venerdì 27 aprile 2012

Il Subcomandante Marcos e Luis Villoro si scrivono


Don Luis:
Salute e saluti.
Prima di tutto, auguri per il suo compleanno il 3 novembre. Speriamo che con queste lettere riceva anche l’abbraccio affettuoso che, anche se a distanza, le mandiamo.
Proseguiamo quindi in questo scambio di idee e riflessioni. Forse ora più solitari per la confusione mediatica che si solleva intorno alla definizione dei nomi dei tre bricconi che si disputeranno la guida sugli insanguinati suoli del Messico.
Con la stessa frenesia con cui spediscono le loro fatture per “spese di promozione immagine”, i mezzi di comunicazione si allineano alle diverse parti. Tutti concordano che le scempiaggini che esibiscono con impudicizia i rispettivi aspiranti, si possono coprire solo facendo più rumore sopra quelle dell’avversario.
Il periodo dell’ansia degli acquisti natalizi coincide con la vendita delle proposte elettorali. Chiaro, come la maggioranza degli articoli che si vendono in questo periodo dell’anno, senza garanzia alcuna e senza la possibilità di restituzione…

Saludos.
1. Continuemos este intercambio epistolar compartiendo visiones ante la devastación que sufre nuestro país
recurriendo a la reflexión que usted menciona sin pretender descubrir VERDADES.
Estamos de acuerdo en que nada se puede esperar de la partidocracia. Como dicen ustedes los
zapatistas, “todos los políticos son iguales” pues la izquierda institucional ha dejado de ser izquierda.
2. Coincido también en lo injustificable que es culpar a las víctimas, práctica común del gobierno, y saludo el
respeto que usted ha mostrado por el Movimiento por la Paz con Justicia y Dignidad que dirige Javier Sicilia,
en su última carta. Comparto el respeto con una recomendación adicional: continuar, sí, pero sin someterse
al juego del Estado…

giovedì 26 aprile 2012

"Children of the Rainbow" a Oslo




Mentre a Oslo prosegue il processo a carico di Anders Behring Breivik, migliaia di persone si sono riunite nel cuore della capitale norvegese per manifestargli il proprio disprezzo cantando la canzone che odia di più. Si tratta di Children of the rainbow (Bambini dell'arcobaleno), adattamento di un brano del cantautore americano Pete Seeger, che il fanatico di estrema destra aveva detto di detestare perché utilizzata come subdolo metodo d'indottrinamento marxista. Popolarissima in Norvegia, la canzone è opera del cantante folk locale Lillebjoern Nilsen. "Vivremo insieme, ognuna sorella e ognuno fratello, piccoli figli dell'arcobaleno e di una terra verde", recita il ritornello: un inno all'integrazione e all'eguaglianza. Il killer, 77 morti complessivi nelle due stragi del 22 luglio scorso, una settimana fa in aula disse ai giudici che si tratta di "un ottimo esempio d'infiltrazione marxista nella scena culturale" e di un "tipico caso del lavaggio del cervello imposto agli scolari norvegesi". Nilsen ha respinto con fermezza una tale interpretazione e, con l'aiuto di due volontari, ha lanciato su internet una campagna per promuovere la manifestazione, battezzata "Riappropriamocene", che si è tenuta in una piazza non lontana dal palazzo di Giustizia. Eventi simili sono stati allestiti anche in diverse altre località norvegesi.
da qui

tramonto della rivoluzione

... 25 aprile 2012, sono passati quasi quarant'anni da quei mesi gravidi di speranza e davvero poco sembrerebbe essere rimasto dello spirito che aveva animato quella Rivoluzione. Vasco Lourenço, uno dei capitani dell'Mfa e oggi presidente nazionale dell'Associação 25 de Abril, (A25A), che, come l'Anpi in Italia, difende i valori dell'antifascismo, decide un gesto eclatante: «Quest'anno non parteciperemo alle celebrazioni ufficiali». Perché? Perché l'A25A considera che quel contratto sociale stipulato tra militari e cittadini è stato cancellato dal governo, perché le politiche di austerità introdotte in quest'ultimo anno sono andate tutte nella direzione di riscrivere fin dalle fondamenta quei principi etici e morali sanciti nella costituzione.
La democrazia sostanziale ha lasciato il posto alla democrazia formale e le politiche di pieno impiego sono state sostituite dai dogmi monetaristi che ricordano molto da vicino quelli applicati da Pinochet all'indomani dell'11 di settembre del 1973. Dopotutto, Milton Friedman è uno dei principali punti di riferimento dell'attuale ministro delle Finanze Vitor Gaspar.
Ieri il 25 aprile è stata una giornata triste, fredda e piovosa. Il 15% di disoccupazione e una retribuzione media oraria di appena 12 euro (in Italia è di circa 26 euro) sono lì a testimoniare le difficoltà che hanno i valori del 25 aprile ad affermarsi. Chiudono gli ospedali, chiudono le fabbriche, cancellate tredicesime e quattordicesime, tutto senza che per il governo si profili il benché minimo problema di consenso, qualche punto nei sondaggi, forse, ma nulla di più: se oggi ci fossero le elezioni probabilmente l'attuale coalizione di centro destra, guidata da José Pedro Passos Coelho, le vincerebbe nuovamente.
Mario Soares, fondatore del partito Socialista, ex primo ministro ed ex presidente della Repubblica si accoda alle proteste dell'A25A e anche lui rinuncia a partecipare alle commemorazioni ufficiali. È tardi ci sentiremmo di dirgli, doveva pensarci un anno fa quando fece pressioni affinché il Portogallo dichiarasse bancarotta, ci avrebbe dovuto pensare alla fine degli anni settanta quando i governi da lui guidati cominciarono a mettere in discussione quelle che erano state le vittorie del 25 aprile. Per la gran parte dei portoghesi la rivoluzione dei Garofani è soltanto l'anniversario della fine di una dittatura non più fascista ma semplicemente e banalmente autoritaria, è una festa che non divide perché è stata svuotata di gran parte dei suoi contenuti, sbiadita come una vecchia fotografia nella quale non si riesce più a riconoscere i dettagli e il contesto nel quale era stata scattata rimane solo un vago e lontano ricordo.

