martedì 28 febbraio 2017

La guerra sarà pace

un testo del 1973 ripreso da Grégoire Chamayou(*):

Come la guerra aerea è seguita alla guerra terrestre, una nuova forma di guerra sostituirà la guerra aerea. Noi la chiamiamo la guerra a distanza. […] La guerra a distanza si basa sul concetto fondamentale del sistema con pilota a distanza […] Il veicolo che si trova a distanza riceve le informazioni attraverso sensori installati a bordo.
[…] Le caratteristiche della guerra a distanza possono anche servire a ridurre al silenzio i critici che vorrebbero opporsi alla guerra. Non ci sarà nessun soldato americano ucciso in combattimento o fatto prigioniero di guerra. I giocattoli non han no madri né mogli che si mettono a protestare contro la morte. La guerra a distanza ha un buon mercato. Quelli che criticano le spese di guerra e l’inflazione non avranno motivo per protestare. Grazie alle sue capacità di uccidere con precisione, la guerra a distanza non rovinerà l’ambiente. Gli ecologisti non avranno motivo di protestare […] E così di seguito.
Il solo motivo che resterà a coloro che saranno ancora determinati a protestare sarà la morte e l’assoggettamento di queste genti che l’esercito americano chiama «comunisti», «niaoukès» o semplicemente «il nemico». Ma certo, per l’esercito americano, il mondo intero è un nemico potenziale. […] Ogni differenza tra la guerra e la pace se ne andrà in fumo. La guerra sarà la pace.

(*) Gregoire Chamayou è autore di «Teoria del drone», appena pubblicato in Francia, che si chiude con «La guerra sarà pace», un testo pubblicato nel 1973 da giovani intellettuali statunitensi impegnati nel movimento contro la guerra in Vietnam…

Il fascino della poesia - da Blitz, di Gianni Minà

lunedì 27 febbraio 2017

Divide et Impera: come il sistema scolastico semina divisione tra i palestinesi di Israele

di Mona Bieling (Middle East Eye)

