giovedì 31 gennaio 2019

Territori palestinesi occupati: le agenzie turistiche online favoriscono l’espansione degli insediamenti - Amnesty International



In un nuovo rapporto intitolato “Destinazione occupazione” abbiamo verificato come il governo israeliano autorizzi e incoraggi i coloni a sfruttare terre e risorse naturali che appartengono ai palestinesi e come Airbnb, Booking.com, Expedia e TripAdvisor traggano profitto da questo sfruttamento.
Queste agenzie online stanno alimentando le violazioni dei diritti umani contro i palestinesi segnalando centinaia di stanze e attività negli insediamenti israeliani sulla terra palestinese, compresa Gerusalemme Est.
L’insediamento di civili israeliani da parte di Israele nei Territori palestinesi occupati viola il diritto internazionale umanitario e costituisce un crimine di guerra. Ciò nonostante, le quattro agenzie continuano a operare negli insediamenti e a trarre profitto da questa situazione illegale.
Tra febbraio e ottobre del 2018, abbiamo visitato quattro villaggi palestinesi situati nei pressi di insediamenti israeliani, il quartiere di Silwan a Gerusalemme Est e una comunità palestinese nella zona di Hebron. Si tratta di luoghi vicini a lucrose attività turistiche gestite dai coloni israeliani.

L’INSEDIAMENTO DI KFAR ADUMIM
Uno degli insediamenti in cui ci siamo recati personalmente è Kfar Adumim, centro turistico in crescita situato a meno di due chilometri dal villaggio beduino di Khan al-Ahmar, la cui imminente e totale demolizione da parte delle forze israeliane ha recentemente ottenuto il via libera dalla Corte suprema israeliana. L’espansione di Kfar Adumim e di altri insediamenti vicini è un fattore determinante delle violazioni dei diritti umani contro la comunità beduina locale.
Airbnb, Booking.com, Expedia e TripAdvisor forniscono destinazioni tra cui affitti per vacanze e campeggi nel deserto gestiti dai coloni in questo insediamento o nelle sue vicinanze. Per far spazio all’espansione di Kfar Adunin e di altri insediamenti vicini, circa 180 abitanti di Khan al-Ahmar rischiano lo sgombero forzato da parte dell’esercito israeliano.
Questi trasferimenti forzati di popolazioni residenti in territori occupati costituiscono crimini di guerra. Le autorità israeliane hanno offerto ai residenti del villaggio due opzioni: un sito nelle vicinanze dell’ex discarica municipale di Gerusalemme, nei pressi del villaggio di Abu Dis, o un altro accanto a un impianto per il trattamento degli scarichi fognari nei pressi di Gerico.

IL SITO ARCHEOLOGICO DI KHIRBET SUSIYA
I nostri ricercatori hanno visitato anche il villaggio di Khirbet Susiya, dove gli abitanti palestinesi vivono in rifugi temporanei dopo essere stati sgomberati con la forza da buona parte dell’area per fare spazio all’espansione dell’insediamento di Susiya. Le autorità israeliane hanno chiuso le cisterne d’acqua e i pozzi di Khirbet Susiya. Nel 2015 le Nazioni Unite stimavano che un terzo del reddito degli abitanti venisse speso per acquistare acqua.
Susiya è circondata dalle rovine di un sito archeologico che, al momento della stesura del rapporto, era promosso sia da Airbnb che da TripAdvisor con fotografie dei luoghi da visitare: le rovine, un oliveto, una cantina, una vigna e una grande piscina all’interno dell’insediamento.
Lo sviluppo, da parte del governo israeliano, di siti archeologici all’interno di insediamenti come Susiya e Shiloh è parte essenziale dei suoi programmi di sviluppo ed espansione degli insediamenti.
“Promuovere questi siti presso un pubblico globale favorisce gli obiettivi del governo israeliano in materia di insediamenti. Ecco perché le agenzie turistiche internazionali hanno un ruolo essenziale”ha dichiarato Seema Joshi, direttrice del programma Temi globali di Amnesty International.
LE EVIDENZE MESSE IN RISALTO DAL REPORT
Queste agenzie promuovono visite a riserve naturali, incoraggiano i turisti a fare percorsi a piedi e safari nel deserto e convincono i visitatori ad assaggiare il vino prodotto dai vigneti locali”, ha commentato Joshi.
Il rapporto mette in evidenza le attività delle 4 agenzie – Airbnb, Booking.com, Expedia e TripAdvisor – e i loro profitti:
·         Airbnb, che ha sede negli Usa, aveva tra le sue destinazioni oltre 300 proprietà negli insediamenti dei Territori palestinesi occupati;
·         TripAdvisor, che a sua volta ha sede negli Usa, aveva tra le sue destinazioni nei Territori palestinesi occupati oltre 70 tra attrazioni, tour, ristoranti, bar, alberghi e appartamenti in affitto;
·         Booking.com, che ha sede in Olanda, aveva 45 alberghi e affitti tra le sue destinazioni nei Territori palestinesi occupati;
·         Expedia, che ha sede negli Usa, elenca nove destinazioni di soggiorno, tra cui quattro grandi alberghi.