Così finto che sembra vero - Alberto Tarquini

mercoledì 25 aprile 2012

Pietro Benedetti - 11 aprile 1944



Ai miei cari figli,
quando voi potrete forse leggere questo doloroso foglio, miei cari e amati figli, forse io non sarò più fra i vivi.
Questa mattina alle 7 mentre mi trovavo ancora a letto sentii chiamare il mio nome. Mi alzai subito. Una guardia aprì la porta della mia cella e mi disse di scendere che ero atteso sotto. Discesi, trovai un poliziotto che mi attendeva, mi prese su di una macchina e mi accompagnò al Tribunale di Guerra di Via Lucullo n. 16. Conoscevo già quella triste casa per aver avuto un altro processo il 29 febbraio scorso quando fui condannato a 15 anni di prigione. Ma questa condanna non soddisfece abbastanza il comando tedesco il quale mandò l'ordine di rifare il processo. Così il processo, se tale possiamo chiamarlo, ebbe luogo in dieci minuti e finì con la mia condanna alla fucilazione.
Il giorno stesso ho fatto la domanda di grazia, seppure con repulsione verso questo straniero oppressore. Tale suprema rinuncia alla mia fierezza offro in questo momento d'addio alla vostra povera mamma e a voi, miei cari disgraziati figli.
Amatevi l'un l'altro, miei cari, amate vostra madre e fate in modo che il vostro amore compensi la mia mancanza. Amate lo studio e il lavoro. Una vita onesta è il migliore ornamento di chi vive. Dell'amore per l'umanità fate una religione e siate sempre solleciti verso il bisogno e le sofferenze dei vostri simili. Amate la libertà e ricordate che questo bene deve essere pagato con continui sacrifici e qualche volta con la vita. Una vita in schiavitù è meglio non viverla. Amate la madrepatria, ma ricordate che la patria vera è il mondo e, ovunque vi sono vostri simili, quelli sono i vostri fratelli.
Siate umili e disdegnate l'orgoglio; questa fu la religione che seguii nella vita.
Forse, se tale è il mio destino, potrò sopravvivere a questa prova; ma se così non può essere io muoio nella certezza che la primavera che tanto io ho atteso brillerà presto anche per voi. E questa speranza mi dà la forza di affrontare serenamente la morte.

Mia cara Enrichetta,
ho voluto tacerti fino ad oggi la triste realtà nella speranza di ottenere una impossibile grazia. Purtroppo è la fine. Sono straziato di non poter rivedere i miei figli. Ora tu sei tutto per loro. Sii forte per loro. Tu sai che al mondo ho fatto solo il bene e perciò morirò tranquillo. Bacia per me i miei figli ed educali nell'amore e nel lavoro.
Addio, mia diletta e sfortunata compagna, bacia per me mio padre, i tuoi cari genitori, i cugini e gli zii. Salutami tutti gli amici e ringrazia coloro che hanno tentato purtroppo inutilmente di salvarmi.
Un ultimo abbraccio e un bacio per tutta la vita,
Tuo Pietro
da qui

Il negozio dei suicidi - Jean Teulé

dopo aver letto "Vita breve di un giovane gentiluomo" (un piccolo commento qui), questo negozietto dei suicidi è un libretto senz'arte né parte, fa sorridere ogni tanto, ma niente più.
non dite di non essere stati avvisati...- franz



un frullato di battute e trovate più o meno convincenti, una esagerazione che vuole essere spiritosa e che spesso risulta, invece, noiosetta proprio per la sua scontata banalità o strampalaggine. L’idea è buona ma non decolla. C'era proprio bisogno di tradurre il libro?

Jean Teulé, affermato romanziere (e autore televisivo e teatrale) transalpino, di estrazione fumettistica, in questa divertente e leggera opera affronta la tematica della morte partendo da un curioso punto di vista. Come in un caleidoscopio infatti Teulé ribalta completamente la prospettiva tetra del tema affrontato, creando un'innegabile effetto di ironico cinismo ad alto effetto comico. Forse una tale struttura narrativa man mano che si procede, alla lunga fa perdere al romanzo un po' di tono e di smalto. Il finale a sorpresa riabilita però il tutto, restituendo valore ad un libro non certo indimenticabile, ma che ha l'indubbia capacità d'intrattenere sorridendo...

Il titolo originale è Le Magasin Des Suicides ed è la nuova commedia di Patrice Leconte, francese classe 1947, da lui diretta e scritta insieme a Jean Teulé. Il film è una co-produzione tra Francia, Canada e Belgio. 
La storia è un adattamento dei lavori di Jean Teule e ha per protagonsita la famiglia Tuvache, il cui negozio vende articoli ed accessori che "garantiscono con successo un suicidio". Una storia che inizia con tutti i canoni pessimistici che il titolo riesce ad evocare, ma che garantisce un finale molto più lieto…

domenica 22 aprile 2012

Cento giorni - Bärfuss Lukas

è un libro che inquieta, coma la storia che racconta (Ruanda, in contemporanea con Sarajevo).
un piccolo svizzero si trova dentro una macchina che uccide, e con molta fortuna ne esce fuori, non senza aver visto e vissuto quasi tutto.
riesce a far star male quanto basta - franz




Ingenuo e idealista, Hohl stenta a comprendere una realtà radicalmente altra, un universo enigmatico, talvolta minaccioso e in ogni caso non valutabile in base ai parametri occidentali. Nel rapporto con l'affascinante Agathe, una donna dalla sensualità dirompente, intuisce forse di trovarsi di fronte a questo baratro di incomprensione. Ma non è sufficiente: nonostante tutte le avvisaglie, nei quattro anni che trascorre nel paese non si rende conto della tragedia che si sta preparando. E così scivola, quasi impercettibilmente, in un incubo: quando, nella primavera del 1994, ha inizio il massacro, cerca di tenere i contatti con la donna - che con gli anni ha maturato una sua coscienza politica e muore di colera in un campo profughi -, non parte con gli altri occidentali, per cento giorni rimane recluso nella sua abitazione e diventa così testimone e in qualche modo complice del genocidio che costò la vita a quasi un milione di persone.