Com’è strutturato attualmente, il sistema scolastico israeliano serve chiaramente ai principali interessi dello Stato piuttosto che a quelli degli studenti arabo- palestinesi.
Il sistema educativo in Israele è uno dei principali contesti in cui cittadini arabo-palestinesi di Israele ed ebrei sono segregati gli uni dagli altri, in quanto le scuole sono rigidamente separate in differenti settori in base sia alla religione che all’etnia.
Nella sua attuale struttura il sistema è stato fondato nel 1953 con la legge statale per l’educazione che ha definito il quadro giuridico per la formazione di due aree: una per gli ebrei laici e una per i praticanti. Poiché in questa legge la minoranza palestinese non viene citata, ne è scaturita quasi inevitabilmente la costituzione di un settore scolastico arabo separato dai due previsti per gli ebrei.
Nonostante un emendamento della legge nel 2000, il settore destinato agli arabi non ha una posizione giuridica ufficiale, ma esiste come “non ufficiale ma riconosciuto”accanto ai due sistemi ebraici “ufficiali e riconosciuti”. Quindi, fin dall’istituzione del sistema scolastico statale nel 1953, agli israeliani arabo- palestinesi ed a quelli ebrei è in genere impedito di andare a scuola insieme.
Recenti tentativi di prendere in considerazione separatamente la popolazione araba cristiana di Israele riguardo al servizio militare [gli arabo-israeliani non fanno il servizio militare. Ndtr.] e all’educazione suggeriscono che il sistema educativo nella sua struttura attuale non si limita ad offrire una formazione culturale ai cittadini dello Stato. Il ministero dell’Educazione ha il controllo totale dei curricula di ogni tipo di scuola – ebraica, drusa e araba sia pubbliche che private, dall’asilo alle superiori.
Ci sono due modi prevalenti in cui il sistema educativo statale promuove la divisione tra i cittadini palestinesi di Israele: direttamente, attraverso la separazione delle diverse comunità religiose in scuole distinte, la definizione del curriculum e l’assegnazione dei docenti e dei presidi; indirettamente, con questioni relative ai finanziamenti, alle infrastrutture, alle scuole private e all’accesso all’educazione superiore.
Perciò il sistema educativo israeliano può essere visto come un’arma politica utilizzata dal governo per raggiungere i suoi scopi di rafforzamento del carattere ebraico dello Stato piuttosto che per fornire la migliore formazione possibile a tutti i cittadini.
Le divisioni create tra i palestinesi con cittadinanza israeliana avranno anche conseguenze per il tentativo più complessivo dei palestinesi di avere uno Stato e l’autodeterminazione. Pertanto la separazione tra le comunità palestinesi, una dentro Israele e l’altra fuori, come ho fatto in questo articolo, è esclusivamente funzionale all’analisi e non intende inficiare il concetto di una nazione palestinese che li comprenda.
Tener lontani i drusi
I principali e più evidenti interventi attivi da parte di Israele nel sistema educativo per dividere la sua popolazione palestinese sono i tentativi di separare la comunità in base alla religione.
La politica del divide et impera come pratica all’interno del sistema educativo risale al 1956, quando è stato fondato un sistema scolastico separato per i drusi di Israele. Questo sviluppo deve essere visto nel più complessivo contesto del tentativo di Israele di separare la comunità drusa come “un popolo a parte”, non legato in nessuno modo alla comunità palestinese.
Anzi, la lealtà dei drusi verso lo Stato è stata sottolineata e garantita includendo nell’esercito israeliano per il servizio militare tutti i maschi drusi e promuovendo ciò nelle scuole druse. Perciò, come mi ha detto la scorsa estate Ra’afat Harb, un attivista druso, sia il contesto che il curriculum nelle scuole druse sono diversi rispetto alle altre scuole degli arabo-palestinesi.
Il risultato dell’educazione segregata, limitata e tendenziosa nelle scuole druse è che l’identità drusa è stata rimodellata in modo da corrispondere all’obiettivo dello Stato e della maggioranza ebraica. Ovviamente l’identità è sempre un concetto mutevole, che è diverso sia individualmente che collettivamente, e si può manifestare in vario modo. Di nuovo, secondo Harb, ci sono drusi che si identificano come palestinesi, come arabi, come israeliani o persino come sionisti.
Tuttavia, attraverso il sistema educativo, lo Stato ha attivamente inibito lo sviluppo di un’identità araba e palestinese dei drusi ed ha invece imposto loro un’identità unicamente drusa/israeliana. Così facendo lo Stato ha chiaramente seguito un progetto per allontanare i drusi dalla comunità arabo-palestinese.
Sfide per gli arabi beduini
Un’altra divisione molto importante creata all’interno della comunità palestinese in Israele è quella tra arabi cristiani/musulmani da una parte e arabi beduini dall’altra.
La maggioranza dei beduini di Israele vive nel Naqab (Negev), nel sud del paese, dove devono sopportare condizioni di vita miserabili a causa del tentativo israeliano di espellerli dalla loro terra e concentrarli in pochi villaggi e cittadine.
Secondo Noga Dagan-Buzaglo, un ricercatore del centro “ADVA” (Informazione sull’Uguaglianza e la Giustizia Sociale in Israele), in quanto abitanti di villaggi non riconosciuti [dallo Stato israeliano. Ndtr.], i beduini patiscono le peggiori condizioni di vita del Paese.
Benché lo Stato sia obbligato a fornire educazione a tutti i cittadini dall’età di 3 o 4 anni, le scuole nel Naqab si possono trovare solo in villaggi e cittadine riconosciuti. Ciò rende difficile ai genitori dei villaggi non riconosciuti mandare a scuola i propri bambini in modo regolare.
Secondo Muhammad Zidani, ricercatore, e Muna Haddad, avvocato, entrambi di Adalah, il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba in Israele, poiché i genitori possono essere processati se non mandano i figli a scuola, alcune famiglie si sono spostate dai villaggi non riconosciuti a quelli riconosciuti per facilitare la frequenza scolastica ed evitare denunce penali.
Anche a questo proposito, l’educazione è utilizzata come uno strumento politico per imporre la volontà dello Stato ai suoi cittadini arabi, in questo caso spostando una parte della popolazione dalla sua terra d’origine.
Isolare gli arabi cristiani
Un terzo, e abbastanza recente, sviluppo è il tentativo di Israele di isolare gli arabi cristiani come ha fatto con i drusi per 60 anni.
Nel 2013 sono aumentati i tentativi dello Stato per incoraggiare gli arabi cristiani ad arruolarsi nell’esercito israeliano, approfittando del fatto che sono meno numerosi degli arabi musulmani, e cercando di creare timore per la “crescente ‘minaccia musulmana’ nella regione.” L’attuale tentativo dello Stato di assegnare agli arabi cristiani una nuova etnicità aramaica è collegato a questo.
Odna Copty, che lavora per il Comitato di Monitoraggio dell’Educazione Araba (FUCAE), afferma che gli arabi cristiani come lei sono ora definiti come aramaici piuttosto che arabi.
“Dicono che siamo un gruppo con religioni diverse e non abbiamo niente in comune, ” afferma. “Quando parlo con qualcun altro che è arabo, non mi viene mai in mente di chiedergli specificamente della sua religione, perché nella cultura araba non è educato fare domande simili.”
L’intento dello Stato di isolare i cristiani e fare in modo che adottino una nuova identità aramaica non ha ancora attecchito tra la gente. Al contrario, molti arabo-palestinesi come Copty deridono questi tentativi come artificiosi e destinati a fallire.
Tuttavia il passato dimostra che simili iniziative hanno avuto successo nel contesto dei drusi. Pertanto questa nuova strategia del divide et impera dovrebbe essere presa sul serio piuttosto che liquidata come assurda.
La storia di qualcun altro
La seconda area importante in cui lo Stato mette in atto direttamente la sua politica del divide et impera sono i contenuti che gli alunni studiano a scuola. Tutto il sistema educativo è basato “sui valori della cultura ebraica e sui successi in campo scientifico, sull’amore per la patria e la lealtà nei confronti dello Stato e del popolo ebraico (…)” come stabilito nella legge dell’Educazione Statale del 1953.
In pratica, ciò significa che i curricula destinati ai settori ebraici laici o religiosi intendono insegnare agli studenti i valori del sionismo ed il punto di vista ebraico. Di conseguenza, gli studenti arabo-palestinesi durante i 14 anni di scuola non apprendono niente della storia o della cultura del loro stesso popolo.
Oltretutto l’immagine degli arabo-palestinesi descritta per loro nei libri di testo è negativa, se non apertamente razzista.
Le differenze tra gli arabo-palestinesi sono evidenziate in un nuovo e controverso testo di educazione civica introdotto in maggio dall’attuale ministro dell’Educazione Naftali Bennett.
Nonostante accese proteste da parte della comunità arabo-palestinese, Bennett ha insistito per la pubblicazione di un libro che, tra le altre cose, “senza ragione distingue tra le componenti musulmane, cristiane, aramaiche e druse di Israele e dedica più attenzione al servizio militare di quest’ultima piuttosto che al sottogruppo più ampio “, cioè gli arabi musulmani.
Legata a questo problema è l’assunzione di insegnanti e presidi nelle scuole arabe. All’interno della comunità palestinese in Israele è risaputo che il ministero dell’Educazione non nomina le persone più adatte a questo lavoro, ma quelle che collaborano con lo Stato.
Il fatto che lo Shabak (Shin Bet), il servizio di sicurezza interno di Israele, sia coinvolto nelle assunzioni – e nella selezione che le precede- degli insegnanti e dei presidi dimostra quanto Israele consideri fondamentale la nomina delle persone ‘giuste’. Scegliendo insegnanti e presidi leali, o per lo meno non critici, lo Stato garantisce che verranno insegnati solo i contenuti previsti dal curriculum scolastico. Persino nelle scuole private, che hanno un certo grado di libertà riguardo all’assunzione dei docenti e ai contenuti, gli insegnanti sono consapevoli del loro ruolo all’interno del sistema e aderiscono in maggioranza alla narrazione dominante.
Tutti questi aspetti presi insieme garantiscono che lo Stato, grazie all’intervento diretto nel sistema educativo, trasmetta solo la narrazione sionista dominante, che dovrebbe tutelare il carattere ebraico dello Stato. Questa prassi intende seminare divisioni tra gli studenti arabo-palestinesi, perché nega l’esistenza di una Nazione palestinese e sottolinea piuttosto ogni aspetto che separa la comunità in termini di religione o di altro.
Buona educazione – se te lo puoi permettere
Israele tenta anche di indebolire la coesione nella comunità arabo-palestinese in un modo più indiretto e sottile. Anche se le cifre esatte variano, è evidente che il ministero dell’Educazione assegna molti meno fondi alle scuole arabe che a quelle ebraiche, con il risultato di una grave mancanza di risorse in tutte le scuole pubbliche arabe.
Le scuole dei beduini sono considerate ben fornite se si tratta di edifici di mattoni con acqua corrente ed elettricità. In seguito al costante lavoro del FUCAE, il ministero dell’Educazione è totalmente al corrente della quantità di denaro necessaria annualmente per studente al fine di ridurre la differenza tra studenti ebrei ed arabi.
Tuttavia, secondo Aatef Moadei, direttore generale del FUCAE, Israele è interessato a gestire questa differenza piuttosto che a ridurla. L’indifferenza dello Stato è ancora più evidente quando si prende in considerazione il fatto che è diretta contro persone che rappresentano oltre il 20% dei suoi stessi cittadini, che pagano tutti le tasse e si aspettano di vedere in cambio investimenti significativi.
In conseguenza della mancanza di fondi e della carenza delle infrastrutture nella maggior parte delle scuole pubbliche, le scuole private arabe sono diventate l’alternativa preferita per i genitori che vogliono che i propri figli ricevano un’educazione migliore. Molte scuole private arabe sono gestite ed in parte finanziate da chiese, il che significa che hanno più fondi di cui avvalersi e maggiore libertà nella gestione degli affari interni della scuola. Le scuole delle chiese arabe sono aperte a tutti gli alunni arabi, non solo ai cristiani.
Tuttavia, poiché i genitori devono pagare le tasse d’iscrizione a queste scuole, le famiglie arabe più povere, che sono in genere musulmane, sono escluse da questa alternativa. Di conseguenza, con i finanziamenti volutamente scarsi alle scuole pubbliche e obbligando la comunità araba a rivolgersi all’educazione privata, che è in parte a pagamento, ancora una volta lo Stato impone una divisione della comunità in base alla religione, oltre a mettere in evidenza la stratificazione in base alla classe sociale.
Mantenere poco istruiti gli studenti
La strategia dello Stato riguardo al sistema educativo arabo intende garantire che i cittadini palestinesi di Israele rimangano poco istruiti, pur fornendo loro la formazione sufficiente a mascherare la realtà sia per la comunità internazionale che per l’opinione pubblica israeliana.
Il grave deficit nel sistema scolastico determina una bassa partecipazione degli arabi all’educazione superiore: solo uno studente arabo su quattro arriva all’educazione superiore, rispetto a uno su due studenti ebrei. Di conseguenza, le misure dirette ed indirette attuate dallo Stato non portano solo al rafforzamento delle differenze all’interno della comunità arabo palestinese.
Su scala più ampia, queste misure configurano anche un sistema che produce forza lavoro relativamente poco qualificata, per esempio formando insegnanti arabi poco qualificati, cosa che, a sua volta, avrà un effetto sulla prossima generazione di alunni arabo- palestinesi – garantendo una costante marginalizzazione della minoranza palestinese in Israele.
Democrazia solo di nome
Quindi lo Stato interferisce direttamente e indirettamente nel settore dell’educazione araba e intende imporre la separazione tra i cittadini arabo- palestinesi in Israele sulla base dell’etnia, della religione, della geografia e della classe sociale. Il sistema scolastico, così com’è ora, serve agli interessi dello Stato piuttosto che a quello degli studenti.
I palestinesi in Israele sono consapevoli delle diversità della loro comunità. Tuttavia sostengono che il governo utilizza il sistema educativo per rafforzare le differenze esistenti, che non sarebbero così problematiche se non fossero sottolineate continuamente dallo Stato. Il controllo delle loro scuole da parte del ministero dell’Educazione e soprattutto l’assoluta mancanza di libertà riguardo ai contenuti insegnati sono due pratiche che rifiutano ampiamente.
Dunque la comunità araba palestinese di Israele chiede una completa autonomia per il settore dell’educazione araba, per farsi totalmente carico della distribuzione dei fondi, dei contenuti dei curricula e dell’assunzione degli insegnanti in tutte le scuole arabe.
L’autonomia del settore educativo arabo in Israele sarebbe un importante passo verso il miglioramento dell’educazione araba in generale. Inoltre determinerebbe un cambiamento per i cittadini arabo- palestinesi di Israele, ponendo fine ai tentativi dello Stato di dividerli in comunità sempre più ridotte per mettere in crisi il movimento nazionale palestinese.
Anche se questo obiettivo può sembrare utopico, è di cruciale importanza che Israele inizi a trattare tutti i suoi cittadini, ebrei e non, allo stesso modo se vuole continuare a chiamarsi e ad essere chiamato una democrazia.
– Mona Bieling è una dottoranda in Storia Internazionale presso l’Istituto Universitario di Studi Internazionali e Sviluppo (IHEID) di Ginevra, Svizzera. Questa ricerca è stata realizzata con il sostegno di Baladna – Associazione per la Gioventù Araba di Haifa, Israele.
Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.
(traduzione di Amedeo Rossi)
http://zeitun.info/2017/02/13/divide-et-impera-come-il-sistema-scolastico-semina-divisione-tra-i-palestinesi-di-israele/