I PROFITTI DELLE AGENZIE NEI TERRITORI OCCUPATI
Abbiamo verificato che non solo Airbnb, Booking.com, Expedia e TripAdvisor giocano un ruolo importante nell’espansione degli insediamenti ma ingannano anche i loro clienti non informandoli quando le destinazioni sono situate all’interno degli insediamenti israeliani.
“I turisti che vengono qui subiscono il lavaggio del cervello, si sentono dire bugie, non sanno che questa è la nostra terra”, ha detto un contadino palestinese che vive nei pressi dell’insediamento di Shiloh, dove il governo israeliano finanzia un grande centro visitatori per attirare il turismo in un sito archeologico.
Dalla fine degli anni Novanta i due villaggi palestinesi nei pressi di Shiloh hanno perso oltre 5500 ettari di terra. Molte persone sono andate via e chi rimane è soggetto a frequenti attacchi da parte dei coloni armati. Airbnb, Booking.com e TripAdvisor includono tra le loro destinazioni Shiloh ma solo Booking.com spiega che si trovano all’interno di un insediamento israeliano.
Negli ultimi anni il governo israeliano ha investito moltissimo nello sviluppo dell’industria turistica negli insediamenti. Definisce determinate destinazioni come “luoghi turistici” per giustificare la confisca di terre e abitazioni palestinesi e spesso costruisce intenzionalmente insediamenti nei pressi dei siti archeologici per porre enfasi sulle connessioni storiche del popolo ebraico con la regione.
Queste agenzie promuovono visite a riserve naturali, incoraggiano i turisti a fare percorsi a piedi e safari nel deserto e convincono i visitatori ad assaggiare il vino prodotto dai vigneti locali”, ha commentato Joshi.

I PROFITTI DELLE AZIENDE NEI TERRITORI OCCUPATI
Non è solo l’industria del turismo a trarre profitto dagli insediamenti illegali e a contribuire al loro sviluppo. Beni prodotti negli insediamenti israeliani per un valore di centinaia di milioni di euro vengono esportati ogni anno nonostante la maggior parte degli stati del mondo abbia condannato gli insediamenti come illegali dal punto di vista del diritto internazionale.
Oltre a chiedere alle singole aziende di cessare di fare affari negli e con gli insediamenti, stiamo sollecitando i governi a vietare per legge l’importazione di beni prodotti negli insediamenti.
“Non basta condannare gli insediamenti come illegali per poi autorizzare attività commerciali che continuano a fargli fare profitti”, ha sottolineato Joshi.
Il parlamento irlandese sta per approvare un’importante disegno di legge che proibirebbe il commercio di beni e servizi con gli insediamenti israeliani.
Stiamo chiedendo agli altri Stati di fare altrettanto.

Il prof fannullone e il nuovo esame di stato - Matteo Saudino

Migranti: l’esperimento del prof che lascia i ragazzi muti e con gli occhi lucidi - Enrico Galiano



«Ieri ho detto ai ragazzi: “Domani venite a scuola con una bottiglietta d'acqua vuota”.
Sui loro volti, lampante che neanche le insegne di Las Vegas, la domanda “E che cavolo si inventerà stavolta il prof?”
“Lo vedrete domani”.

Oggi sono entrato in classe. Con un secchio.
Ho detto ai ragazzi di sedersi in cerchio. Ho dato a ciascuno di loro un piccolo foglio di carta. Gli ho detto: “Adesso pensate alla persona a cui volete più bene al mondo. Poi disegnate un omino stilizzato e vicino ci scrivete il suo nome
“Ma io posso scriverne due?”
“Certo, anche tre se vuoi!”
E dopo ho chiesto loro di riempire la bottiglietta, di versarla nel secchio e di tornare a sedersi.
L'idea me l'ha data un libro: Ammare di Alberto Pellai e sua moglie Barbara Tamburini. Perché domenica è la Giornata della Memoria, e sinceramente a me di parlare solo di Shoah non mi va più.
Perché per pensare che il passato si stia ripetendo identico bisogna essere un po' miopi. Ma per non vedere pezzi di quel passato nel nostro presente, bisogna essere proprio ciechi.

Davanti ai loro occhi ho fatto una grande barca di carta e gli ho detto di metterci ciascuno il proprio foglietto sopra. Poi ho appoggiato la barca sulla superficie dell'acqua. Infine ho iniziato a far vacillare il secchio, fino a che la barchetta non si è ribaltata, facendo cadere giù tutti i foglietti. Tutti quei nomi, quegli omini, giù in fondo al secchio.

C'era chi aveva messo il papà, chi la migliore amica, chi il cuginetto di un anno.

Si è creato un silenzio incredibile. Più di un minuto senza che nessuno fiatasse. E se qualcuno sa come sono i ragazzi di terza media, sa che avere un minuto di totale spontaneo silenzio è quasi un miracolo.
C'erano anche degli occhi lucidi. Oltre ai miei, dico.

E allora ho raccontato loro del naufragio del 18 aprile 2015, in cui nel Canale di Sicilia sono morte più di mille persone, tante quasi come nel Titanic. La loro barca, un peschereccio fatiscente che di persone ne poteva contenere al massimo duecento. 
E ho raccontato loro di una di quelle: un bambino più piccolo di loro, originario del Mali, che è stato ritrovato con la pagella cucita sulla giacca.
“Secondo voi perché un bambino dovrebbe salire su una barca così?”
“Per far vedere che aveva studiato!”
“Per dire a tutti che era bravo a scuola!”
E poi un ragazzino macedone, di fianco a me, a bassa voce ha detto:
“Forse per far vedere che non era cattivo, come molti pensano di tutti quelli che arrivano”.

La campanella è suonata. Anche per non appesantire troppo il momento, ho detto loro di mettere a posto tutto, di andare a ricreazione. Sono usciti, e piano piano hanno ricominciato a parlare, a chiedersi la merenda, le solite cose.
Sono rimasto solo a sistemare la mia roba.

Poi è successa una cosa.
A un certo punto sento dei passi dietro di me.
Tre ragazze.
“Scusi prof”
“Sì?”
“Noi vorremmo...”
“Voi vorreste...?”
La più coraggiosa delle tre prende il coraggio e dice tutto in un fiato:
“Possiamo tirare fuori quei fogli da lì?”.

Ci siamo chinati, li abbiamo tirati su uno per uno, insieme. 
E intanto io le guardavo, e dentro di me pensavo che finché tre ragazze decidono di saltare la ricreazione per tirare su dal fondo di un secchio dei fogli di carta, c'è ancora motivo per credere in un mondo diverso».