«Negli anni seguenti ho cercato di tenere lontano dalla mia vita ogni turbamento e solo a volte, quando ascolto la tanta gente arguta e leggo i tanti libri intelligenti che da allora sono stati scritti su quel periodo, allora cerco il mio nome nell'indice analitico, e il nome del piccolo Paul, sotto Direzione della cooperazione allo sviluppo e dell'aiuto umanitario, e quando eccezionalmente li trovo, al massimo c'è scritto che eravamo lì e forse anche che abbiamo investito in quel paese più soldi di tutte le altre nazioni. La nostra fortuna è sempre stata che in ogni crimine in cui era coinvolto uno svizzero ci fosse sempre di mezzo qualche farabutto più grosso, che attirava su di sé l'attenzione e dietro il quale potevamo nasconderci. No, non appartenevamo a quelli che commettevano bagni di sangue. Erano altri a farlo. Noi ci sguazzavamo dentro. E sapevamo perfettamente come bisognava muoversi per restare a galla e non affondare in quella salsa rossa».

j'ai tout d'abord été très impressionnée par le style de l'écrivain, moins par la construction de la confession d'un « homme brisé » parfois trop imprécise et même peut-être un peu confuse, que par la puissance d'incarnation d'une écriture souvent très sensitive, comme tactile. Cette narration en « je » est introduite par un condisciple de lycée, témoin et relais, qui donne une description de David Hohl, anti-héros revenu de tout, description dont un détail peut illustrer la force symbolique de tout le texte : « quand quelque chose l'étonne, un filet de salive semble prêt à se détacher, bien que naturellement, cela n'arrive jamais. Simplement, cette lèvre est un peu humide, ce qui permet de voir, plus clairement que chez d'autres, ce que sont réellement les lèvres : l'intérieur de la bouche tourné vers l'extérieur. » Comme si les mots s'humectaient en tentant de donner à saisir l'intériorité d'un être, se chargeaient de l'eau des larmes qui ne coulent jamais, comme s'ils se chargeaient de la soif du personnage qui le poussera à des extrémités qu'il n'avait pas imaginées. Dans ce mouvement singulier du fleuve du temps, Lukas Bärfuss tente d'observer littérairement un moment tragique de l'histoire du Rwanda, de questionner notre histoire à tous, de mettre en lumière un aspect particulier de l'histoire suisse.
La perspicacité de l'écrivain traque l'incroyable malléabilité des sentiments et raisonnements de son héros, David Hohl, soumis à des désirs contradictoires, à des conclusions parfois simplistes, guidé par sa fascination amoureuse pour Agathe – une Rwandaise elle aussi ambiguë, mais dont le personnage est parfois brossé à trop grands traits – et habité par la rencontre de représentants très divers de l'aide humanitaire…

Cento giorni (Einaudi, trad. di Daniela Idra), racconta l’esperienza africana di un trentenne svizzero alle dipendenze della Direzione della cooperazione allo sviluppo della Confederazione elvetica: pieno di buone intenzioni e di inconfessati fantasmi, David Hohl attraversa titubante i mesi precedenti la guerra civile che portò in Rwanda, nel 1994, all’uccisione di centinaia di migliaia di Tutsi, un genocidio che raggiunse il suo acme durante quei cento giorni che danno il titolo al romanzo. Il modo in cui Bärfuss descrive l’atmosfera all’interno della cooperazione svizzera e come questa ha condotto le proprie operazioni durante gli anni del sinistro potere Hutu è un vero e proprio atto di accusa all’acquiescenza e all’inerzia (interessata) dell’istituzione. Alla cecità politica dei progetti di sviluppo cui pure partecipa con il dovuto zelo, Hohl aggiunge la sua irrequietezza da neofita incapace di ammettere i confini tacitamente concordati dai suoi colleghi tra la loro esistenza di lavoratori bianchi occidentali e quella dei rwandesi “assistiti”. La sua ambigua relazione erotica con una donna locale e la percezione dell’aumento di tensione dei conflitti etnici cui l’uomo attribuisce un senso oscuramente antropologico (il furore dionisiaco del mondo africano che ribolle sotto l’apparente tranquillità della vita quotidiana, pronto a erompere da un momento all’altro), non riescono a fornirgli soddisfacenti chiavi di accesso a quell’universo da cui il protagonista non saprà comunque sottrarsi, sprofondandoci dentro come il Kurtz di Conrad. Al momento di abbandonare il Rwanda insieme ai colleghi, Hohl non si farà trovare e trascorrerà, unico bianco, quei cento giorni in mezzo all’«orrore»: dove il volto atroce della barbarie, e l’abbassamento graduale del giovane europeo al suo stesso livello, saranno l’ultimo atto del suo infelice tentativo di “riconoscimento”…

diciotto anni in Italia

Sono circa un milione, i ragazzi nati in Italia da famiglie immigrate. A loro una legge del '92 garantisce il "beneficio" della cittadinanza con procedura accelerata: dal diciottesimo compleanno, per 12 mesi, questi "nuovi italiani" hanno diritto al passaporto semplicemente provando la loro residenza anagrafica qui fin dalla nascita: vanno bene certificati amministrativi, scolastici, medici, vaccinazioni. Poi un appuntamento all'anagrafe, una verifica che in genere dura appena qualche settimana e il giuramento sulla Costituzione...


...come dimostrano le quattro storie che abbiamo raccolto, la vita è spesso più semplice e saggia delle ideologie. Se si crede alla possibilità di migliorarla...
continua qui

sabato 21 aprile 2012

Philippe Poutou, candidato anticapitalista




Philippe Poutou è il candidato alla presidenziali dell’Npa, il Nuovo partito anticapitalista, che è succeduto alla Lcr. Ha preso il posto di Olivier Besancenot, il “postino” molto mediatico. Fino a ieri sera, Poutou era considerato dai media un illustre sconosciuto e i sondaggi non gli davano più dello 0,5% dei voti il 22 aprile. Ma in Francia da qualche giorno è applicata la norma che prevede, per le tv e le radio pubbliche, un eguale tempo di presenza sulle onde da parte di tutti i candidati, grandi e piccoli. Per Poutou, invitato su France 2 (principale rete pubblica) per la prima di due edizioni di Des paroles et des actes (5 candidati a sera, ieri sera e stasera), è stato un grande successo, al punto che il pubblico presente lo ha spontaneamente applaudito. ..
da qui

martedì 17 aprile 2012

Storia di sogni e di assassini - Malika Mokeddem

diviso in due parti distinte, la prima nell'Algeria violentata degli anni '80 e '90, la seconda in Francia, per  salvarsi e cercare.
un bel libro - franz 