Io, l’altro e il pensiero critico - Giovanni Fioravanti


E se la rete fosse una ragnatela in cui restano imbrigliate le nostre solitudini, i nostri Io privati dei Tu che rendono significativa la nostra esistenza? È la suggestione che ci offre Lamberto Maffei, già professore emerito di Neurobiologia alla Normale di Pisa e attuale vicepresidente dell’Accademia dei Lincei, autore, dopo l’Elogio della lentezza, dell’Elogio della ribellione, edito da il Mulino.
È la solitudine a minacciare il nostro cervello troppo connesso, che rischia di perdere gli stimoli fisiologici dell’ambiente, del sole, della realtà palpitante che ci circonda. La rete virtuale che ha soppiantato la rete sociale. Dov’è l’uomo, ci sarebbe da chiedersi con Diogene, in questa epoca dominata dalla tecnologia e dalle macchine. Cosa resta all’uomo per non perdersi? Per Maffei la risposta è chiara: il cervello. Quel dono straordinario e speciale che tutti noi abbiamo ricevuto dall’evoluzione, un grande cervello che può pensare, parlare, ascoltare. Perché, dunque, non usarlo?
La grande ribellione oggi consiste nell’uso tenace delle facoltà del nostro cervello, nella possibilità che questo meraviglioso organo ci serva per ragionare. Al suo Galileo, Bertol Brecht fa dire:
“Credo nell’uomo e questo vuol dire che credo nella sua ragione! Senza questa convinzione non avrei, al mattino, la forza di alzarmi dal letto”.
Di fronte alle ingiustizie intollerabili del mondo che fanno coesistere zio Paperone accanto ai miserabili nella generale indifferenza, occorre continuare a credere che con il nostro cervello, capace di razionalità, potremmo cambiare il mondo in meglio, il nostro stare su questa terra, dandogli un minimo di senso e di dignità.
Il sapere, la scienza, scrive Maffei, fanno paura perché tendono ad essere veri. Per questo la conoscenza e un cervello critico sono fondamentali per la realizzazione di una società più giusta.
La ribellione sociale non può e non deve essere espressione della parte emotiva del cervello o del cervello rapido, più istintuale, che decide senza considerare tutte le variabili della situazione. La libertà come la ribellione devono essere la manifestazione del cervello lento, della razionalità, del cervello del tempo e del linguaggio, del colloquio con l’altro. Del cervello che si fa sociale, del cervello che necessita dell’incontro con l’altro, del dialogo, dello scambio.
Conoscere sé stessi e gli altri e i limiti della nostra libertà è la base di ogni etica. Io sono io con la mia identità, il mio colore della pelle e la mia storia personale, ma da solo non sono nessuno. Come ci ricorda il filosofo Ricoeur, la nostra identità è narrativa, e questa narrazione può nascere solo perché presuppone l’incontro con l’altro, perché è scritta a più mani. È solo la reciprocità delle narrazioni a disegnare l’identità di ciascuno, ma ciò porta con sé il sentirsi parte della realtà che ci circonda.
Non siamo le monadi solitarie nell’universo della rete, ma individui collettivi. L’altro come noi in cui rispecchiarsi per vedersi, non individui soli, ma un’idea rivoluzionaria, una rivolta pacifica fondata sulla comprensione e la razionalità.
Un cervello critico deve guardare al futuro in modo progettuale, ma prima di proporre cambiamenti deve esplorare sé stesso guardandosi nello specchio dell’altro per scoprirsi, per capirsi. Stendere la rete della conoscenza per mezzo del colloquio con il prossimo, con il desiderio del sapere e di condividere i pensieri, unire i propositi per formare un cervello collettivo che si muova in rivolta.
Se l’obiettivo è quello di formare cittadini critici, che non ascoltino passivamente gli ingannevoli messaggi dei mercati e dei politici di carriera, che imparino che ubbidire può essere una forma di pigrizia, quando non di vigliaccheria, lo stimolo adeguato è indubbiamente l’educazione all’uso del proprio cervello.
Un’educazione che può realizzarsi prima di tutto nella scuola. Una scuola che miri alla sapienza più che alla conoscenza, alla formazione più che alla informazione.
L’unica arma vera che ci resta è, dunque, il nostro cervello, ma un cervello che sia aperto, ricordando un vecchio motto caro anche ad Einstein:
“Il cervello è come un paracadute, funziona meglio quando è aperto”.

domenica 26 febbraio 2017

Considerazioni ispirate alla scoperta dei sette pianeti di Trappist-1 - Mauro Antonio Miglieruolo


“Potrebbero essercene altri” dicono alla Nasa. A noi, per sognare bastano i sette appena scoperti.

 Trappist-1, sole noto anche con la sigla “2MASS J23062928-0502285”.  Stella nana rossa ultrafredda di classe spettrale M8, dieci volte più piccolo del sole, distante 39,5 anni luce dal sistema solare, localizzato nella costellazione dell’Acquario.
“Potrebbero essercene altri” dicono alla NASA.
A noi, per sognare, ma anche per attualizzare e condensare speranze, bastano i sette appena scoperti. Di cui ben tre sicuramente forniti d’acqua.