Solo due cose.
La prima è grazie. Un grazie infinitamente grande a tutte le persone che in questi giorni mi hanno scritto, che hanno condiviso con me il proprio stato d'animo riguardo al mio esperimento con la barchetta. Ho cercato di rispondere a tutti i messaggi ma non so se ci sono riuscito. In quel caso chiedo scusa, appena ho un secondo provvedo.
Grazie perché non è un momento facile per essere ottimisti, ma tutto questo affetto per me e i miei ragazzi aiuta. Tanto.
La seconda è per quei pochi commenti intrisi di odio, carichi di offese, che ho avuto la sfortuna di leggere.
Ecco, volevo solo dirvi che il modo in cui questa piccola storia è rimbalzata dappertutto in pochissime ore mi ha fatto capire che potete urlare quanto volete, ma non farete mai il rumore che possono fare tre ragazzine di tredici anni chinandosi a raccogliere dei foglietti di carta da un secchio.
Non vincerete voi. State vincendo, sì. Ma non vincerete.

mercoledì 30 gennaio 2019

In terra di avamposti illegali e crimini di odio, un'altra vita palestinese rivendicata - Gideon Levy


Un weekend letale per i palestinesi :  quattro morti, da Rafah nella Striscia di Gaza a Ramallah, nella West Bank . Sabato  un contadino è stato ucciso nel suo oliveto, nel villaggio di Al-Mughayir, nella West Bank.
E'  pomeriggio. Hamdi Na'asan e alcuni compaesani stanno per finire di coltivare il loro uliveto, in basso rispetto al virulento avamposto di Adei Ad. Gli agricoltori stanno arando la terra nel loro frutteto meravigliosamente terrazzato. Verso le 16:00, un gruppo di coloni armati si avvicina da Adei Ad e inizia ad attaccarli nel tentativo di cacciarli dalla loro terra.Questa è la routine qui nella terra degli avamposti, specialmente ad Al-Mughayyir. Ero nel villaggio la settimana scorsa e ho visto i resti  sanguinanti di 25 alberi di ulivo piantati 35 anni fa, abbattuti da seghe elettriche, albero dopo albero, venerdì 11 gennaio, tre giorni prima della festa ebraica di Tu Bishvat, a volte chiamato Jewish Arbor Day. Le orme hanno portato all'avamposto di Mevo Shiloh, i cui abitanti hanno occupato una caserma dell'esercito semi abbandonata sulla collina sopra i campi di Al-Mughayyir. Negli ultimi due mesi gli abitanti del villaggio si sono radunati ogni venerdì nella loro terra per chiedere la rimozione di Mevo Shiloh. I coloni pascolano le loro greggi sulla terra del villaggio e hanno effettuato i cosiddetti attacchi di cartellini dei prezzi nel villaggio, vandalizzando le auto.
Gli abitanti dei villaggi negano che i coloni siano stati attaccati dai contadini. Chiunque abbia familiarità con la Shiloh Valley sa quanto sia difficile, impossibile davvero, non credere a tali affermazioni. I coloni discendono su campi che non sono loro, al solo scopo di sfrattare i residenti dalla loro terra e spaventarli  Questo è l'obiettivo, questo è l'obiettivo.

I contadini e gli abitanti dei villaggi si precipitano  ad aiutarli e fuggono verso il villaggio, mentre soldati e coloni sparano  i primi gas lacrimogeni che avvolgono le case e poi usano  le munizioni. Hanno sparato mentre fuggivano. Na'asan è colpito alla schiena. Le forze di difesa israeliane hanno dichiarato sabato sera che era stato  stato colpito da un colono . Ci è voluta un'ora per portarlo all'ospedale governativo diRamallah. Altri 15 abitanti del villaggio sono stati feriti. Nove sono stati ricoverati nell' ospedale diRamallah; tre interventi chirurgici sono stati  necessari. La vista da Al-Mughayyir è stupenda in questo periodo dell'anno, una valle fertile, coltivata in modo straordinario. Terra marrone che germoglia in fiore oliveti e campi verdi. Ed ecco le fotografie di Naasan: la sua faccia morta e gli occhi chiusi, il piccolo foro nella schiena, vicino alla sua spina dorsale. Aveva 38 anni, padre di quattro figli, parente di Abed al Hai Na'asan, il proprietario del frutteto i cui alberi sono stati abbattuti  e dove noi  siamo andati la settimana scorsa a testimoniare il danno e il suo dolore.
Così è caduto la prima vittima del villaggio dall'inizio della sua protesta popolare e probabilmente non sarà l'ultimo.

I sadici che hanno distrutto un secolare oliveto palestinese possono riposare facilmente - Gideon Levy