Storia di sogni e di assassini si sofferma sulla storia di un’algerina che decide di emigrare. Malika Mokeddem non ha mai abbandonato completamente la professione di nefrologa, ma oggi la scrittura costituisce la sua attività principale…

lunedì 16 aprile 2012

Matt Wuerker, premio Pulitzer

La passeggiata improvvisa - Franz Kafka

Quando la sera sembra ci si sia definitivamente risolti a restare a casa, si è indossata la veste da camera, dopo cena si siede al tavolo illuminato e si è iniziato un qualche lavoro o gioco, concluso il quale d’abitudine si va a dormire, quando fuori c’è un tempo ostile che rende naturale il rimanere a casa, quando ormai si è rimasti fermi così a lungo accanto al tavolo che l’andarsene non potrebbe che suscitare la sorpresa generale, quando le scale sono già buie e il portone sbarrato, quando ora, nonostante tutto, ci si alza presi da un disagio improvviso, ci si cambia la giacca, si ricompare subito vestiti per uscire, si dichiara di dovere andare, e lo si fa senz’altro dopo essersi brevemente accomiatati, si pensa, giudicando dalla rapidità con cui la porta è stata sbattuta, di essersi lasciati alle spalle più o meno contrarietà, quando ci si ritrova in strada, con membra che rispondono con particolare mobilità alla libertà inattesa che si è loro procurata, quando per quest’unica decisione si sente raccolta in sé ogni capacità di decisione, quando con evidenza maggiore del solito si comprende che, più che il bisogno, si ha la forza di operare e sopportare facilmente il cambiamento più repentino, e quando si cammina così per le lunghe vie – allora, per quella sera, si è usciti del tutto dalla propria famiglia, che s’allontana nel nulla, mentre noi, saldissimi, neri per l’assoluta nettezza dei nostri contorni, battendo con le mani dietro le cosce, ci si innalza alla nostra vera figura.
Tutto si rafforza se, a quell’ora di notte, si va a trovare un amico, per vedere come sta.

Lucille - Ludovic Debeurme

racconto di due ragazzi, Lucille e Vladimir, due soli che s'incontrano. 
due ragazzi come tanti.
una storia da vedere e leggere - franz


Lucille ha 16 anni, detesta il proprio corpo e non ama piu’ la vita. L’anoressia di cui soffre la costringe prima a un ricovero in ospedale e poi a una lunga convalescenza in casa. Anche Arthur e’ un adolescente problematico. Suo padre si e’ appena tolto la vita, lasciandogli in eredita’ solo una strana usanza di famiglia: alla morte del padre, il figlio deve prendere il suo nome, ed e’ cosi’ che Arthur diventa Vladimir. Uniti dalla loro diversita’, i due ragazzi fanno presto amicizia e decidono di fuggire insieme, lontano dalle difficoltà familiari. Dal nord della Francia arriveranno in Italia, sulle colline della Toscana. Lanciati alla scoperta del mondo, Lucille e Vladimir affronteranno le proprie debolezze, cresceranno, scopriranno se stessi e vivranno la prima storia d’amore, alternando momenti di felicita’ e di dolore…

Lucille e Arthur, con molta diffidenza, si avvicinano e tentano di percorrere assieme la strada che da bruchi li trasformerà in farfalle (è lo stesso Debeurme che suggerisce questa metafora), abbandonando letteralmente i loro bozzoli - la casa materna di Lucille e quella paterna di Arthur che trasudano sofferenza e oppressione - e viaggiando in Francia e in Italia dove solo uno dei due riuscirà ad andare fino in fondo al suo percorso.

Debeurme parla di suicidio, sesso, male di vivere, violenza sulle donne, violenza sui minori e morte senza mai scadere nel pietismo e nella retorica, creando un'opera intensa ed emozionante che porta il lettore fino alle radici della sofferenza…

sabato 14 aprile 2012

L'uomo che piantava gli alberi - Jean Giono

una lettura istruttiva - francesco


inizia così:

Una quarantina circa di anni fa, stavo facendo una lunga camminata, tra cime assolutamente
sconosciute ai turisti,  in  quella  antica regione delle Alpi che penetra in Provenza.
Questa regione è delimitata a sud-est e a sud dal corso medio  della  Durance, tra Sisteron e
Mirabeau; a nord dal corso superiore della Drome, dalla sorgente sino a Die; a ovest dalle pia-
nure  del Comtat Venaissin  e i  contraffarti  del Monte Ventoux. Essa comprende tutta la parte settentrionale del dipartimento delle Basse Alpi, il sud della D d m e  e una piccola enclave della Valchiusa.
Si  trattava,  quando  intrapresi  la  mia lunga passeggiata in quel deserto, di lande nude e mo-
notone, tra i rnilledue e i milletrecento metri di altitudine. L'unica vegetazione  che vi cresceva era la lavanda selvatica.
Attraversavo  la regione  per la sua massima larghezza e, dopo tre giorni di marcia, mi trova-
vo in mezzo a una desolazione senza pari. Mi accampai di fianco allo scheletro di un villaggio
abbandonato.  Non  avevo più  acqua dal giorno prima e avevo necessità  di trovarne. Quell'agglomerato
di case, benché in rovina, simile a un vecchio alveare, mi fece pensare  che dovevano
esserci stati,  una  volta,  una fonte o  un  pozzo. C'era difatti una fonte, ma secca. Le cinque o sei case, senza tetto, corrose dal vento e dalla pioggia, e la piccola cappella col campanile crollato erano disposte come le case e le cappelle dei villaggi abitati, ma la vita era scomparsa.
Era una bella giornata di giugno, molto assolata ma, su quelle terre senza riparo e  alte nel
cielo, il vento soffiava con brutalità insopportabile. I suoi ruggiti nelle carcasse delle case erano quelli d'una belva molestata durante il pasto.
Dovetti riprendere la marcia. Cinque ore più tardi, non avevo ancora trovato acqua e nulla mi
dava speranza di trovarne. Dappertutto la stessa aridità,  le stesse erbacce legnose. Mi  parve  di scorgere in lontananza una piccola sagoma nera, in piedi. La presi per il tronco d'un albero solitario. A ogni modo mi avvicinai. Era un pastore. Una trentina di pecore sdraiate sulla terra cocente si riposavano accanto a lui…

L’assassino - Georges Simenon

Simenon mi sembra uno di quegli scrittori che ha scritto per tutta la vita lo stesso libro. 
Qui si capisce che è lui, era all'inizio, e già bravo, poi ha fatto di meglio - franz


