Le radici della violenza sono
nella cultura patriarcale che ancora informa di sé le strutture e i programmi
di scuola e università, le scelte di valutazione delle risorse necessarie
all’umanità e le istituzioni che regolano la relazione donna-uomo in ordine
alla riproduzione della specie umana.
Acqua, aria, terra e
riproduzione della specie: sono gli elementi dell’ecosistema che per noi umani
costituisce la vita.
L’economia, che pure significa
casa e quindi gestione dell’abitare umano, diventata scienza nell’età del
capitalismo, considera solo la terra nel paradigma della ricchezza, eppure
dell’aria parlano, nei loro incontri, i potenti che si spartiscono i territori,
le guerre per l’acqua sono già cominciate e quella per il dominio sulla
riproduzione della specie è antica di qualche millennio, dichiarata dagli
uomini che hanno inventato gli eserciti come forma dell’agire, articolata nelle
strutture sociali dell’arruolamento di uomini, ma anche di donne, a sostegno
dei pilastri di una gerarchia sociale che si fonda sulla relazione impari tra i
sessi e da questa produce la forma mentis in cui, di volta in volta, possono
crescere e proliferare tutte le ideologie e pratiche discriminatorie.
Non so cos’è una donna.
Appartengo alla generazione, che ha radicato soprattutto domande dentro il
percorso della vita, mettendo in discussione tutte le risposte: quelle
dell’educazione famigliare e sociale, quelle della scuola e via via quelle che
scoprivamo agite dai nostri stessi gesti, dentro le scelte apparentemente
libere, sedimentate dentro di noi dal brodo culturale dal quale non possiamo
mai prescindere perché parte stessa della nostra sopravvivenza, il cui
cambiamento ha tempi sempre diversi dal nostro sogno che li prefigura.
E’ una lunga storia quella del
dominio maschile sull’esistenza di donne e uomini: dentro l’impronta delle
relazioni umane il dominio assoggetta e vincola gli stessi uomini a forme
dell’essere e dell’esistere dalle quali è difficile liberarsi finché la
contropartita in privilegi è tale da offuscare i guadagni che pure verrebbero
da relazioni fondate su reciproca libertà.
Del resto accade anche alle
donne di accomodarsi, magari malamente, dentro le forme sociali disegnate su
gerarchie e privilegi, perché la ricerca dell’autonomia e della libertà
comporta fatiche molto eccedenti quelle già presenti nel quotidiano vivere di
molte.
Siamo cresciute nella normale
violenza di non sapere nulla delle donne a scuola, di dover diffidare dei
nostri stessi sentimenti perché l’innamoramento poteva nascondere la trappola
dell’asservimento, nella normale violenza di assuefarci a studiare uomini che
citano altri uomini, a considerare le donne una minoranza poco significativa
dal punto di vista intellettuale e scientifico, a trasmettere la cultura che ci
nega e ci denigra.
Abbiamo dovuto capire,
lentamente, prima con stupore e poi con rabbia, come l’intelligenza del mondo e
delle cose potesse convivere in un uomo con l’ottusità nella relazione e
l’insipienza fino alla stupidità nella gestione di quel lavoro, che nessuno
definisce come tale, ma su cui si fonda l’autentica autonomia personale.
Abbiamo accettato una violenza
sottile e diffusa che ci ha ingabbiate proprio perché e quando ci sentivamo al
riparo da quella più brutale di calci pugni sberle stupro insulti, che pure
sapevano appannaggio di molte vite delle nostre simili.
La cittadinanza astratta
sancita dalla pienezza dei diritti politici, così come i rapporti di potere
sociale li hanno configurati e declinati nelle forme istituzionali, è stata un
primo passo ma, certo, tra alcuni altri faticosamente compiuti e molti ancora
perfino da pensare, il più decisivo alla fine è stato quello che ha aperto le
porte della scuola, degli studi superiori e dell’università a tutti,
determinando la prima grande e generalizzata scolarizzazione di bambine e
ragazze con esiti impensati.
Le ragazze sono mediamente più
brave a scuola, si diplomano e laureano in numero superiore, vincono i pubblici
concorsi (che sono anonimi) accedendo così a prestigiose carriere
professionali, anche se in misura inferiore al tanto decantato merito.
Ora però ci si aspetta dalle
donne, dalle ragazze, che accedano secondo le regole sociali che stabiliscono
l’appartenenza alle gerarchie dei ruoli e delle condizioni, tacendo sul tessuto
simbolico che ancora ne umilia l’esistenza cancellandone la storia di genere.