Chi è la feccia umana che venerdì scorso ha guidato un fuoristrada fino al magnifico oliveto di proprietà di Abed al Hai Na'asan, nel villaggio di Al-Mughayir, in Cisgiordania, ha scelto la fila più antica e più grande, e con le seghe elettriche ha abbattute 25 alberi, uno dopo l'altro?Chi sono le feccia umane che sono in grado di fomentare un tale oltraggio sulla terra, sugli alberi e, naturalmente, sul contadino che ha lavorato per decenni sulla sua terra? Chi è la feccia umana che è fuggita come un codardo, sapendo che nessuno li avrebbe portati davanti alla giustizia per il male che avevano commesso?
E'improbabile che arrivino le risposte. La polizia sta indagando, ma negli avamposti selvaggi della Shiloh Valley, e in particolare di Mevo Shiloh, dove portano le tracce ,i responsabili possono continuare a dormire in pace. Nessuno sarà arrestato, nessuno sarà interrogato,nessuno sarà punito. Questa è la lezione dell'esperienza passata in questo paese violento, senza legge, dei  coloni .La storia stessa fa ribollire il sangue, ma solo la vista del boschetto   ne fa comprendere  l' atrocità, il sadismo patologico dei perpetratori, la profondità del dolore del contadino nel vedere che il suo piccolo terreno è stato assalito dagli ebrei  Israeliani, coloni, credenti, solo tre giorni prima di Tu B'Shvat, il Jewish Arbor Day, la festa degli alberi celebrata dalle stesse persone che hanno distrutto il suo boschetto.Questo è il modo  per esprimere  il loro amore per la terra, questo è un riflesso della passione per la natura.
E su un macigno, all'estremità del boschetto, hanno lasciato il loro biglietto da visita: una Stella di David imbrattata di rosso, vergognosa, vergognosa, un Marchio di Caino che stigmatizza tutto ciò che rappresenta e ,accanto ad esso, la parola "Vendetta". La vendetta per cosa?I 25 alberi abbattuti giacciono come cadaveri dopo un massacro sulla fertile terra arida e marrone. Venticinque tronchi spessi stanno nudi e decapitati, le loro radici profonde ancora  nella terra, le loro cime svanite, il lavoro di una mano malvagia - ora semplice legname morto dopo anni di cure, coltivazione e irrigazione. Era la fila di alberi più impressionante del boschetto; i predatori  si sono mossi  con  satanica deliberazione , senza spie. Quando, camminando tra i ceppi nel boschetto, il proprietario sconvolto Na'asan ha detto che per lui l'atto equivale all'omicidio, le sue parole hanno perfettamente senso. Quando  siamo arrivati sua moglie lo  aveva pregato  di non visitare il boschetto per paura che non sarebbe stato  in grado di sopportare tale vista. Na'asan ha il cancro.Nella valigetta dei documenti che porta sempre con sé vi  è una copia del reclamo ufficiale presentato alla stazione distrettuale di Binyamin della polizia israeliana, nonostante sappia che non ne verrà mai a conoscenza, che sarà sepolto come tutte le denunce . Chiunque avesse voluto arrestare i colpevoli, lo avrebbe potuto farlo lo stesso giorno: Mevo Shiloh,  dove conducevano le tracce dei veicoli fuoristrada, è un piccolo avamposto dei coloni  violento e sfrontato.La strada per Al-Mughayyir, situata a sud di Jenin, attraversa la ricca città di Turmus Ayya, molti residenti vivono la maggior parte dell'anno negli Stati Uniti, visitando le loro splendide case solo in estate. Il villaggio, con una popolazione di 3.500 abitanti, è separato dalla città da pascoli dove ora pascolano le pecore. Tutto è lussureggiante. Gli abitanti  di Al-Mughayyir dicono che i loro problemi non sono mai stati con l'esercito, solo con i coloni. Nel centro di Al-Mughayyir, alcuni uomini sono in piedi accanto a un veicolo dell'Autorità Palestinese. Il personale del Ministero dell'Agricoltura palestinese è arrivato per valutare il danno subito dagli agricoltori; nel migliore dei casi il ministero darà loro un importo simbolico di compensazione. Tale è la parvenza ingannevole di un governo che presumibilmente protegge i contadini indifesi.Tutti nel villaggio sanno che l'Autorità Palestinese non può fare nulla. Così, circa due mesi fa, i residenti hanno lanciato una protesta popolare, proprio come hanno fatto i cittadini di altri villaggi prima di loro: da Kaddoum, Nabi Saleh, Bil'in, Na'alin e altri. Ogni venerdì si radunano sulla loro terra, che si trova sul lato orientale di Allon Road, e si trovano di fronte a un gran numero di forze dell'esercito e della polizia di frontiera che li disperdono con grandi quantità di gas lacrimogeno e con proiettili di gomma, proiettili d "tutu" (proiettili calibro 0,22). Poi arrivano gli arresti notturni. La scorsa domenica, le truppe hanno arrestato altri sette abitanti del villaggio che hanno preso parte alle manifestazioni; 35 locali sono attualmente in detenzione. Questo è il metodo usato da Israele per sopprimere ogni protesta popolare nei territori.Secondo gli abitanti del villaggio, la loro unica richiesta è la rimozione dell'avamposto di Mevo Shiloh, che è stato stabilito senza permesso su una base delle Forze di Difesa israeliane semi-abbandonate che si affaccia sui loro campi. I coloni brucianoi campi dei palestinesi, permettono alle loro pecore di pascolare sulla loro terra senza permesso, cacciano le greggi dei villaggi e perpetrano varie operazioni di "cartellino del prezzo" - crimini di odio - contro di loro.Nel precedente assalto di questo tipo, il 25 novembre, otto autosono state danneggiate. I graffiti, documentati da Iyad Hadad, ricercatore sul campo per l'organizzazione israeliana per i diritti umani B'Tselem, lascia poco all'immaginazione: "La morte agli arabi", "Basta ordini amministrativi", "Vendetta", "Cartellino del prezzo" - e anche l'insondabile "Saluti a Nachman Rodan".Qui la guerra è per il controllo della terra. È una guerra primordiale e disperata  dove la legge, i diritti di proprietà e la proprietà non giocano alcun ruolo . Ciò  che conta è la violenza che può essere perpetrata  sotto l'egida delle autorità di