…"L’Assassino" – del 1937, ma ancora inedito in Italia fino ad oggi – a dire il vero non è uno dei lavori migliori, ma ci mostra la qualità innata di Simenon di entrare nella mente dei personaggi ai quali dà vita, una capacità unica che da solo basta a inserirlo nel novero dei grandi narratori del novecento.
Ogni scelta fatta dai protagonisti delle sue opere, dal più comune dei grog preso al bancone di un bar al più efferato degli omicidi, non smuove il lettore, non lo scuote, perché l’abilità suprema di questo scrittore sta nel accompagnare il lettore nel reticolo di pensieri che si aggrovigliano, come in questo caso, nella mente di Hans Kuperus: seguiamo il filo del suo ragionamento, comprendiamo le ragioni che muovono i suoi gesti, e alla fine ogni decisione presa ci appare di una limpida logica.
Sebbene non brilli rispetto a tanti capolavori, L’Assassino è un esempio splendido di questo tipo di narrazione. Un’esistenza insapore, una vita fatta di azione eseguite quasi cronometro alla mano, un ingranaggio che si rompe per un’inezia. Tuttavia Simenon non dimentica mai i luoghi dove si muovono i suoi personaggi, restituendo alla storia tutta l’atmosfera dei bar, delle case, delle strade che la abitano…
 Abuso del proprio talento? Eccessiva fretta? Comunque sia L’assassinodi Simenon (Adelphi) delude. L’atmosfera, troppo densa e buia, finisce col promettere assai più di quanto diano i fatti esposti dalla narrazione. Più fumo che arrosto, insomma…

L’assassino, di Georges Simenon, di certo non deluderà gli appassionati di questo prolifico scrittore belga, le cui opere vengono pubblicate da Adelphi sin dal 1985. Si tratta di un romanzo breve, dallo stile accattivante e leggero, da bersi proprio come un drink, tutto d’un fiato in una calda sera d’estate. Come per magia – magia della letteratura, s’intende – dopo le prime venti pagine il lettore tenderà a staccarsi dalle vicende che coinvolgono Hans Kuperus, il protagonista, per entrare nella sua testa, nei meccanismi insoliti e stranianti che l’omicidio scatena in un uomo che diventa assassino per sbaglio, non certo per vocazione; meccanismi in cui riecheggiano reminescenze letterarie classiche, perché tra le pagine di Simenon spunta sempre – evocato più o meno consapevolmente – il fantasma del Dostoevskij, che per primo, in Delitto e castigo, indagò il tormento e la follia in cui viene trascinato un animo colpevole incapace di reggere il peso di tale colpevolezza…

venerdì 13 aprile 2012

dalla Patagonia - Francisca Rojas

Aysén è una delle ultime regioni del Sudamerica. È Patagonia, Patagonia cilena. Silenziosa quanto pacifica ma dove i suoi abitanti non si arrendono facilmente davanti agli ostacoli, il primo di questi è il rigido clima che tempra la vita quotidiana durante tutto l’anno. Essi pensavano di doversi battere soprattutto per la preservazione del territorio contro la indiscriminata costruzione di nuove centrali idroelettriche che stanno massacrando non solo il paesaggio del Sud, ma che minano anche una risorsa mondiale di ossigeno rinnovabile in cambio di profitti per un paio di multinazionali di energia (fra cui l’italiana Enel).
Invece un mese e mezzo fa ha avuto inizio un altro scontro diretto fra i cittadini e i rappresentanti del governo Piñera. Governo, che fedele alla sua linea, ha fatto orecchie da mercante alle richieste di equità nel trattamento nella gestione regionale delle risorse, ai richiami sulla forte tassazione sui beni di prima necessità, la mancanza di un’università nel territorio, sussidi alle abitazioni e ai trasporti, modifiche sulla legge di pesca e contro il rincaro sulla benzina. Perché la gestione del territorio cileno, molto lungo, stretto e di variegati climi, non supera le politiche di parzializzazione e centralizzazione dell’investimento pubblico sullo sviluppo. Si pensi solo all’inesistenza di una rete ferroviaria che potrebbe unire Nord e Sud. Forse fa comodo non rispondere alle questioni poste dalle regioni soprattutto nell’estremo Sud così come nell’estremo Nord, regioni che però producono introiti che sono preziosi all’ora dei conti nazionali: rame e litio al Nord, pesca e prodotti forestali e agricoli nelle zone meridionali, di esportazione e importazione.
È un fatto invece che i pescatori, i primi a sollecitare l’attenzione e un dialogo concreto con il Governo, facciano molta fatica a sopravvivere e a districare le reti del mestiere quotidianamente, dovendo rispettare l’attuale legge di pesca. Ma la rivolta patagona vede coinvolti i comuni cittadini di una comunità che ha dimostrato di essere molto unita, non solo a causa del numero ridotto di residenti, ma anche per una tradizione di condivisione e solidarietà nel privato come nelle imprese comuni...

mercoledì 11 aprile 2012

Lo specchio di Sarajevo – Adriano Sofri

ti chiedi dov'eri, non sentivi, non leggevi, cosa facevi...- franz


PS:  in un articolo nel libro, intitolato: "Complici dei serbi, nove volte maledetti" (L’Espresso, 28 luglio 1995), a un certo punto Sofri dice, a proposito di chi non vuole prendere posizione, né intervenire, ma parlare, aspettare...
"...Intimerei ai sostenitori di queste posizioni di estenderle al tema della criminalità comune e organizzata: si dicano contrari, nel caso di una vile aggressione stradale contro un inerme, non solo a intervenire in sua difesa, ma anche a telefonare al 113. Si dicano contrari, nel caso di Capaci e via D’Amelio, a ogni impiego della forza. Si dicano favorevoli al negoziato. Al più alto livello, con Totò Riina…"
come se oggi, per assurdo, qualcuno dicesse che Obama si incontra con quelli del Ku Klux Klan, per discutere sulle armi o sui neri da sacrificare,  e poi si scoprisse che è tutto vero - franz