La distanza, sottolinea qualcuno, forse per spegnere facili entusiasmi, è notevole, eccessiva per le nostre possibilità: 39 anni luce. Utilizzando non quelli di oggi, ma vettori anche cento volte più veloci, occorrerebbero diecimila anni circa per arrivarci. Una obiezione fondata che nasconde il dubbio – a parte la meraviglia e lo stupore di ognuno – che non si sappia proprio cosa farsene di una scoperta simile. Quale utilità comporta, di là dallo stupore, sapere dell’esistenza di tali pianeti inaccessibili?
Se questo è il tema e per qualcuno lo è, lo si può far subito contento ammettendo che spazi concreti per ottenere vantaggi materiali non è dato trovare (nemmeno importa; certamente a me non importa). Di concreto non c’è che la possibilità, basandosi sulle nuove conoscenze astronomiche, di allargarle ulteriormente. Scoprendo nuovi pianeti, aggiungendo segni concreti di vita extraterrestre, avviando finalmente un dibattito serio sull’ormai decennale questione degli incontri ravvicinati di vario tipo. Più serio e proficuo mi sembra invece lavorare per trarre dall’episodio, come tenterò di fare adesso, gli insegnamenti che sempre è possibile ricavare da ogni esperienza umana. A partire dalle esperienze del suo conflittuale rapporto con la natura.
Vediamoli allora da vicino questi insegnamenti. Il primo e più importante (vantaggio etico evolutivo) è il suggerimento, quasi una necessità, di allargare gli  attuali atteggiamenti sulla realtà e sulle responsabilità rispetto al mondo che ci ospita. Viviamo in un Universo la cui vocazione fondamentale è produrre vita, riempirsi di vita. Vita e probabilmente anche intelligenza. L’incalcolabile numero di pianeti abitabili, che darà luogo a un enorme numero di pianeti abitati, rende statisticamente certo che vi sarà anche una gran copia di intelligenza. Quindici miliardi di anni (o dodici?) ha l’universo; impensabile spessore di tempo, non a misura d’uomo… la vita dunque ha avuto tutto il tempo per compiere la propria missione (quella che considero essere lo scopo della vita): produrre autocoscienza. Produrre l’occhio con il quale l’Universo osserva e conosce se stesso.
In questo Universo, un Universo sempre più sorprendente, possiamo mantenerci ed essere protagonisti a condizione di rispettare e sostenere la vita. Tutta la vita, e per primo la vita intelligente. Per favorire ed essere parte di quello sguardo che se è conoscenza del mondo, è anche conoscenza di noi stessi. Per arrivare a munirci di spiegazioni più credibili intorno al tema dei temi sul perché siamo qui e quali le strade per realizzarci; cioè essere essendo in armonia con ciò che ci circonda. Se non lo faremo, se non stabiliremo quantomeno un armistizio con la natura, questo universo ci espellerà da sé, nello stesso modo con cui un corpo espelle le forze ostili che lo aggrediscono. Possiamo scegliere, essere la malattia che produce la febbre, o essere gli anticorpi che salvano chi li ospita.
Rispetto della vita! Sembra paradossale dirlo. Riferito a un Noi… che sta uccidendo la Terra! Noi, che non abbiamo ancora imparato a dialogare con il diverso da noi; che non accettiamo le piccole diversità di coloro che abitano dietro l’angolo, al massimo alla distanza di un continente (e qui siamo di fronte a una sfida di anni luce!); diverso solo perché veste, pratica una religione, una lingua differente. Come faremo allora con qualcuno la cui diversità è smisurata? qualcuno da cui siamo separati da un abisso di spaziotempo? che è frutto di una evoluzione che non ha alcun punto di contatto con la nostra? Sono questi i problemi con i quali dovremo confrontarci, da subito, a partire dall’incontro con il vicino “antipatico” che bussa alla nostra porta, il nero, il siriano, il latino (il rumeno!), lo zingaro che tende la mano e prima ancora di ricevere l’elemosina; e che si aspetta di stringere la nostra, ricevendo nello stesso tempo una parola di simpatia o di fraterna accettazione.  Nell’universo che si apre ai nostri desideri,  ai sogni e alle nostre esigenze, ogni chiusura costituisce un limite intollerabile. Niente di buono ne può conseguire.
2
Ma perché dico di tanti mondi e delle tante possibilità? Non migliaia, miliardi di mondi (miliardi probabilmente nella sola nostra galassia: e le galassie pullulano in cielo. Galassie come granelli di sabbia!). Che siano tanti lo suggerisce la storia stessa che, partendo dal globo infuocato primordiale che è stata la Terra, ci ha portato fino a noi. Per anni ci si è baloccati sull’improbabilità dell’insorgere della vita su tale insignificante palla di aria e fango. Per decenni ci su è attardati a considerare che cinque miliardi di anni non erano sufficienti, dal punto di vista probabilistico, a mettere in moto il processo di costruzione della vita. Ergo, o la vita era frutto di un incidente pressoché irripetibile, oppure doveva esserci stato un intervento divino. In ambedue i casi molti dubbi potevano essere avanzati sull’esistenza di altri mondi, altre Terre (ipotesi questa che a qualcuno è costato la vita. Vedi Giordano Bruno). Poi la scoperta nelle più antiche rocce del pianeta, quattro miliardi di anni fa, cioè praticamente subito dopo che la superficie si è raffreddata, di microscopiche testimonianze di forma di vita elementari. La scoperta che sarebbe stata l’azione di questi minuscoli esseri a iniziare la creazione dell’atmosfera che possiamo respirare. Ma questi esseri non potevano essersi formati sulla terra, non c’era stato tempo perché le complesse molecole necessarie, brodo primordiale (e lampi) o non brodo primordiale, avessero messo in moto i processi necessari.
Infatti venivano dallo spazio. Portati da quelle stesse meteoriti (sulle quali sono stati individuati) che conducevano con sé gli altri elementi essenziali allo sviluppo della vita: gas (atmosfera) e acqua. Gli oceani non sono che il frutto di un immane bombardamento di meteoriti composti prevalentemente di ghiaccio, una bombardamento durato decine di milioni di anni.Un paradosso: l’irruzione di elementi estranei, per quanto sotto forme catastrofiche, determina positivamente l’avvenire del Mondo. Offre a noi la possibilità di essere. Nonché di prosperare. Possibilità che non fosse per il dispotismo del Capitale sarebbe compiutamente realizzata.
3
È dallo spazio “vanvogtiano” (senza fine e senza principio) allora – lo spazio vuoto di tanti romanzi di fantascienza che la fisica quantistica suggerisce invece essere pieno di energia – che vengono gli elementi (acqua, aria, microrganismo) che hanno trasformato il mondo per come lo conosciamo. Uno spazio in cui gli elementi che entrano a far parte della formula dell’acqua (Idrogeno e Ossigeno) sono tra i più diffusi nell’Universo. Sono presenti come elementi da combinare e come elementi combinati. Cioè già come acqua. È recente la stata scoperta attorno a un quasar (non chiedetemi cosa sia, ve ne prego) collocato a circa dodici miliardi di anni luce, di un immenso serbatoio, sotto forma di vapore acqueo, pari a oltre 140mila miliardi di volte quella presente sul nostro pianeta. Perché non dovremmo credere, avuta la prova dell’esistenza di pianeti di tipo terrestre che le medesime circostanze che hanno favorito l’insorgere della vita nel Sistema Solare, precipitare di meteoriti ricchi di gas, acqua, microrganismi, abbiano dato luogo a innumerevoli storie biologiche analoghe? Personalmente mi piace credere che l’Universo non sia altro che un gigantesco germinatoio di esistenze, un laboratorio dove queste ultime vengono messe alla prova. Dove viene data l’occasione alle creature di manifestarsi, di evolvere e acquisire consapevolezza. Milioni e miliardi di singole collettive consapevolezze. L’unione di tutte queste (apparentemente) separate coscienze, raggiunto un determinato punto critico, accenderà una luce che costituirà l’autocoscienza Cosmica, il Dio di cui tanto blateriamo (il mezzo con il quale la materia approderà alla piena consapevolezza di sé). Ognuno una particella di questo Dio. Ognuno pertanto Dio.
Ma bando alle speculazioni (bando cioè alla fantascienza). Resta lo straordinario della scoperta. Resta il “non ce ne cale” di tanti che, in fondo, se ne fregano dell’eventuale esistenza o inesistenza di ben più ampie porzioni di ciò che considerano possibile. Se ne fregano dell’umanità e dell’umanesimo, della pietà, della pace e della concordia. Insieme ad altri che, al massimo, ammirano attratti esclusivamente dall’eccezionalità dell’evento. Nello stesso modo in cui meraviglierebbero all’interno di un baraccone da fiera. Mentre qui conta invece vedere, riflettere; conta considerare il valore della prospettiva di un contatto interspecie che di per sé indirizza il pensiero, che lo spinge ad allontanarsi da quello selvaggio, il pensiero che vede nell’altro solo lo straniero, il barbaro, l’aggressore, il ladro (sguardo atroce: l’uomo essendo assente). Resta l’eccezionalità di entrare in una didattica che pone il problema di gettare un ponte non più tra continenti, ma tra le stelle.
4
Le possibilità odierne di realizzare questo ponte sembrano minime. Come superare quei 39 apparentemente insuperabili anni luce? Come superarli anzitutto nelle coscienze? Far loro intendere che ciò che vediamo come limiti oggettivi, sono limiti di un’epoca, di un momento storico. Spesso solo limiti ideologici. In coscienze nelle quali produce ancora scandalo e rifiuto uno dei primi contributi, fornito da Marx con il concetto di “caduta tendenziale del saggio di profitto”, alla rottura della gabbie intellettuali che hanno ostacolato la formulazione della nuova meccanica quantistica; e si ostinano tutt’ora in pieno XXI secolo (specialmente i chierici della chiesa Economia, schierati tutti a difesa della classe dominante) a ragionare in termini deterministici?
Non lo si può ottenere certo con una mera attività didattico-illuministica, che pure non bisogna trascurare; perché un mutamento dl genere è ottenibile attraverso la trasformazione delle condizioni sociali che soffocano il dispiegarsi di tali esigenze. Attraverso un cambiamento che ponga l’oggettiva svalutazione del dato egoistico e dell’aggressività; e siano la cooperazione, la generosità e il rispetto a essere incoraggiati. Infinite possibilità si aprono a coloro che credono bene, vedono positivo, pensano costruttivamente. L’impossibile di oggi può diventare rapidamente il banale scontato di domani.
Per altri versi la fisica quantistica ce lo insegna. È vano parlare di cause che precedono gli effetti. Cause ed effetti procedono congiuntamente, avvolti negli ancora misteriosi concetti della nuova scienza, nei quali è difficile destreggiarsi. Dice ad esempio Fritjof Capra (“Il Tao della Fisica”): L’universo appare come una rete dinamica di configurazioni non separabili. Io appaio separato dall’altro, dall’abitante di un sole lontano ad esempio, ma lo sono effettivamente? Ci dice ancora la Meccanica Quantistica che esistono correlazioni istantanee non-locali tra particelle subatomiche, qualunque sia la distanza che le separa (correlazioni che superano i limiti relativistici).
Correlazioni che superano i limiti relativistici!? La domanda vera allora è: quando sarà che questi limiti relativistici saranno superati dalla tecnologia?
Oggi non possiamo, ma domani chissà. Una stretta di mano o una stretta di chele può entrare nell’ambito delle azioni possibili. Perché impossibile è solo ciò che è già avvenuto e perciò non può più far parte dell’avvenire. Il resto è nel ragionevole probabile che la logica scientifica lascia trasparire. E nella volontà dell’essere che a quella logica attinge (con la sua propria logica, e speriamo non sia quella giusta).
APPENDICE:
Trappist-1: che cos’è una nana rossa ultrafredda? Che cosa è Trappist-1? Un astro di classe M che ha circa un decimo della massa del Sole e un millesimo della sua brillantezza. La sua massa ridotta rende possibile ai suoi pianeti di orbitargli molto vicini, pur rimanendo nella fascia di abitabilità. Si tratta del tipo più diffuso nella nostra galassia, dove il numero di nane rosse ultrafredde supera quello di stelle simili al Sole in un rapporto di 12:1. In passato, questi astri sono stati snobbati dai cacciatori di esopianeti, in favore di stelle più grandi e brillanti. Trappist-1 è la prima a essere stata sottoposta a osservazioni prolungate e approfondite.
 I pianeti: Trappist-1 b, c, d, e, f, g, h (dal più vicino al più lontano), sono  pianeti rocciosi con raggio e massa simili a quelle terrestri. Si sono formati forse 500 milioni di anni fa insieme alla loro stella (sono quindi ancora giovani) e hanno orbite circolari che procedono tutti nella medesima direzione. Mostrano tutti o quasi la stessa faccia al loro astro e hanno una densità che va dal 60% al 117% di quella terrestre.
NOTA: Attenzione. Se fosse confermato che esibiscono quasi tutti (un “quasi” incoraggiante) la stessa faccia al sole, tipo Luna nei confronti della Terra, per parlare di possibilità della vita sarebbe allora necessario ricorrere a speculazioni di tipo apertamente fantascientifico.