occupazione. Quando, un giorno, queste persone saranno costrette a rinunciare alla loro terra in seguito alla violenza, icoloni avranno ottenuto un altro impressionante risultato nel loro sforzo di tagliare la West Bank in sezioni separate e sconnesse di territorio. Questa settimana, quando abbiamo attraversato la terra del villaggio verso Mevo Shiloh, gli abitanti del villaggio che stavano con noi ci hanno implorato di allontanarci subito. La loro paura dei coloni è così grande  che non  viene meno  anche se sono  su  un'auto con targhe israeliane, accompagnati da israeliani,La casa di Amin Abu Aaliya, capo del consiglio del villaggio, è arroccata su un'alta collina, con vista su tutte le case del suo villaggio e sulla fertile valle dove si trovano le sue terre. Ci  serve un  dolce locale farcito con foglie di za'atar verde (issopo selvatico), cotto dalla moglie che non si unisce a noi. Quando gli chiediamo di "Dille che è stato delizioso", risponde, "Non deve insuperbirsi ".La vista dal tetto della sua casa elegante è davvero sorprendente. La musicagraffiante, che scaturisce da una vecchia Citroen Berlingo , preannuncia l'arrivo nel villaggio di un venditore che vende il dolce zucchero filato conosciuto qui come "capelli da donna". Nel centro del villaggio i giovani decorano una delle case con bandiere di Fatah e Palestina: un residente del villaggio dovrebbe tornare a casa oggi dopo aver scontato due anni in una prigione israeliana e per lui è stato preparato un benvenuto festivo.La Allon Road,  asfaltata negli anni '70 e correva da nord a sud nella parte orientale della West Bank, allo scopo di separare i suoi territori dalla Giordania, separava anche Al-Mughayyir dalla maggior parte della sua terra, circa 30.000 dunams (7.500 acri), situato ad est della strada. Gli abitanti del villaggio si sono abituati a questo nel corso degli anni. Inoltre hanno perdonato l'espropriazione della terra per costruire  la strada e  per il suo allargamento. Non è  sicuro per loro   attraversare la strada di Allon con le loro mandrie, accedere alla loro terra, ma si sono anche abituati a questo. A volte l'esercito blocca la strada sterrata che conduce dal villaggio alla loro terra e sono tagliati fuori da esso, a meno che non decidano di fare un lungo percorso di bypass lì. Una questione di routine.Il popolo di Al-Mughayyir aveva anche imparato a vivere con la base militare di Mevo Shiloh, che dominava la loro terra. Sono persino venuti a patti con l'avamposto Adei Ad, i cui membri li hanno anche aggrediti,ma  poi l'IDF ha evacuato la base e i coloni l'hanno sequestrata . Una ricerca su Internet rivela che i coloni sono stati apparentemente rimossi da questo avamposto alcuni anni fa. Le  case mobili spuntano dall'alta collina che sovrasta i campi del villaggio e  vi  sono  grandi strutture utilizzate per l'agricoltura. Mevo Shiloh è vivo e vegeto.Gli abitanti del villaggio dicono che l'amministrazione civile in passato aveva promesso che l'avamposto sarebbe stato evacuato, ma ciò non è accaduto. Mancando i fondi per intraprendere una battaglia legale  e non credendo che avrebbe prodotto comunque dei risultati, hanno iniziato le loro  dimostrazioni del venerdì.Ho chiesto se si erano consultati per la prima volta con altri locali che hanno intrapreso lotte simili. "Non ce n'era bisogno", ha detto il capo del consiglio. "Non hai bisogno di consultazione quando sei nel giusto. Ci sentiamo insicuri sulla nostra terra. Come possiamo proteggere noi stessi e le nostre terre? È una reazione naturale: o rivolgersi alla violenza o alla protesta popolare. Abbiamo scelto la strada della protesta popolare ".Il sentiero sterrato che porta ad est dal villaggio verso l'Allon Road riflette gli eventi  degli  ultimi due mesi. Le bombole vuote dei gas lacrimogeni pendono dai cavi elettrici, il terreno è cosparso di resti di pneumatici bruciati e di barriere di pietra. Durante la protesta del venerdì di due settimane fa, 30 abitanti del villaggio sono stati feriti da proiettili di metallo rivestiti di gomma. Le truppe filmano i manifestanti e fanno irruzione nel villaggio di notte per arrestarli - procedura standard nei villaggi in lotta. Quasi 100 residenti sono stati detenuti negli ultimi due mesi.Una densa nube di gas lacrimogeni  copre Al-Mughayyir durante le manifestazioni e, secondo il capo del consiglio Aaliya, arriva persino fino alla  sua casa in cima alla collina. In alcuni casi i coloni si uniscono alle forze di sicurezza per disperdere le manifestazioni, lanciando pietre ai manifestanti.Na'asan, i cui alberi sono stati devastati, arriva a casa di Aaliya e mostra una copia del reclamo presentato alla polizia di Binyamin: "Conferma di presentazione di reclamo". Lo spazio per i dettagli dell'incidente è vuoto. Lo spazio per il luogo dell'evento contiene quanto segue, parola per parola: "Magir RM nella foresta, vivaio, boschetto, campo". L'accusa: "Danneggiamento di proprietà volontaria ". Solo scritto in ebraico, naturalmente. "File n. 31237."La polizia è arrivata al boschetto lo scorso venerdì, due ore dopo che Na'asan ha scoperto quello che era successo e l'ha riferito all'ufficio di coordinamento e collegamento palestinese. Hanno detto che le piste dell'ATV sembravano condurre a Mevo Shiloh. Secondo Na'asan, mentre la polizia era nel boschetto, alcuni coloni stavano sulla collina di fronte e guardavano. La polizia sta ora indagando.Circa 20 membri della famiglia allargata di Na'asan sopravvivono grazie a questo boschetto, che prima dell'attacco vantava un totale di 80 alberi di età diverse, tutti meticolosamente coltivati. Ora dovrà ripulire quelli che sono stati abbattuti e fasciare i ceppi contro il freddo. Questo è l'unico modo per far  spuntare nuovi rami. Ci vorranno altri 35 anni perché il bosco torni al suo stato precedente. Na'asan ha 62 anni. Questo boschetto è cresciuto insieme ai suoi figli. Sa che ci sono poche possibilità che possa vederlo  recuperare.