L’edizione originale del libro è del 1997 ma, dopo essere sparito dalla circolazione per troppo tempo, Sellerio decide di ristamparlo nel 2010 rendendolo così nuovamente alla lettura di chiunque lo voglia.
Raccoglie un serie di articoli scritti tra il 1993 ed il 1995 da Adriano Sofri come corrispondente da Sarajevo per L’Unità, il Manifesto e Cuore, durante i terribili anni dell’assedio alla città trasformata da grande capitale europea ad enorme galera.
Gli articoli si riempiono soprattutto della gente di Sarajevo, quei sarajevesi di cui è difficile non innamorarsi quando li si conosce ed incontra.
Per secoli luogo di incredibile tolleranza e multiculturalità, dove Islam, Ebraismo e Cristianesimo cattolico ed ortodosso hanno convissuto, dove imperi secolari come quello ottomano e quello austriaco si sono incontrati lasciando meravigliosi ricordi culturali ed architettonici Sarajevo è pur tuttavia ricordata per fatti di sangue. L’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando per mano del nazionalista serbo Gravrilo Princip, scintilla che farà deflagrare il primo conflitto mondiale, e per i lugubri anni dell’assedio sotto i bombardamenti dei cetnici serbo-bosniaci dei criminali di guerra Karadzic e Mladic.
Di questi anni si Sofri ci racconta le difficoltà di vivere in una città in cui incroci stradali, mercati, i cortili dove giocano i bambini, le code alle fontane per l’acqua diventano i luoghi preferiti da cecchini e granatieri per esercitare la loro mira.
Ci dipinge i visi sofferenti della gente, della loro dignità.
Ci spinge a riflettere sulle responsabilità enormi che la comunità internazionale ebbe in quella vicenda come in tutta la guerra nei Balcani…
da qui

Morire sul ponte



qui il testo di Adamo


...Gabriele Moreno Locatelli, volontario italiano ucciso il 3 ottobre 1993 dai colpi di un cecchino. Aveva appena 34 anni, faceva parte dell’Organizzazione “Beati i costruttori di pace" ed avrebbe dovuto distribuire posta, aiutare i militari dell' Onu a consegnare viveri e abiti, portare acqua e assistenza alle persone sole, anziane e ammalate. Questo era Gabriele, ex frate minore francescano, morto a Sarajevo nel tentativo di unire non di dividere, alla ricerca dialogo.
Con altri quattro pacifisti stava attraversando lentamente con una bandiera della pace tra le mani il ponte Vrbanja sul torrente Miljacka, che divide la città, per un'azione simbolica ma di forte impatto, anche mediatico, rivolta alle due parti in conflitto. Sullo stesso ponte che separa i serbi dai musulmani,  qualche mese prima avevano trovato la morte due fidanzati, Bosko e Admira,lui serbo,lei musulmana. Cercavano di fuggire dagli orrori della guerra;trovarono la morte, ammazzati mentre tentavano di abbandonare Sarajevo...


martedì 10 aprile 2012

Una volta l'Argentina - Andrés Neuman

si legge bene, una cavalcata di un secolo in Argentina, avanti e indietro, con gli occhi di un bambino. 
una saga familiare con personaggi davvero argentini, niente realismo magico, ma la realtà e la fantasia si incrociano a più riprese - franz



Una volta l’Argentina è un libro ambizioso, un libro che attraversa il percorso narrativo caratteristico del romanzo e raggiunge l’universalità della scrittura con un’impressionante numero di sfaccettature che vanno dall’intensità della lirica poetica al giallo con ammirevole coerenza e senza una benché minima lacerazione.

La vita che circola in queste pagine è sempre perlustrata dal suo lato oscuro e alla perenne ricerca di risposte: bagliori che effettivamente sanno accendersi dentro un buio che appare realmente fisico, concreto…

…le storie che Neuman racconta non è detto che siano sempre vere, la memoria può ingannare, l’immaginazione può prenderti la mano: tutto questo non è importante, ce lo ricorda egli stesso. Ci racconta degli zii Silvia e Peter, librai, che da un giorno all’altro vengono prelevati e portati via dai militari i quali non si accontentano di far sparire i libri (compreso Il Rosso e il Nero, visto il pericoloso colore iniziale da comunisti! - Videla ci teneva a informare gli argentini che terroristi erano tutti quelli che diffondevano idee “lontane dalla tradizione occidentale e cristiana”.) Di come i libri li scopra contro le insistenze dei propri genitori, due borghesi colti che non mancano di custodire fra i propri scaffali Edgar Allan Poe e Julio Cortazar, con grande stupore del giovane Andrés, costretto a rivedere il giudizio che, come ogni pischello che si rispetti, aveva frettolosamente formulato sulla loro personalità…

Neuman busca la novela total: el peronismo, Alfonsín, el problema judío, las desapariciones políticas... El repertorio resulta excesivo. ¿Puede escribirse una saga alterando constantemente el devenir histórico, con saltos atrás y con una tan exagerada pléyade de personajes? En la novela casi todo es posible, si resulta bien. No cabe poner en duda que nos hallamos ante un narrador de fuste, pero, en este caso, de exagerada ambición.

Ferida Osmanovic


In this July 14, 1995, photo, refugee Ferida Osmanovic from Srebrenica is found hanged in a forest outside the UN base at Tuzla airport. The woman, who looked to be in her early 20s, had hanged herself with a torn blanket. More than 10,000 refugees from the UN safe haven of Srebrenica, captured by the Bosian Serbs, arrived in Tuzla. Bosnia Serb commander General Ratko Mladic announced that approximately 40,000 residents had been cleared from their homes in Srebrenica. (Darko Bandic/Associated Press)
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... La sfortunata giovane si chiamava Ferida Osmanovic, madre di due figli e moglie di un fabbro. La sua vita era stata fino ad allora quella di tante altre donne bosniache, nel piccolo villaggio di Jezero, nelle vallate della Drina. All' eta' di sedici anni aveva sposato un ragazzo del paese, Selman, e presto aveva avuto due figli: Damir, che oggi ha 13 anni, e Fatima, 10 anni. Ma poi arrivo' la guerra. Le milizie serbe attuarono nella Bosnia orientale una delle peggiori pulizie etniche della Repubblica: centinaia di migliaia di musulmani furono scacciati dai loro villaggi e costretti a rifugiarsi nelle enclave di Goradze, Zepa e Srebrenica. Ed e' qui che finirono Selman e Ferida. Lo scorso luglio le truppe serbo bosniache attaccarono e occuparono Srebrenica. Selman e Ferida, come tutti gli abitanti, si trovarono di fronte a una scelta drammatica. "Discussi tutta la notte con Selman . ha raccontato Kadrija, cognato di Ferida .. Sostenevo che bisognava lasciare donne e bambini ai caschi blu e aprirsi la strada combattendo verso Tuzla. Ma Selman non volle abbandonare Ferida e i piccoli". Kadrija marcio' per sette giorni, sopravvivendo a tre battaglie contro i serbi prima di raggiungere Tuzla. Ma Selman non fu cosi' fortunato. Secondo il racconto dei due bambini, la famiglia raggiunse a piedi la base dei caschi blu olandesi di Potocari. Ma c' erano soldati serbi dappertutto: "Improvvisamente presero mio padre e lo portarono via . ricorda Fatima .. Mia madre scoppio' a piangere, finche' non ci misero su un autobus e ci mandarono via. Non sappiamo cosa successe a nostro padre". Probabilmente, fini' vittima delle escuzioni di massa per le quali il Tribunale internazionale dell' Aja ha emesso ieri un mandato di cattura internazionale contro i leader serbo bosniaci Karadzic e Mladic. Dopo essere stata separata dal marito, Ferida con i due figli fu spedita alla base Onu di Tuzla. "La mamma non smetteva mai di piangere . ricorda Fatima .. Non conoscevamo nessuno e quando ci diedero del cibo lei non riusci' a mangiare". Al calar della notte, i tre cercarono di mettersi a dormire per terra. Fu allora che Ferida sguscio' via, raggiunse un albero e si impicco' con la sua sciarpa. "Ci preoccupammo solo la mattina dopo, quando ci svegliammo e lei non c' era", ricorda Damir. I due bambini vagarono per ore in lacrime, finche' non trovarono la nonna, Habiba. Soltanto dopo settimane scoprirono cosa era successo a Ferida, grazie a una foto che fu fatta circolare fra i rifugiati. La giovane era stata sepolta dietro l' ospedale di Tuzla, dove tuttora riposa, sotto un cippo con la scritta "Sconosciuta".
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Gualtiero Bertelli