sabato 25 febbraio 2017

Lidl, lettera agli studenti - Matteo Saudino


Cari studenti,
quando vi chiedete come sia stato possibile Auschwitz, guardate le facce dei due lavoratori della catena di supermercati Lidl, che hanno rinchiuso le due donne rom in un container. Poi ascoltate le loro risa e le loro parole.
Cari studenti, se ancora non capite come sia stato possibile il genocidio di milioni di uomini, donne e bambini pensate che questi due lavoratori non sono cresciuti in una dittatura, bensì in una democrazia, frequentandone le scuole.
Cari studenti, ogni volta che affermate che certo odio e certa violenza siano un unicum irripetibile, guardate questo filmato e riflettete sul fatto che i due magazzinieri mentre facevano ciò hanno deciso serenamente di realizzare un video e poi di renderlo pubblico, suscitando l’entusiasmo e l’ammirazione di migliaia di altri cittadini, tra cui il leader di un partito che nei sondaggi è dato al 13 per cento.
Cari studenti quando pensate che la democrazia sarà per sempre, pensate che essa per vivere e fiorire ha bisogno di robusti anticorpi, di passione, di partecipazione, di pensiero critico e di legami sociali solidali. Se tutto ciò viene meno, allora giunge il tempo degli sciacalli e dei professionisti dell’odio che sulla crisi della democrazia costruiscono regimi fondati sulla paura, sull’ignoranza e sulla violenza.