martedì 29 gennaio 2019

Vergogna vergognati vergognatevi - Alessandro Ghebreigziabiher





È una vergogna che una persona del genere sia un Ministro del nostro paese.
Ovvero, qualcuno che un giorno – non molto tempo addietro – ha pronunciato e sottoscritto il seguente giuramento: “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell'interesse esclusivo della Nazione.”
Vergogna, ripeto, è una vergogna che costui venga meno a siffatta promessa quotidianamente.
Perché la Repubblica è la cosa pubblica, il che non vuol dire sua, ma di tutti noi.
E perché l’interesse della Nazione riguarda tutti, nessuno si senta escluso e mai dovrebbe esserlo.
Come il il 32enne Arafette Arfaoui morto durante l’arresto per una presunta banconota falsa.
Ciò malgrado, il suddetto amministratore dello Statosi permette, come fa più volte, ogni giorno, di esprimersi così:

Immigrato
Si da il caso, da quel che si sa, che l’uomo sia un cittadino italiano.
Di origini straniere, certo, per sua sfortuna africane, ma pur sempre degno della tanto favorevole cittadinanza, che tra le altre cose garantisce l’agognato reddito.
Che tristezza, a proposito. Una volta si prometteva il lavoro, agli elettori, oggi invece c’è il gratuito sostegno del governo…
A ogni modo, straniero o cittadino DOC che sia, vergognati, Matteo Salvini.
Lo ripeto e lo riscrivo: vergognati.
Lucrare sui morti è cosa spregevole della quale hai ormai fatto stile e seguaci.
L’uomo lascia moglie e figli senza un padre e tu non perdi l’occasione di sfruttare l’occasione a tuo vantaggio.
Vergognati, se ne sei ancora capace.
Ma non basta, okay?
Vogliamo essere chiari fino in fondo?
Non mi frega niente se per l’ennesima volta mi farò ulteriori nemici, perderò iscritti e “mi piace” sulle paginette social.
Non ho mai esitato a dire la mia e non lo farò neppure ora.
Vergognatevi anche voi, tutti, che avete votato questo signore.
Vergognatevi, malgrado in molti non avete il coraggio di dirlo in pubblico.
E sapete che c’è?
Vergognatevi pure voi che avete votato il movimento banderuola, che si è alleato con la Lega per fargli fare le porcherie al suo posto.
Perché tutti, volenti e nolenti, siete complici delle loro parole e azioni.
Vergogna, punto.

Storie di tortura dalle prigioni israeliane - Ramzy Baroud, Abdallah Aljamal




Agli inizi del mese, il Ministro della Pubblica Sicurezza israeliano Gilad Erdan ha annunciato una proposta di legge per “peggiorare” le già terribili condizioni in cui versano i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane.
Secondo il gruppo per i diritti umani Addameer, attualmente sono circa 5.500 i detenuti palestinesi negli istituti penitenziari israeliani; tra questi, vi sono 230 bambini e 54 donne. 481 sono in carcere senza regolare processo, in virtù della vergognosa prassi nota come “detenzione amministrativa”.
Parlando alla stampa il 2 gennaio, Erdan ha svelato alcuni punti del suo piano, omettendo però dettagli importanti. Il ministro ha detto che ai detenuti non sarà permesso “cucinare”, ma non ha ricordato che molti prigionieri, soprattutto nella prima fase della detenzione, sono sottoposti a torture e privati del cibo. “Inoltre, non sarà permesso ai membri della Knesset di visitare i detenuti palestinesi,” ha aggiunto Erdan, tralasciando che a centinaia di loro sono già precluse le visite da parte di avvocati e familiari.
Non c’è ragione di dubitare delle parole del ministro, quando promette di peggiorare le condizioni dei detenuti palestinesi. Tuttavia, vale la pena ricordare che chi è trattenuto nelle carceri israeliane – e questa è, di per sé, una violazione della Quarta Convenzione di Ginevra – vive già in un contesto disumano, in violazione dei requisiti minimi garantiti dal diritto umanitario e internazionale.
Nessuno può descrivere le condizioni nelle carceri israeliane meglio dei prigionieri palestinesi, che hanno sperimentato sulla loro pelle ogni forma di tortura fisica e psicologica, e hanno trascorso anni, talvolta decenni, nel tentativo disperato di non perdere la loro umanità, in ogni singolo istante di ogni singola giornata.
Abbiamo parlato con sei ex detenuti, tra cui due donne e un minore, che hanno accettato di condividere le loro storie con noi, nella speranza che le loro testimonianze possano aiutare a capire meglio il contesto del “piano” di Erdan.

“Mi hanno ucciso il gatto” – Wafa’ Samir Ibrahim al-Bis
Wafa’ Samir Ibrahim al-Bis è nata nel campo profughi di Jablaiya a Gaza. Aveva 16 anni quando è stata arrestata, il 20 maggio del 2005. È stata condannata a 12 anni di carcere, per aver tentato un attacco suicida contro dei soldati israeliani. È stata rilasciata nel 2011 in seguito a uno scambio di prigionieri tra la Resistenza palestinese e Israele.
Avevo solo 16 anni quando ho scelto di indossare una cintura esplosiva e di farmi saltare in aria dinanzi a un gruppo di soldati israeliani. Mi sembrava l’unico modo per vendicare Muhammad al-Durrah, il ragazzo di 12 anni che era stato barbaramente ucciso dai soldati israeliani di fronte all’obiettivo di una telecamera, nel settembre del 2000. Quando ho visto in video Muhammad stretto al corpo di suo padre, mentre i soldati gli scaricavano addosso una pioggia di proiettili, mi sono sentita impotente. Era solo un bambino. Ma sono stata arrestata, e chi mi aveva addestrato a portare a termine la missione è stato ucciso tre mesi dopo il mio arresto.
Sono stata torturata per anni, all’interno della tristemente famosa Cella Nove, della prigione di Ramleh, una camera delle torture pensata per quelli come me. Mi hanno infilato un sacco nero sulla testa mentre venivo picchiata e interrogata per ore, per giorni. Hanno liberato cani e topi nella mia cella. Non sono riuscita a dormire non so per quanto tempo. Mi hanno spogliato e poi mi hanno lasciato nuda per giorni. Non mi hanno consentito di vedere un avvocato o di ricevere visite, nemmeno dalla Croce Rossa.
Dovevo dormire su un vecchio materasso lurido, duro come la pietra. Sono rimasta in isolamento nella Cella Nove per due anni. Mi sentivo come sepolta viva. Una volta mi hanno appeso a testa in giù per tre giorni. Ho gridato più forte che potevo, ma nessuno è venuto a liberarmi.
In carcere, mi sentivo tanto sola. Un giorno, ho visto un gattino che si aggirava per le celle, gli ho lanciato del cibo per farmelo amico. Alla fine, si è avvicinato e da quel momento, restava con me per ore. Quando le guardie hanno scoperto che mi faceva compagnia, l’hanno sgozzato di fronte ai miei occhi. Ho pianto per il gatto più di quanto non avessi fatto per me stessa.
Qualche giorno dopo, ho chiesto a una guardia una tazza di tè. Lei si è avvicinata e mi ha detto: “Porgi la mano, così la prendi”. Mi sono fidata, e lei mi ha rovesciato addosso l’acqua bollente, causandomi un’ustione di terzo grado. Ho ancora le cicatrici e dovrei essere curata.
Piango al pensiero di Israa’ Ja’abis, che ha il corpo ricoperto di ustioni ed è costretta a restare in carcere. Penso spesso alle detenute che sono ancora dietro le sbarre.