lunedì 9 aprile 2012

Attenti al cane! - Stig Dagerman

"Certo è deplorevole
che gente che vive di sussidi si tenga poi un cane"
ha dichiarato un responsabile
della Previdenza Sociale
del Varmland



La legge ha i suoi difetti
I poveri han diritto di tenere un cane
Potrebbero tenere dei topi invece:
van bene anche loro e sono esentasse

Se ne stanno in anguste stanzette
coi loro costosi bastardi.
Perché non giocano con le mosche?
Non sono animali da compagnia?

E al Comune tocca pagare.
Bisogna farla finita 
o c'è da temere
che si comprino delle balene

Una decisione va presa:
abbattere i cani! Non è una buona idea?
Il prossimo provvedimento. abbattere i poveri
Così il Comune risparmierà qualcosa.

musica in biblioteca



...Nel 1992, Smailović ha suonato sul suo violoncello l'Adagio in sol minore di Remo Giazotto (attribuito a Tommaso Albinoni) in diverse ore del giorno per 22 giorni, per onorare la memoria di 22 civili uccisi mentre facevano la fila per il pane...
da qui



L'Adagio in sol minore (Mi 26), noto anche come Adagio di Albinoni, è una celeberrima composizione musicale "neo-barocca" scritta nel 1945 e pubblicata nel 1958 da Remo Giazotto. L'autore dichiarò di essersi limitato a "ricostruire" l'Adagio sulla base di una serie di frammenti di Tomaso Albinoni che sarebbero stati ritrovati tra le macerie della biblioteca di Stato di Dresda – l'unica biblioteca a possedere partiture autografe albinoniane – in seguito al bombardamento della città avvenuto durante la seconda guerra mondiale. I frammenti sarebbero stati parte di un movimento lento di sonata (o di concerto) in sol minore per archi e organo.
In verità, a partire dal 1998, anno della morte di Remo Giazotto, l'Adagio è emerso essere una composizione interamente originale di quest'ultimo, giacché nessun frammento o registrazione è stato mai trovato in possesso della Biblioteca Nazionale Sassone....

venerdì 6 aprile 2012

chiamala, se vuoi, libertà di stampa

A scrivere la biografia non autorizzata di Nick 'O Americano, a lungo il politico più potente del napoletano e del casertano, sono stati nove giornalisti: Massimiliano Amato, Luisa Maradei, Ciro Pellegrino, Arnaldo Capezzuto, Corrado Castiglione, Peppe Papa, Antonio Di Costanzo, Enzo Senatore e Giuseppe Crimaldi. Domani sapranno se il loro libro, Il Casalese-Ascesa e tramonto di un leader politico di Terra di Lavoro, sarà sequestrato e distrutto, o meno. La decisione spetta al tribunale di Napoli, la prima udienza con procedura d'urgenza ex articolo 700 del codice di procedura civile è stata fissata su richiesta di Giovanni Cosentino, amministratore unico dell'Aversana Petroli e della Ip Service, e fratello del parlamentare Nicola, ex sottosegretario all'Economia oltre che ex coordinatore regionale del Pdl.
All'editore CentoAutori e a quattro dei nove autori del libro-inchiesta che racconta la storia del fratello di Cosentino e le vicende economiche della famiglia, è stata avanzata una richiesta di risarcimento danni di un milione e 200mila euro. Di cui un milione per danni morali e patrimoniali, il resto a titolo di riparazione pecuniaria. Nel frattempo gli avvocati di Giovanni Cosentino stanno informando dell'esistenza della causa gli organizzatori delle presentazioni del libro. Senza impedirle, le comunicazioni suonano come una sorta di diffida a organizzarne altre…

…Sono stato in casa editrice qualche giorno fa. Ho degli amici che  lavorano in Mondadori, dice che lì c’è un delizioso parco con animali assortiti. Cento Autori è a Villaricca, popoloso comune al confine fra il Napoletano e l’entroterra Casertano. L’editore non fa (solo) l’editore: ha una farmacia. Sapendo come curare i mali del corpo voleva giustamente imparare a curare  quelli dello spirito: ha provato a farlo coi libri. Non è un editore ricco né potente, eppure si è imbarcato in quest’avventura con entusiasmo, sapeva che sarebbero potuti esserci problemi. Che, puntualmente, si sono verificati.
C’è una linea di confine tra la legittima richiesta di rettifica o anche di risarcimento e l’aggressione legale. Un milione e 200mila euro più la distruzione del libro è una richiesta che fa pendere forte la bilancia sulla seconda opzione. Qualcuno ha sconfinato e non siamo stati noi autori di questo libro, realizzato coi crismi dell’inchiesta giornalistica, consultando atti, articoli scritti nel corso di questi anni, fonti politiche, giudiziarie, economiche…

