno dato il debito peso al fatto
che A. avrebbe potuto confessare subito il tentato omicidio, così sarebbe stato
condannato prima di raggiungere i 14 anni ( e così non sarebbe stato mandato in
prigione). Semplicemente non ha accettato di confessare qualcosa che non aveva
intenzione di fare.
L’ ufficiale
responsabile della libertà vigilata, che ha dato parere favorevole per un
processo di rieducazione di A, ha raccomandato la corte di seguire il consiglio
dell’assistente e di tenere il ragazzo fino all’età di 18 anni in una comunità
residenziale vigilata. Ma i giudici hanno imposto una condanna di 12 anni di
prigione al ragazzo quattordicenne che non aveva ferito nessuno. Non hanno
nemmeno dato ascolto alla richiesta di mettere A in una comunità residenziale
vigilata fino al raggiungimento dei 18 anni.
“Fin da oggi!” ha
decretato il giudice Noam la scorsa settimana nel giorno della sentenza. Il
ragazzo deve essere immediatamente condotto in prigione (Megiddo). La vendetta
è gradevole e per renderla ancora più dolce i giudici hanno ordinato al minore
di pagare un risarcimento di 180.000 shekel (pari a 44mila euro) alle parti
lese. Che la famiglia si rovini completamente, perché no?
I giudici avrebbero
potuto considerare altre sentenze , che affermano come sia impossibile
giudicare i comportamenti dei bambini con gli stessi criteri di quelli usati
per un adulto. Avrebbero potuto prendere spunto dai giudici che hanno decretato
condanne di 24 mesi e di 54 mesi rispettivamente [da scontare] in una comunità
residenziale vigilata a due minori ebrei che hanno ucciso un vecchio che aveva
rifiutato di dargli una sigaretta. Ma Noam e i suoi colleghi hanno preferito
considerare “l’ondata di terrore” e “il fattore nazionalistico” piuttosto che
il ragazzino.
Se avessero tenuto
in considerazione il fatto che si trattava di un ragazzino avrebbero giudicato
così:
“Dinanzi a noi sta
un altro adolescente che dal momento della nascita a Gerusalemme ha subito una
discriminazione metodica e intenzionale a favore dei bambini ebrei suoi
coetanei: riguardo alla casa, alla scuola, alle opportunità lavorative, alle
infrastrutture, alla libertà di movimento e alle scelte, al diritto ad avere
un’identità collettiva.
Dinanzi a noi sta un
altro ragazzo che sfortunatamente ha subito quotidianamente la brutalità della
polizia, il disprezzo della municipalità e la malvagità del sistema. Un altro
ragazzo che è confuso dalla [reazione]debole degli adulti nei confronti di
tutta questa malvagità e la tendenza all’emulazione lo ha spinto a compiere un
gesto assurdo e pericoloso a cui i suoi genitori si sono opposti e di cui oggi
egli stesso si è pentito. Lo manderemo in una comunità residenziale vigilata
per pochi anni, per riflettere, per capire e per rieducarsi.
Il mutamento della
situazione generale non dipende solamente da noi, ma è stato già dimostrato che
le uccisioni, le demolizioni di case e le sproporzionate condanne alla
detenzione e al pagamento di multe non sono dei deterrenti. Al contrario.
Mandano un messaggio ad altri palestinesi che gli ebrei li odiano, li
perseguono, li opprimono e li espellono solo perché sono palestinesi.”
(traduzione di Carlo Tagliacozzo – Zeitun.info)
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