Ma non è cooptando quote di
donne nel sistema politico come nella struttura sociale articolata nella
gerarchia delle professioni e dei ruoli che viene automaticamente iscritta
l’autonomia di ogni donna a determinare la propria storia.
Non è un atto che avviene a un
tempo per tutte e una volta per tutte.
L’autonomia dovrebbe fondarsi
sull’accesso alle risorse indipendentemente dall’appartenenza famigliare e
territoriale, garantita dai diritti che nella cosiddetta modernità sono stati
via via elaborati proprio in quelli civili, l’integrità della persona e la sua
libertà; politici, la possibilità di partecipare alle decisioni comuni; e
sociali, l’accesso all’istruzione, alla sanità, a tutti i servizi che
garantiscono un’esistenza dignitosa; fino al lavoro, che diventa diritto
proprio per sottrarre la produzione e riproduzione delle risorse allo
sfruttamento imposto con la forza.
Nella realtà il vincolo feudale
che ha legato matrimonio e patrimonio ancora agisce nella trasmissione del
potere sociale sulle risorse e perfino nel tessuto legislativo che, ad esempio
in Italia, non ha ancora recepito la lettera e lo spirito della Costituzione
repubblicana.
E non è certo condividendo
spazi, tempi, professioni un tempo riservate ai maschi, gareggiando sullo
stesso piano, ottenendo risultati perfino superiori, dimostrando di poterli
eguagliare, che si abbattono i pilastri del patriarcato, se contribuiamo a
occultare il lavoro della riproduzione domestica (genericamente definito di
cura) appaltandolo ad altre donne con minore possibilità di contrattazione
sociale o perfino, oggi, a uomini, che la crisi dei lavori produttivi mette in
competizione con il tradizionale esercito di lavoro di riserva ascritto al
femminile nella pratica del capitalismo.
Le donne, pur diverse e
diversamente collocate nella stratificazione sociale, continuano a condividere
la comune condizione di un’iscrizione recente e ancora parziale in una
cittadinanza neutra che, fondata sull’astrazione maschile dell’umanità, non
considera i corpi nella determinazione della fisicità che nasce cresce e muore
e della realtà di una lunga condizione prenatale che accade in un grembo
femminile.
Non si prescinde dal corpo
reale e anagrafico, al quale riconduce banalmente perfino l’insulto, che agli
uomini è riservato per le azioni o, guarda caso, per l’essere figlio di sola
madre: un bastardo.
L’autodeterminazione, scritta
per la prima volta nella legge 194, pur con tutti i distinguo del fatto di
essere una disposizione legislativa finalizzata a cancellare la condanna penale
e sociale dell’aborto e favorire la procreazione libera e responsabile, ha
incrinato una struttura simbolica millenaria, quella che interdiceva alle donne
la piena disposizione del proprio corpo, così com’è nel diritto alla libertà personale
per gli uomini.
La prima pervasiva e diffusa
forma di violenza è la strutturale negazione di questo sapere nei processi di
trasmissione e riproduzione della cultura.
Il sessismo non è solo un
problema di mancanza di informazioni sulle donne, ma è la forma stessa delle
strutture disciplinari, sedimentato in un linguaggio neutro che, nascondendo i
generi, mistifica e falsifica la storia umana nella realtà vissuta da donne e
uomini in quella costruzione dei processi stessi della conoscenza di cui vogliamo
tracciare la memoria.
Il sessismo resta strutturale
anche nell’impianto scolastico degli studi superiori, segnato dall’incapacità
di fare i conti con l’inevitabile mescolanza di quelli che vengono
impropriamente definiti lavori manuali e lavori intellettuali, impastato con il
classismo che oggi si tenta di rilanciare sotto le mentite spoglie del merito e
mortificando la scuola pubblica con dissennati tagli delle risorse che ne
umiliano le professionalità e l’utenza.
La scolarizzazione delle
ragazze è stata, negli ultimi trent’anni, quell’imprevisto della storia, ormai
da qualche secolo rappresentato proprio dall’irrompere delle donne su una scena
ancora saldamente disegnata dalle forme patriarcali dei soggetti.
Pensiamo alle donne della
Rivoluzione francese come a quelle di una resistenza civile determinante nella
seconda guerra mondiale e gli esempi sono ormai ampiamente documentati.