“Non ci sono parole” – Sana’a Mohammed Hussein al-Hafi
Sana’a Mohammed Hussein al-Hafi è nata nella West Bank. Si è trasferita a Gaza dopo aver incontrato quello che sarebbe diventato suo marito. Ha trascorso 10 mesi in carcere e 5 mesi agli arresti domiciliari con l’accusa di aver trasferito fondi a una ‘entità ostile’ (Hamas).
Nel maggio del 2015, volevo far visita ai miei familiari che vivono in West Bank. Mi mancavano da morire perché non li vedevo da anni. Ma al Valico di Beit Hanoun (Eretz), sono stata arrestata dai soldati israeliani. La mia odissea, quel giorno, è iniziata intorno alle 7.30 del mattino. I soldati mi hanno perquisito con metodi umilianti. Hanno cercato in ogni parte del corpo. Mi hanno costretto a denudarmi completamente. Sono rimasta nuda fino a mezzanotte.
Alla fine, mi hanno incatenato mani e piedi, e mi hanno bendato. Ho supplicato il militare di lasciarmi avvertire la mia famiglia, perché mi stavano ancora aspettando dall’altra parte del valico. Hanno accettato, a patto che usassi queste esatte parole: “Non torno a casa stanotte”, e nient’altro.
Poi sono arrivati altri ufficiali. Mi hanno scaraventato nel retro di un grande mezzo militare. Avvertivo la presenza di uomini e cani intorno a me. I primi ridevano, i secondi abbaiavano. Ero terrorizzata. Mi hanno portato nel complesso militare di Ashkelon, dove mi hanno perquisito di nuovo, con le stesse, umilianti tecniche. Poi mi hanno messo in una cella piccolissima e semibuia. C’era un odore terribile. Era freddo, sebbene fossimo agli inizi dell’estate. Il letto era minuscolo e lurido, così come le coperte. I soldati hanno requisito tutti i miei averi, anche l’orologio.
Non sono riuscita a chiudere occhio, perché c’erano continui interrogatori, a distanza di poche ore l’uno dall’altro.Dovevo restare seduta su una sedia di legno per tanto tempo, e il trattamento era sempre lo stesso: venivo riempita di urla, insulti e parolacce. Sono rimasta ad Ashkelon per sette giorni. Ho potuto fare la doccia una volta sola, con acqua gelida. Di notte, sentivo voci di uomini e donne che venivano torturati; grida furiose in ebraico o in un arabo stentato; porte che sbattevano in modo orribile.
Alla fine di quella settimana, sono stata trasferita nella prigione di HaSharon, dove almeno potevo stare con altre detenute palestinesi. Alcune erano minorenni, altre madri, come me; c’erano anche delle signore più anziane. Ogni due o tre giorni, mi facevano uscire dalla cella per essere interrogata. Si partiva all’alba per tornare intorno alla mezzanotte. A volte, viaggiavo in grandi mezzi militari con altre donne, fino al tribunale. Venivamo incatenate individualmente, oppure l’una all’altra. Aspettavamo per ore, solo per sentirci dire che l’udienza era stata rinviata a data da definirsi.
In cella, era difficile sopravvivere in quelle condizioni, senza cure mediche. Una volta, una donna anziana è svenuta. Soffriva di diabete e non era curata adeguatamente. Abbiamo iniziato a urlare e a piangere. In un modo o nell’altro, ce l’ha fatta.
Sono rimasta in carcere per dieci mesi. Quando finalmente sono stata rilasciata, mi hanno messo agli arresti domiciliari per altri 5 mesi. Mi mancava la mia famiglia. Non facevo che pensare a loro, in ogni momento della giornata. Non ci sono parole per descrivere quanto straziante sia stata quell’esperienza: essere privata della libertà, ed essere costretta a vivere senza dignità né diritti. Non ci sono parole.