Alternanza scuola-lavoro, cronache di un progetto immaturo - Luca Martinelli

Ester ha 18 anni e frequenta un liceo del salernitano. È un’alunna di quarta superiore, e segue l’indirizzo delle scienze umane: nell’ambito di un progetto di alternanza scuola-lavoro, che dall’anno scolastico 2015-2016 è diventata obbligatoria per gli alunni delle classi terze dei licei (vedi box a pagina 20), si è recata insieme a una cinquantina di compagni all’interno di un’azienda agricola del territorio, una “fattoria didattica”. I bambini che avrebbe dovuto accudire, però, erano meno di una decina -racconta-, e così i titolari, una coppia, avrebbe mandato gli studenti a raccogliere pomodori. Al telefono, Ester spiega che il problema non è la raccolta di pomodori, ma il fatto che questo tipo di attività non si presta a un progetto di “alternanza”, né formi in alcun modo futuri educatori o insegnanti come lei e i suoi compagni.
Andrea, invece, studia da cuoco in un istituto alberghiero abruzzese: nella primavera del 2016, quand’era ancora minorenne, ha ottenuto la possibilità di svolgere fuori Regione il periodo di alternanza, due settimane a cavallo di Pasqua prestando servizio presso un hotel della riviera romagnola. A Rimini è arrivato accompagnato dai genitori, e nei primi due giorni -spiega al telefono- ha avuto modo di capire il funzionamento della cucina di una struttura ricettiva; durante il terzo giorno, però, è stato invitato ad abbandonare la stanza dell’hotel che gli era stata assegnata, una singola, per andare ad occupare una specie di magazzino, in condizioni igieniche precarie. Dopo aver richiamato i genitori, Andrea è tornato in Abruzzo, completando il periodo di alternanza in una pasticceria. Ha segnalato ai dirigenti del suo istituto l’hotel, che è stato depennato dalla lista delle “strutture ospitanti”, come le definisce il ministero dell’Istruzione.
È la legge 107 del 2015, quella conosciuta come “la buona scuola” (labuonascuola.gov.it), ad aver reso obbligatorio per tutti gli studenti del triennio superiore l’alternanza scuola-lavoro: nei tecnici e nei professionali, come la scuola frequentata da A., questa occupa 400 ore; 200 ore, invece, nei licei, come quello dove studia C.: nell’anno scolastico 2015-2016, gli studenti coinvolti sono stati oltre 652mila, in larga parte delle classi terze, ma saranno un milione e mezzo nel 2017-2018.
Non tutti vivranno esperienze come quelle di Ester e Andrea, ma sono anche gli insegnanti a riconoscere che la riforma è incompleta, e l’alternanza -il cui obiettivo è quello di aumentare le competenze dei ragazzi- rischia di essere un flop.
Lucia Dorigo insegna scienze umane al Liceo Adelaide Cairoli di Pavia, 1.800 alunni e quattro indirizzi: all’interno del suo istituto coordina l’attività, che lo scorso anno ha coinvolto 350 studenti, raddoppiati quest’anno. “Costruire un percorso di alternanza significa lavorare sulle competenze, da sviluppare sia a scuola sia all’esterno: questo aspetto della riforma lo ritengo intelligente, perché in questo modo gli studenti sono chiamati a risolvere problemi. Si tratta di un ribaltamento rispetto alla didattica frontale”.
I problemi principale per trasformare questo modello in realtà? “I programmi non sono cambiati, e sono enciclopedici: l’esame di maturità presuppone che la classe arrivi fino a un certo punto in storia, in filosofia…”. L’ordine d’intervento -secondo Dorigo- avrebbe dovuto essere un altro: “Prima mettere mano ai programmi, quindi all’esame di maturità, e poi, arrivati a quel punto, introdurre la didattica per competenze, anche rafforzando il rapporto sul territorio con l’alternanza”. Anche perché, ed è il secondo aspetto negativo, per gli insegnanti è difficile “costruire percorsi con aziende, che sono quelli caldeggiati dal ministero: per gli studenti del liceo Cairoli ci sono appena 4 posti. Non abbiamo ancora la possibilità di accedere ad un elenco delle aziende presenti sul territorio; ho scritto a molti, ma non mi hanno risposto” sottolinea la professoressa Dorigo.
Secondo un monitoraggio del primo anno di obbligatorietà realizzato dalla Federazione lavoratori della conoscenza della Cgil, l’80% dei progetti di alternanza sono nati in modo casuale, “a partire da offerte dei soggetti privati” si legge in una sintesi della ricerca. Secondo lo stesso report, “un ragazzo su 4 è fuori da percorsi di qualità”, ovvero ha partecipato solo ad attività propedeutiche (a scuola) o solo ad esperienze di lavoro. Oscar Pasquali, capo della segreteria tecnica dell’ex ministro Stefania Giannini al dicastero dell’Istruzione, sottolinea come le strutture ospitanti coinvolte nel 2015/2016 siano state 149.795, il 36,1% delle quali imprese. Tracciando un bilancio dopo il primo anno di obbligatorietà, anche Pasquali è consapevole che esista “una questione di ‘qualità’, ma -spiega- volevamo spingere le scuole fuori dalla propria comfort zone, obbligandole ad essere intraprendenti, anche se affiancate e supportate dal ministero”.
Funziona così: il ministero o l’Ufficio scolastico regionale (USR) stipulano con il soggetto interessato -può essere un’azienda, un ente pubblico, ma anche un soggetto no profit- “protocolli” o “accordi quadro”, che per avviare operativamente dei “progetti” di alternanza devono dar luogo a “convenzioni” con le singole scuole. “È la scuola che negozia con la struttura ospitante il percorso formativo, partendo magari da una base già discussa -racconta Pasquali-; e lo studente firma di proprio pugno il progetto formativo, quindi deve fare un lavoro di consapevolezza rispetto a ciò che è previsto che faccia, e ciò che andrà a fare -sottolinea il dirigente del ministero-: se deve fare qualcosa che non è previsto, è giustissimo che lo indichi e permetta anche a noi di essere duri rispetto ai patti sottoscritti. È anche in questo modo che si fa cultura del lavoro. Ma i prossimi saranno anni delicati. Il processo è complesso”.
E lo è ancora di più quando mancano dei pezzi. Solo il 21 novembre 2016, ad esempio, la circolare numero 44 dell’INAIL, l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, ha chiarito -a un anno e quattro mesi dall’approvazione della legge “la buona scuola”- che l’assicurazione scolastica è estesa anche alle attività di alternanza, e che quindi le strutture ospitanti non devono farsi carico di quei costi…