Un imprevisto che rende
visibili le carenze di una scuola che non si è limitata a mortificare
cancellare deformare le presenze femminili, comprese quelle insegnanti,
arruolate per lo più a scambiare un’emancipazione, ancora debolmente scritta
nella percezione sociale, con l’asservimento alla riproduzione della cultura
che le nega, ma continua a sostenere le forme di relazione gerarchica
dell’impianto originario, mutuato dalla ratio studiorum dei Gesuiti e dal sistema dei collegi
militari, oggi rafforzato dal modello aziendale che legittima pratiche di
competizione, esercizio al possesso, cancellazione delle procedure cooperative,
standardizzazione dell’insegnamento, fordizzazione dei tempi, fornendo modelli
di adattamento ipocrita, sterile aggressività, mortificazione di qualsiasi
spirito critico e dissuasione alla libera ricerca di sé, delle proprie
inclinazioni e talenti. Modello che mortifica le/gli studenti perché asserve
prima di tutto le/gli insegnanti cancellando le pratiche democratiche della
collegialità e alienando i soggetti proprio dentro la struttura che dovrebbe
promuovere il libero pensiero e salvaguardarne la responsabilità.
Negli ultimi vent’anni è stata
via via, sempre più velocemente, cancellata la tradizione pedagogica che si era
fatta strada tenacemente, grazie all’impegno di maestre (moltissime) e maestri
(sempre meno), nella scuola primaria; la speranza tracciata dalla scuola media
unificata e dall’innalzamento del diritto allo studio, le tante sperimentazioni
che avevano aperto la scuola superiore alla feconda interazione col territorio,
all’incontro con testimoni di cultura e di storia, alla ricerca e al confronto
democratico.
Non si parla a scuola nemmeno
del denaro e delle sue fonti, del modo in cui l’attribuzione del valore di
scambio esclude il lavoro della riproduzione biologica e domestica dalla
considerazione politica e accademica, relegando i lavori della riproduzione
sociale, (scuola, sanità, pubblica amministrazione, lavori di assistenza cura
accompagnamento delle persone nei momenti difficili o cruciali della vita),
nella categoria dei servizi e quindi in quel generico Welfare che, soprattutto
in Italia, ha rappresentato una piccola concessione del profitto alla necessità
di cooptazione delle classi subalterne nel sogno di dominio dell’Occidente ed
ora viene rapidamente cancellato nella prospettiva di rilancio di un
feudalesimo camuffato da pragmatismo ed efficienza.
Gli uomini che uccidono,
stuprano, menano le mani, hanno vissuto infanzia e adolescenza, come minimo
almeno undici anni della loro vita (ma ormai spesso quasi il doppio) per la
maggior parte delle giornate, in una scuola, che ha esteso la sua influenza
strutturando il calendario famigliare, come le aspettative dei genitori e tutto
il sistema relazionale che ne discende.
Lo stesso vale per le donne che
quella violenza subiscono e non dimentichiamo che la denuncia è il fenomeno
drammaticamente finale di un percorso che non riusciamo a quantificare in
entità e durata: l’abbiamo definita come la punta di un iceberg e chiunque
abbia conosciuto una donna che chiede aiuto sa come sia difficile stabilire da
quanto tempo la violenza teneva prigioniera la sua vita.
Allo stesso modo sappiamo dalle
storie note e meno note che non esiste il cosiddetto raptus e che per molti
uomini la violenza è una cultura di cui vanno fieri.
Oggi la crisi mette a rischio
l’autonomia che deriva dal lavoro molto più per le donne che per gli uomini, le
cui possibilità sono aggravate non solo dal venir meno dei settori produttivi,
ma proprio dalla cancellazione dei lavori della riproduzione sociale, verso i
quali le ragazze sono state indirizzate anche negli studi.
Questi lavori però, l’assistenza
ad anziane e anziani, la cura di malate e malati, l’accompagnamento di
disabili, l’educazione di bambine e bambini e molto altro, restano necessari,
anzi indispensabili e in questo la tradizionale ideologia familista soccorre
l’insipienza dei governi, rilanciando il ruolo femminile come soluzione che
nobilita il lavoro gratuito obbligatorio mistificato nel welfare familiare,
pessimo neologismo che dovrebbe far rabbrividire ogni economista.