“Il giorno in cui ho visto mia madre” – Fuad Qassim al-Razam
Fuad Qassim al-Razam è nato nella città palestinese di Gerusalemme. Ha trascorso 31 anni in carcere per aver ucciso un soldato israeliano e un colono armato.
Nelle carceri israeliane, sono stato torturato psicologicamente e fisicamente, e costretto a confessare delitti che non avevo commesso. In genere, la prima fase della detenzione è la più difficile, perché le torture sono più intense e i metodi più brutali. Mi hanno privato del cibo e del sonno, rimanevo appeso al soffitto per ore. A volte, mi lasciavano in piedi sotto la pioggia, nudo, legato a un palo, con un sacco sulla testa, per una intera giornata; di tanto in tanto i soldati mi tiravano pugni, calci e mi colpivano con un bastone.
Mi hanno impedito di vedere la mia famiglia per anni, e quando finalmente mi hanno permesso di vedere mia madre, lei stava morendo. L’hanno portata con un’ambulanza alla prigione di Beir Al-Saba’, e mi hanno condotto in manette a incontrarla. Stava malissimo e non riusciva più a parlare. Ricordo ancora i tubi che le uscivano dalle mani e dal naso. Le braccia erano bluastre, ricoperte da ematomi causati dagli aghi, che trafiggevano la sua pelle delicata.
Sapevo che quello sarebbe stato il nostro ultimo incontro, quindi le ho letto dei versi del Corano prima di tornare in cella. È morta 20 giorni dopo. So che era molto fiera di me. Quando sono uscito di prigione, non sono potuto andare sulla sua tomba a leggere il Corano, perché mi hanno deportato immediatamente a Gaza dopo lo scambio di prigionieri del 2011. Un giorno, andrò sulla sua tomba.

“Mi hanno bruciato i genitali” – Mohammed Abul-Aziz Abu Shawish
Mohammed Abul-Aziz Abu Shawish è nato nel campo profughi di Nuseirat, a Gaza, nel 1964. La sua famiglia è originaria di Barqa, un villaggio del sud della Palestina che fu oggetto di pulizia etnica nel 1948. Ha trascorso 9 anni in carcere con l’accusa di detenzione illegale di armi e per la sua appartenenza al movimento di Fatah.
Sono stato arrestato da Israele sette volte; la prima, quando avevo solo sei anni. Era il 1970. Ero accusato di aver tirato delle pietre ai soldati israeliani. Poi sono stato arrestato durante l’adolescenza. In quell’occasione, mi hanno picchiato e un agente israeliano mi ha acceso un fiammifero sotto i genitali. Mi hanno denudato e mi hanno infilato le mutande in bocca per soffocare le grida. Nei giorni successivi, andare in bagno è stato dolorosissimo.
L’ultima volta, sono rimasto in carcere più a lungo. Sono stato arrestato il 23 aprile del 1985 e rilasciato 9 anni dopo, in seguito alla firma degli Accordi di Oslo.
La lotta per i nostri diritti non si è mai fermata, neanche in carcere. Ci siamo battuti entrando in sciopero della fame e loro ci hanno punito con l’isolamento e la tortura. Se la direzione del carcere soddisfaceva le nostre richieste per mettere fine allo sciopero, poi ci privava lentamente di tutte le conquiste ottenute. Non ci davano cibo, non ci facevano incontrare i familiari o gli altri detenuti. Spesso, ci sequestravano i libri, senza una ragione specifica.
Quando mi hanno liberato, l’8 gennaio del 1994, ho iniziato a collaborare con il dipartimento di riabilitazione dei prigionieri, presso il Ministero del Lavoro. Ho fatto sempre del mio meglio per aiutare i miei compagni, ex detenuti. Dopo la pensione, ho scritto un libro dal titolo Before My Tormentor is Dead, che racconta i miei anni in prigione. Non sono uno scrittore, ma volevo che tutto il mondo conoscesse le nostre sofferenze.

“Hanno arrestato la mia famiglia” – Shadi Farah
Shadi Farah è stato arrestato nella sua casa a Gerusalemme a soli 12 anni. Era accusato del tentato omicidio di un soldato israeliano per mezzo di un coltello, rinvenuto nella sua abitazione.
Sono stato arrestato il 30 dicembre del 2015, a soli 12 anni, e rilasciato il 29 novembre del 2018. All’epoca, ero il più giovane detenuto palestinese nelle carceri israeliane. L’interrogatorio si svolse nella prigione di Maskoubiah a Gerusalemme, nella Cella 4, per la precisione. Dopo giorni di torture fisiche, privazione del sonno e violenze, hanno arrestato tutti i miei familiari: mia madre, mio padre, le mie sorelle e i miei fratelli.
Mi hanno detto che li avrebbero rilasciati solo se avessi confessato i miei reati. Mi hanno insultato con epiteti irripetibili e minacciato di fare cose inenarrabili a mia madre e alle mie sorelle. Dopo ogni tortura, tornavo in cella e volevo solamente dormire. Ma i soldati mi svegliavano schiaffeggiandomi, dandomi calci con gli anfibi o pugni nello stomaco. Sono molto legato alla mia famiglia e non vederla mi spezzava il cuore.

“I carcerati sono eroi” – Jihad Jamil Abu-Ghabn
Jihad Jamil Abu-Ghabn ha trascorso quasi 24 anni nelle carceri israeliane per la sua partecipazione alla Prima Intifada e per il presunto coinvolgimento nell’uccisione di un colono israeliano. È stato rilasciato nel 2011.
I miei carcerieri hanno provato in ogni modo a piegarmi e portarmi via la dignità, non solo per mezzo della violenza, ma anche con sottili tattiche tese a umiliarmi e a demoralizzarmi. Spesso, mi mettevano sulla testa un sacco dall’odore così terribile, che finivo per vomitarci dentro ripetutamente. Quando lo toglievano, avevo la faccia gonfia e un forte mal di testa, per via della mancanza di ossigeno.
Durante gli interrogatori (che sono durati per mesi), mi facevano sedere su una sedia traballante per ore. Era impossibile trovare una posizione comoda, e ancora oggi soffro di dolore cronico al collo e alla schiena.
A volte, facevano arrivare in cella dei ‘prigionieri’ che si professavano membri della Resistenza Palestinese. Solo dopo ho capito che in realtà erano collaboratori che volevano spingermi a confessare. Noi li chiamavamo assafir (uccellini).
I prigionieri palestinesi sono eroi. Non ci sono parole per descrivere la loro indomita capacità di resistere e le terrificanti prove che devono sostenere.

 (Traduzione di Romana Rubeo)