"PER IZET" - Erri De Luca

parole bellissime - franz


Guardo le date delle tue poesie. Sono geloso del millenovecento che tu hai esplorato con vent'anni di vantaggio su di me. Apparteniamo entrambi all'intero secolo, anche alla parte in cui non eravamo nati. Sono geloso del tempo che tu hai amato di più.
Bisogna abitare in una città fluviale per trovarsi in poesia a una confluenza di acque correnti. In te scorrono russi, tedeschi, spagnoli, francesi e qualche italiano, tu li contieni. La Mliacka di sarajevo non è il Guadalquivir né la Neva, però il suo piccolo letto regge l'onda di piena e di raccolto dello scroscio di versi di un secolo, un torrente passato nel tuo cranio di "mentsch", persona del genere umano.
Ho bevuto con te e così, per la misteriosa proprietà transitiva dei poeti e dei bicchieri, io mi sono trovato seduto a tavole remote, dove mai mi sarei azzardato a chiedere permesso. Dietro un nostro bicchiere ho potuto stare con Bohumil Hrabal nella birreria di Praga, al suo tavolo che non ospitava scrittori né lettori, ma solo bevitori amici. Ho potuto sapere come lui portava il vetro all'altezza dei denti e come ci appoggiava sopra il silenzio. Ho tirato tardi con Nazim Hikmet, Alfonso Gatto, Esenin, all'ombra dei nostri bicchieri e ora so con che dita si stropicciano gli occhi. Ho ascoltato la parola comunismo senza inflessioni di invettiva o inno, senza versione ufficiale, come uno pronuncia la parola pioggia, sandalo, balcone.
La storia del nostro millenovecento si è tanto preoccupata di infilarsi nelle case, staccare genitori da figli, mogli da mariti, stabilire diete di scarsità nelle cucine spente, distribuendo addii come biglietti da visita. Questa invadente storia maggiore nei tuoi versi è ridotta a margine slabbrato della pagina. Conta di più la storia minore di avere amato una donna, di avere tremato meno per gli scoppi delle granate e molto di più per la febbre di una figlia, per la tosse notturna di un nipotino. È potente per te, molto più che per me, l'esclusiva della vita personale, prepotente il diritto alla felicità, scippata al volo, gustata pure prima di noi non ha avuto nessuno". Dici giusto: anche se siamo gli ultimi di una serie innumerevole, con poco e niente margine di novità, ecco che nella felicità possiamo essere primizia assoluta, sicuri che nessuno può essere stato così felice prima di noi. È antica, ovvia, ripetuta, l'ingiustizia, la guerra, rime stantie delle generazioni, ma la felicità, quella è strepitosamente nuova, vergine per il poeta e per ognuno di noi che è poeta quando sa riconoscerla in tempo, mentre succede, mentre in cucina una pentola bolle. Poeta è chi trova la felicità nella stanza accanto e mai dice dopo: quelli erano bei tempi. Mai la felicità è retroattiva, o riconosciuta all'istante o perduta.
Ma quando è insopportabile la pena, allora servi tu, poeta, tu e non un romanziere che la tira in lungo, tu con dei versi da imprimere a memoria quando si è alle strette e viene tolta la biblioteca e la luce del giorno. Là servi tu che puoi rispondere di tutto. Ricordi Izet la fila davanti alla prigione di Leningrad, era il cinquantasette e Anna Achmatova da un anno si incolonnava insieme ai parenti dei prigionieri nella fila delle visite, al freddo. E qualcuno la riconosce, è lei la famosa poeta, perché in Russia i poeti erano famosi. E una donna che sta in fila dietro di lei, che non l'ha mai sentita nominare, le domanda a bassa voce: "A eto vi mojete opisat'?", e questo voi lo potete descrivere?, e lei risponde con altrettanto soffio: "Mogù", posso. E finisce il racconto scrivendo: "Allora qualcosa di simile a un sorriso scivolò su quello che era stato un volto". Ecco, mio Izet, dentro ogni tuo verso di guerra subita, di lutto, c'è la risposta alla domanda di uno come me che sta in qualche fila all'addiaccio delle molte prigioni e chiede: "Questo voi potete descriverlo?" e tu con la carta piena del segreto dell'aria, rispondi: "Mogù", posso.


Ho visto la tua patria, Izet, città al buio, le file per l'acqua, ho visto la guerra tornare in Europa e lasciarla illesa e uguale. La Bosnia degli anni novanta era migliaia di miglia più lontana del Vietnam del sessantasette. Sono gli anni a fare la geografia, non le distanze. Oggi si può prendere un aereo per Sarajevo, Belgrado, io ho amato le tue città quando non si poteva prendere un caffè. Amo il tuo suolo, amo: un verbo che è stato la tua sola bandiera e ha sventolato sul bavero della tua giacca per una vita intera. Da te imparo di nuovo a dire: amo. A cinquant'anni bisogna pronunciarlo spesso, in quante più lingue possibile, lavandosi i denti al mattino, sciacquandoli bene e poi asciugandoli con l'aria di quel verbo all'indicativo presente. Tutte le tue poesie vengono da questa igiene del verbo amare, da questa soglia delle labbra. Bentornato in italiano, benvenuto col tuo verbo a grattare la ruggine della nostra pentola e a farla profumare, noi t'invitiamo ma tuo è il fuoco e la pietanza, tuo il vino che dà profondità ai nostri occhi, un grano d'infrarosso per vedere al buio.


da qui

Izet Sarajlić – Un poeta

La fortuna alla maniera di Sarajevo
A Sarajevo
in questa primavera 1992,
tutto è possibile;
fai la coda per comprare il pane
e ti ritrovi al Servizio di traumatologia
con una gamba amputata.
E dopo asserisci
d’aver avuto anche fortuna.
1992


Un’altra volta saprei
Troppo poco ho goduto gli scrosci primaverili e i tramonti del sole
Troppo poco mi sono dilettato della bellezza delle vecchie canzoni e
delle passeggiate al chiaro di luna
Troppo poco mi sono inebriato del vino dell’amicizia
anche se al mondo quasi non c’è paese dove non avevo almeno due amici.
Troppo poco tempo ho dedicato al mio amore
io che all’amore avevo consacrato tutto il mio tempo.
Un’altra volta saprei incomparabilmente di più godere la vita.
Un’altra volta saprei.
1987 
da qui (ci sono tante altre sue poesie)