E non a caso in Italia la
Convenzione di Istanbul viene approvata in un parlamento semivuoto e si spaccia
per lotta al femminicidio, ovviamente a costo zero, un discutibile decreto
sulla sicurezza. Non a caso si fa sempre più duro l’attacco alla 194 e
all’autodeterminazione delle donne, non solo in Italia, nella distrazione della
quasi totalità del consesso politico.
Eppure proprio
sull’autodeterminazione delle donne nelle scelte riproduttive si gioca oggi la
concezione della democrazia perché senza la libera disposizione del proprio
corpo il libero arbitrio è un insulto e lo stato di diritto manca del suo
fondamento nella libertà personale.
Senza le condizioni per
l’autonomia le donne tornano alla contrattazione privata delle risorse per
vivere e soprattutto per agire la scelta di maternità, e intorno non manca chi
legittima e benedice la dipendenza economica in nome del ruolo materno, come se
si trattasse di una condizione immobile, che infatti estende l’obbligo del
lavoro gratuito delle donne dall’educazione di figlie e figli all’assistenza e
servizio di tutte le persone non autosufficienti della famiglia, trasformando
la maternità in un maternage sociale gratuito obbligatorio.
Le discontinuità che possono
segnare le nuove generazioni diventa possibilità se hanno libero accesso alla
conoscenza del passato, necessariamente attraverso le sintesi della memoria e
della storia, purché non siano fortemente deprivate da operazioni di
cancellazione deformazione falsificazione, altrimenti il rischio e la fatica
diventano la condizione del ricominciare ogni volta da capo, come accade
continuamente alle donne.
Scrivevo, nei miei primi anni
d’insegnamento, quando il piano di lavoro non era una gabbia preconfezionata da
riempire di crocette, che le ragazze e i ragazzi avevano diritto ad avere a
disposizione tutto il sapere e la storia dell’umanità per agire pienamente la
libertà di scegliere per la propria vita.
Fa parte della stereotipia
meschina pensare che la storia guardata nell’interezza dell’umanità e le opere
delle donne debbano rappresentare al massimo un approfondimento opzionale, una
“finestra” nel programma, un argomento marginale e non una sfida appassionante
per giovani menti e cuori e corpi che possono trovare nel sapere, in ogni
sapere, risposte utili per le loro vite e nuove domande con cui aprire gli
scenari del futuro.
Non si tratta di aggiungere
educazioni, ritagliate in qualche ora affidata al compito di esperte/i che non
vivono la vita quotidiana nella scuola, ma di accogliere l’esperienza e le
competenze di professionalità anche esterne dentro una quotidianità scolastica
che favorisce la riflessione sulle relazioni umane perché ne guida il libero
sviluppo, a cominciare dalla fondamentale esperienza della democrazia fino alla
cura e manutenzione di ambienti e persone come parte integrante del sistema
delle conoscenze.
Quando il movimento delle
donne, subito dopo la vittoria del referendum contro la 194, ha imposto il tema
della violenza sulle donne, vergognosamente ancora considerata reato contro la
morale, sapeva bene che si trattava solo dell’inizio e gli anni di lotte che
sono stati necessari perché si definisse finalmente reato contro la persona,
documentano la vergogna di una cultura diffusa che abbiamo solo cominciato ad
intaccare.
Noi siamo in guerra. Lo dice il
bilancio dello Stato da molti anni, il finanziamento degli F35, le basi Nato e
i centri di potere militare, dal Muos al Dal Molin ad altri, che s’insediano
contro la volontà delle popolazioni che dovrebbero essere, ricordiamolo,
titolari della sovranità. Lo dicono le cosiddette missioni di pace dove si
viene uccisi e si uccide, le donne e gli uomini che muoiono sul lavoro e di
lavoro, dall’Italsider a Barletta. Lo dicono lo strenuo controllo dei mezzi
d’informazione e di formazione da parte di poteri forti, laici e religiosi,
palesi e occulti, legittimati da forme democratiche o criminali. E lo dicono le
donne ammazzate per aver deciso di scegliere la propria vita e semplicemente
perché considerate corpi a disposizione da uomini che decidono con
straordinaria leggerezza di diventare assassini.
Cerco di capire, leggendo i
segni mutevoli del presente, lo scenario dentro cui accade la quotidiana
violenza sulle donne fino al dato del femminicidio, che brutalmente ci ricorda
che l’attenzione sociale e politica è ancora superficiale ed estemporanea, quando
non collusa col fenomeno.