venerdì 24 febbraio 2017

Il problema non è Trump. Siamo noi - John Pilger


Il giorno in cui Trump si insedierà da presidente, migliaia di scrittori negli Stati Uniti esprimeranno la loro indignazione: “Per guarire e andare avanti …” dice l’associazione Writers Resist “desideriamo evitare il discorso politico diretto, e preferiamo invece concentrarci su un futuro stimolante, e su modo in cui, in quanto scrittori,  possiamo essere una forza unificante per far avanzare le democrazia.”
E: “Esortiamo gli organizzatori e gli oratori locali a evitare di usare i nomi dei politici o di adottare un ‘anti’ linguaggio come punto centrale del loro evento di Writers Resist. E’ importante assicurarsi che le organizzazioni no profit, alle quali è proibito fare campagne politiche, si sentiranno sicuri quando parteciperanno e  sosterranno questi eventi.”
Si deve quindi evitare la protesta diretta, perché non è esente da tasse.
Paragonate questa banalità con le dichiarazioni del Congresso degli Scrittori Americani, svoltosi alla Carnegie Hall di New York nel 1935, e di nuovo due anni dopo. Erano eventi elettrizzanti, dove gli scrittori come affrontare gli infausti avvenimenti in Abissinia, Cina e Spagna. I telegrammi inviati da Thomas Mann, C Day Lewis, Upton Sinclair and Albert Einstein venivano letti ad alta voce e riflettevano la paura che i grandi poteri  erano ora dilaganti e che era diventato impossibile discutere di arte e letteratura senza la politica o, addirittura, senza un’azione politica  diretta.
“Uno scrittore,” disse la giornalista Martha Gellhorn durante il secondo congresso, “deve essere un uomo d’azione, adesso…un uomo che ha dato un anno della sua vita agli scioperi dei metalmeccanici, o ai disoccupati, o al problema dei pregiudizi razziali non ha perduto o sprecato il suo tempo. E’ un uomo che è consapevole della sua appartenenza.  Se doveste sopravvivere a un’azione del genere, quello che avrete da dire dopo in proposito sarà la verità,  necessaria  e  reale e che durerà.”
Le sue parole echeggiano in tutto il falso compiacimento e la violenza dell’era di Obama e del silenzio di coloro che sono stati collusi con i suoi inganni.
E’ un fatto incontrovertibile che la minaccia di un potere rapace e rampante fin da prima dell’ascesa di Trump, sia stato accettato dagli scrittori, molti dei quali privilegiati e famosi, e da coloro che sorvegliano i cancelli della critica letteraria, e della cultura, compresa quella popolare. Non è adatta a loro l’impossibilità di scrivere e promuovere la letteratura priva di politica. Non è adatta a loro la responsabilità di far sentire la propria voce, indipendentemente da chi occupi la Casa Bianca.
Oggi il falso simbolismo è tutto. La ‘identità’ è tutto. Nel 2016, Hillary Clinton marchiò milioni di elettori come “una massa di miserabili, razzisti, sessisti, omofobi, xenofobi, islamafobi – chi più ne ha, più ne metta”. Le sue offese sono state “dispensate” a una dimostrazione di LGBT, come parte della sua cinica campagna per conquistarsi le minoranze maltrattando una maggioranza per lo più bianca e della classe operaia. Questo si  chiama: dividere e comandare (divide et impera, dicevano già gli antichi romani, n.d.t.), oppure politica di identità, in cui la razza e il genere nascondono la classe e permettono di combattere una guerra di classe. Trump lo ha capito.
“Quando la verità è sostituita dal silenzio,” diceva il poeta russo dissidente, Yevtushenko, “il silenzio è una bugia.”
Questo non è un fenomeno americano. Alcuni anni fa, Terry Eagleton, allora professore di letteratura inglese all’Università di Manchester, reputava che “per la prima volta in due secoli, non c’è nessun eminente poeta inglese o drammaturgo o romanziere che metta in discussione le basi del modo di vivere occidentale.”
Nessuno Shelley parla per i poveri, nessun Blake parla per i sogni utopici, nessun Byron maledice la corruzione della classe governante, nessun Thomas Carlyle e John Ruskin rivelano il disastro morale del capitalismo. William Morris, Oscar Wilde, HG Wells, George Bernard Shaw, attualmente non hanno equivalenti.  Harold Pinter è stato l’ultimo che ha fatto sentire la sua voce. Tra le attuali voci insistenti del femminismo da consumisti, echeggia quella di Virginia Woolf che descriveva “le arti del  dominare altre persone…di governare, uccidere, di  acquisire  terra e capitale”.
C’è qualcosa di venale e di profondamente stupido riguardo a scrittori famosi quando di avventurano fuori del mondo viziato e si dedicano a un “problema.” Nella sezione Recensioni, del Guardian del 10 dicembre, c’era una fotografia di un Barack Obama sognante che guardava il cielo, e le parole “Amazing Grace”  (Grazia Straordinaria, è un è un famoso inno cristiano del ‘700) e “Addio al capo”.
La piaggeria scorreva come un ruscello inquinato mormorante, pagina dopo pagina. “Era un personaggio vulnerabile per molti aspetti… Ma la grazia. La grazia onnicomprensiva: nei modi e nella forma,  nella discussione e nell’intelletto, con umorismo e bravura.
E’ un  vivo tributo a ciò che è stato e che può essere di nuovo…Sembra pronto a continuare a lottare e resta un campione formidabile da avere dalla nostra parte…La grazia, i livelli quasi surreali della sua grazia…”
Ho fuso insieme queste citazioni. Ce ne sono altre perfino più agiografiche  e prive di      attenuazione. Il principale difensore di Obama del Guardian, Gary Younge, è stato sempre attento ad attenuare,  a dire che il suo eroe “avrebbe potuto fare di più”: oh, ma c’erano le “soluzioni calme, misurate e consensuali…”
Nessuna di queste citazioni potrebbe, tuttavia, superare lo scrittore Ta-Nehisi Coates, il beneficiario di una borsa di studio per “i geni”, del valore di 625.000 dollari, assegnato da una fondazione liberale. In un saggio interminabile per The Atlantic, intitolato: “My President Was Black” (Il mio presidente era nero), Coates ha portato una nuova connotazione alla parola “prostrazione”. Nel “capitolo” finale, intitolato “Quando te nei sei andato, hai preso tutto me stesso con te, un verso di una canzone del cantautore Marving Young , scrive di aver visto gli Obama “uscire dalla limousine, uscire dalla paura, sorridendo,  sfidando  la disperazione, la storia, la gravità”. L’Ascensione, come minimo..
Uno degli elementi persistenti nella vita politica americana, è un estremismo cultuale che si avvicina al fascismo. A questo è stata data espressione ed è stato rafforzato durante i due mandati di Barack Obama. “Credo nell’eccezionalismo americano con ogni fibra del mio essere,” ha detto Obama che ha esteso il passatempo militare preferito dell’America, e gli squadroni della morte (operazioni speciali”), come nessun altro presidente aveva fatto fin dalla Guerra Fredda.
Secondo un’inchiesta del Consiglio per le relazioni internazionali, nel 2016 soltanto, Obama ha fatto cadere 26.171 bombe, cioè 72 bombe al giorno. Ha bombardato le persone più povere del mondo in Afghanistan, Libia, Yemen, Somalia, Siria, Iraq, Pakistan.
Ogni martedì, ha riferito il New York Times, sceglieva personalmente coloro che sarebbero stati uccisi per lo più  dai missili Hellfire  lanciati dai droni. Sono stati colpiti matrimoni, funerali, pastori, insieme a coloro che cercavano di raccogliere le parti dei corpi che  “decoravano” il cosiddetto “bersaglio terrorista”.
Un importantissimo senatore Repubblicano, Lindsay Graham, ha stimato approvandoli,  che i droni di Obama avessero ucciso 4.700 persone. “Delle volte si uccidono persone innocenti, ed è una cosa che odio,” ha detto Obama, “ma abbiamo fatto fuori dei membri molto importanti di Al Qaida.”
Come il fascismo degli anni ’30, le grosse bugie vengono  espresse  con la precisione di un metronomo: grazie a dei media onnipresenti la cui descrizione ora si adatta a quella dell’accusatore di Norimberga: “prima di ogni importante aggressione, con alcune eccezioni basate  sull’opportunità, hanno iniziato una campagna di stampa basata calcolata per indebolire le loro vittime e per preparare psicologicamente i Tedeschi….Nel sistema di propaganda… la radio e la stampa quotidiana erano le armi più importanti.