I libri di storia raccontano
prevalentemente la guerra, ci sono i nomi dei generali e il numero dei soldati
morti, manca nei libri si storia il numero delle donne stuprate e uccise e
mancano le vicende e gli accadimenti della pace, le storie di chi costruisce e
ricostruisce sopravvivenza, manca oggi soprattutto l’impegno istituzionale
perché cambi la percezione sociale del fenomeno della violenza.
Eppure scuola, sanità, servizi,
pubblica amministrazione, continuano a stare in piedi grazie al lavoro di
moltissime donne, oltre che degli uomini e non è certo stata casuale e neutra
l’immonda campagna contro gli sprechi in questi settori, che certo ci sono, ma
dei quali la responsabilità cade prima di tutto sulla corruzione e incapacità
di politici e dirigenti.
Se mettiamo insieme gli
accadimenti degli ultimi venticinque anni possiamo leggere con chiarezza la
vendetta sociale e politica del patriarcato istituzionale nei confronti delle
donne italiane e di quelle conquiste che non hanno ancora portato nemmeno alla
piena attuazione dei diritti di cittadinanza secondo la definizione classica
della borghesia al potere.
Ma le donne restano, in questo
momento, il più grande imprevisto della storia e lo vediamo nelle ragazze che
sanno far tesoro perfino di una scuola a pezzi (e chiediamoci perché si tenta
di smantellare la scuola pubblica proprio nel momento di massima
scolarizzazione per la prima volta anche femminile), lo vediamo nelle ragazze e
anche ragazzi che rifiutano gli stereotipi identitari la cui volgarità ha
infangato e svalutato un mezzo così importante come la TV, lo vediamo
nell’energia con cui si lanciano nelle imprese, inventano lavori utili, tornano
a guardare la terra con consapevolezza del limite e amore per le differenze che
rappresentano la ricchezza evolutiva.
Per questo chi esercita il
potere a vari livelli non può fermarsi all’indignazione nei confronti dei
delitti, ma ha il compito dell’analisi, della prevenzione e dell’azione; ha il
dovere di guardare e agire.
Non si tratta di inasprire le
pene per sollecitare rigurgiti di aggressività nell’opinione pubblica, ma di
chiedersi qual è il terreno su cui cresce la violenza e cominciare dalla scuola
potrebbe essere una grande possibilità perché resta l’unico luogo in cui sono presenti
maschi e femmine in relazione costante e non familista con adulte e adulti
responsabili.
Si tratta di cominciare a
disertare questa cultura, come invitano, ad esempio, a fare le attrici/autrici
dello spettacolo Luna di mele, sulla violenza alla donne, a disertare la
ripetizione acquiescente del linguaggio sessista, a disertare il sorriso
compiacente per la battuta discriminatoria, per l’immagine offensiva, a
disertare la divisione dei ruoli in famiglia, l’accettazione passiva di una
condizione offensiva, a disertare le pratiche discriminatorie proposte da abiti
e giochi, da libri e luoghi, da religioni e istituzioni, disertare nel
quotidiano in cui viviamo e negli eventi imprevisti che ci pongono di fronte
alle scelte.
Possiamo tutte e tutti
disertare, lo stanno già facendo moltissime donne e anche uomini.
Si tratta di avere il coraggio
politico di non ridurle/i all’invisibilità.
BIBLIOGRAFIA
I libri mi hanno salvata e
continuano a farlo, scuola e università sono state la mia salvezza nella vita e
considero lo studio rigoroso una delle più belle attività, tra le molte che
pratico, ma su questo tema devo moltissimo agli incontri con tante donne e
alcuni uomini, fin dall’infanzia, e non potrei citarle tutte in modo adeguato,
per questo non propongo una bibliografia. Tra tutte voglio ricordare la donna
che si è riparata in casa mia con i figli l’anno scorso, perché la sua
vicinanza mi ha costretta a una rinnovata autocoscienza della mia vita e mi ha
restituito l’energia e il desiderio di continuare, guardando oltre la triste
contingenza del presente politico del nostro Paese, per vedere ciò che davvero
accade nella quotidianità delle relazioni, invisibili alla grande informazione
e spesso purtroppo anche agli studi accademici.
(*) Sul tema cfr Pesenti Rosangela, «Riflessioni intorno al femminicidio» in Giuliana Lusuardi (a cura di) «Femminicidio. L’antico volto del dominio maschile», Vittoria
Maselli Editore, 2013. Altre informazioni: www.rosangelapesenti.it
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