Consideriamo la catastrofe in Libia. Nel 2011 Obama disse che il presidente della Libia, Muammar Gaddafi stava pianificando il “genocidio” contro il suo stesso popolo.  “Sapevamo…che se avessimo aspettato un altro giorno, Bengasi, una città grande come Charlotte, avrebbe potuto subire un massacro che si sarebbe riverberato in tutta la regione e avrebbe macchiato la coscienza del mondo.”
Questa fu la nota bugia delle milizie islamiste di fronte alla sconfitta a opera delle forze del governo libico. Divenne la storia dei media; la Nato, guidata da Obama e da Hillary Clinton – lanciò 9.700 attacchi contro la Libia, di cui più di un terzo mirati a obiettivi civili. Si usarono testate a uranio; le città di Misurata e di Sirte vennero bombardate a tappeto. La Croce Rossa individuò fosse comuni, e l’Unicef riferì che “la maggior parte [dei bambini uccisi] avevano meno di 10 anni.”
Durante l’amministrazione Obama gli Stati Uniti hanno esteso le operazioni segrete delle “forze speciali” a 138 paesi, o al 70% della popolazione del mondo. Il primo presidente afro-americano ha dato il via quella che è stata equivalente a un’invasione su vasta scala dell’Africa. Ricordando la “Corsa all’Africa” alla fine del 19° secolo, il Comando Africano degli Stati Uniti (Africom), ha costruito una rete di “supplicanti”  tra regimi africani collaborazionisti, desiderosi di mazzette e di armamenti. La dottrina “da soldato a soldato” dell’Africom include ufficiali statunitensi a ogni livello di comando, dal generale al maresciallo. Mancano soltanto i caschi da esploratore.
E’ come se l’orgogliosa storia di liberazione dell’Africa, da Patrice Lumumba a Nelson Mandela, venisse consegnata all’oblio da un’ élite coloniale nera di un nuovo padrone, la cui “missione storica”, avvertiva Frantz Fanon mezzo secolo fa, è la promozione di “un capitalismo rampante anche se camuffato.”
E’ stato Obama che, nel 2011, annunciò quello che divenne noto come il “perno dell’Asia”, in cui quasi due terzi delle forze navali statunitensi sarebbero state trasferite nell’Asia del Pacifico per “confrontarsi con la Cina”, nelle parole del suo Segretario alla Difesa. Non c’era alcuna minaccia dalla Cina; tutta quella impresa non era necessaria. Era una provocazione estrema per fare contenti il Pentagono e i suoi alti ufficiali dementi.
Nel 2014, l’amministrazione Obama ha supervisionato e pagato un colpo di stato guidato da fascisti in Ucraina, contro il governo eletto democraticamente, minacciando la Russa sul suo confine occidentale attraverso il quale Hitler invase l’Unione Sovietica, con una perdita di 27 milioni di vite umane. E’ stato Obama a che ha piazzato i missili nell’Europa dell’Est, puntati verso la Russia, ed è stato il vincitore del Premio Nobel per la Pace che ha aumentato la spesa per le testate nucleari a un livello più alto di quello di qualsiasi amministrazione fin dalla guerra fredda – avendo promesso, in un discorso emozionante a Praga, di “contribuire a liberare il mondo dalle armi nucleari”.
Obama, l’avvocato costituzionalista, ha perseguito più “talpe”  di qualsiasi altro presidente della storia, anche se la costituzione degli Stati Uniti li protegge. Ha dichiarato Chelsea Manning colpevole prima della fine di un processo che era una farsa. Ha rifiutato di perdonare Manning che ha sofferto anni di trattamento inumano che l’ONU dice equivale alla tortura. Si è dedicato a un caso completamente fasullo contro Julian Assange. Ha promesso di chiudere Guantanamo e non lo ha fatto.
In seguito al disastro delle pubbliche relazioni di George W. Bush, Obama, il tranquillo organizzatore di comunità da Chicago attraverso Harvard, è stato reclutato per ripristinare quella che chiama la “leadership” in tutto il mondo. La decisione del comitato del comitato del Premio Nobel, faceva parte di questo: il tipo di stucchevole razzismo al contrario che ha beatificato l’uomo per nessun altro motivo se non quello che piaceva alle sensibilità liberali e, naturalmente, al potere americano, se non ai bambine che uccide nei paesi poveri e per lo più musulmani.
È questo il richiamo di Obama. Non è diverso da quello di un fischietto per cani: non può essere udito dalla maggior parte delle persone, ma è  irresistibile per gli infatuati e i tonti, in particolare per “i cervelli liberali marinati nella formaldeide della politica dell’identità”, come disse Luciana Bohne. “Quando Obama entra in una stanza”, diceva, esaltato, George Clooney, “si vuole  seguirlo e da qualche parte, da qualsiasi parte.”
William I. Robinson, professore presso l’Università della California, e componente di un gruppo incontaminato di pensatori strategici americani che hanno mantenuto la loro indipendenza durante gli anni dei richiami intellettuali per cani fin dall’11 settembre, la settimana scorsa ha scritto:
“Il presidente Barack Obama… potrebbe aver fatto più di chiunque altro per assicurare la vittoria di [Donald] Trump. Mentre l’elezione di Trump ha innescato una rapida espansione delle correnti fasciste della società civile negli Stati Uniti, un esito di tipo fascista per il sistema politico è lungi dall’essere inevitabile… Ma quella reazione richiede chiarezza su come siamo arrivati ad un precipizio così pericoloso. I semi del fascismo del 21° secolo sono stati piantati, fertilizzati e innaffiati dall’amministrazione Obama e dall’élite liberale politicamente fallita”.
Robinson sottolinea che “sia nel 20° secolo che nelle sue emergenti varianti del 21° secolo, il fascismo è, soprattutto, una risposta alla profonda crisi strutturale del capitalismo, come quella del 1930 e come quella che ha avuto inizio con la crisi finanziaria nel 2008… C’è una linea quasi retta qui da Obama a Trump… il rifiuto delle élite liberali di sfidare la rapacità del capitale transnazionale, e il suo marchio di identità politica sono serviti a nascondere il linguaggio delle classi lavoratrici e popolari… spingendo i lavoratori bianchi dentro una ‘identita’ di nazionalismo bianco e aiutando i neofascisti ad organizzarli”.
Il semenzaio è la Repubblica di Weimar di Obama, un paesaggio di povertà endemica, di polizia militarizzata e di prigioni barbariche: è la conseguenza di un estremismo “di mercato”, che, sotto la sua presidenza, ha indotto il trasferimento di $14 miliardi di dollari di denaro pubblico alle imprese criminali di Wall Street.
Il suo più grande “lascito” è forse la cooptazione e il disorientamento di una vera opposizione. La “rivoluzione” illusoria di Bernie Sanders non fa testo. La propaganda è il suo trionfo.
Le bugie sulla Russia – nelle cui elezioni gli Stati Uniti sono apertamente intervenuti – hanno reso i giornalisti più boriosi del mondo lo zimbello di tutti. Nel paese con la stampa più libera al mondo costituzionalmente, il giornalismo libero ora esiste soltanto nelle sue lodevoli eccezioni.
L’ossessione di Trump è una copertura per molti di coloro che si definiscono “liberali di sinistra”, quasi volessero rivendicare una decenza politica. Essi non sono “di sinistra”, e non sono neppure particolarmente “liberali”. Molte delle aggressioni degli Stati Uniti verso il resto dell’umanità sono arrivate dalle cosiddette amministrazioni democratiche liberali – come quella di Obama. Lo spettro politico americano si estende dal mitico centro ad una destra lunare. La “sinistra” sono i traditori senzatetto che Martha Gellhorn ha descritto come “una rara e totalmente lodevole confraternita”. Escludeva chi confonde la politica con la fissazione per il proprio ombelico.
Mentre “guariscono” e “vanno avanti”, gli attivisti di Writer Resist ed altri anti-Trumpisti rifletteranno su tutto questo? Più precisamente: quando sorgerà un vero e proprio movimento di opposizione? Arrabbiato, eloquente, tutti-per-uno-e-uno-per tutti. Fino a quando la vera politica non tornerà nella vita delle persone, il nemico non è Trump, siamo noi stessi.
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: Counterpunch
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2017 ZNET Italy – Licenza Creative Commons  CC BY NC-SA 3.0