Abstract. Il saggio ricostruisce l’utilizzo da parte di Gramsci del tema del
“merito” nel suo discorso sulla scuola e l’educazione. Negli scritti pre-carcerari
la critica ai privilegi delle classi più abbienti viene svolta sulla base di
una rivendicazione dei meriti dei tanti soggetti di famiglie proletarie
impossibilitati a coltivarli e farli valere. Nei Quaderni dal carcere tale
posizione viene inserita nel quadro di uno Stato Nuovo, in cui la classe
dirigente viene selezionata su un corpo sociale interamente messo in grado di
partecipare cognitivamente all’autogoverno del lavoro. Vengono anche segnalati
significativi parallelismi con i concetti bourdesiani di habitus e
riproduzione.
* * * *
1. Premessa: il problema del merito oggi
e nella storia del pensiero politico
La scuola come fondamentale leva per sollevare i ceti popolari oltre la
subalternità è un tema già più volte trattato in passato dalla letteratura su
Gramsci1. Qui però si vuole affrontare la questione da una specifica angolatura: il
leader comunista come considerava il problema del «merito» e come lo inseriva
nella sua più generale visione dell’eguaglianza (o perlomeno in ciò che di essa
traspare dietro il suo marxismo per lo più non normativo)? Per quanto riguarda
la meritocrazia, mi limito a ricordare come questa sia diventata negli ultimi
anni una parola chiave per comprendere l’egemonia neoliberale2. Thomas Piketty, in Capital et ideologie,
ha sottolineato come tale lemma sia sempre più utilizzato perché nei sistemi
politico-sociali che dichiarano formalmente l’uguaglianza dei diritti, si va
aprendo in modo crescente una grande diseguaglianza sostanziale, con la
conseguente necessità di doverla giustificare3. Nancy Fraser, in un saggio dal titolo esplicitamente gramsciano, Il vecchio muore e il nuovo non può nascere,
sostiene che il liberalismo ha sostituito il concetto di giustizia sociale con
quello di meritocrazia4.
In realtà – come è noto – il termine «meritocrazia» è coniato in senso
negativo da Michael Young nel 1958, in The Rise of Meritocracy5. L’immaginario distopico del suo romanzo sociologico, in cui si racconta
come, attraverso test di intelligenza, venga divisa la società fra una classe
dirigente e i lavoratori manuali, era ispirato alle conseguenze dell’education act del
1944, varato dal governo conservatore ma su spinta anche laburista, che
prevedeva un test, a undici anni, per classificare ogni soggetto attraverso i
tre tipi di scuola possibili, di cui la Grammar School era
quella gerarchicamente sopraelevata. L’obiettivo polemico di Young – che
auspicava una scuola «unica» – era anche una certa filiera elitaria fabiana6. Il termine continuò a risuonare in Europa di un significato
prevalentemente negativo: si pensi al ‘68 in cui gli studenti criticavano –
seguendo Bourdieu – anche la scuola come agenzia di riproduzione sociale e gli
operai le retribuzioni premiali che rompevano i contratti e spingevano
all’obbedienza verso i padroni. Negli Stati Uniti la ricezione del
termine meritocrazia, invece, fu volta da subito anche in senso
positivo, funzionando all’interno di modelli teorici antiegualitari: in
particolare con Daniel Bell, in un importante saggio antirawlsiano del 19727. È solo col nuovo millennio che in Europa il termine viene rideclinato
prevalentemente in positivo, da un lato con l’affermarsi del thatcherismo ma,
dall’altro, soprattutto, con Tony Blair, che rilanciava il progressismo
selezionista criticato da Young. La rivendicazione del merito individuale si
accompagnava alla critica dei privilegi aristocratici ed era stata, del resto,
una componente saliente dell’ideologia della Rivoluzione francese. Era normale,
dunque, che la sinistra europea, rimuovendo la questione di classe per assumere
connotati liberal-progressisti, potesse tornare a quei fondamentali, favorendo
la sussunzione delle spinte libertarie nell’atomismo prestazionale ed
efficientistico del produttivismo aziendalista post-fordista8.
E tuttavia già Louis Blanc aveva criticato i sansimoniani proprio perché
essi immaginavano una società in cui il merito disegnasse le nuove gerarchie
sociali, indicando la necessità di considerare anche il bisogno come
criterio per allocare le risorse. Da ciascuno secondo le sue capacità e a
ciascuno secondo i suoi bisogni – la celebre frase di Marx nella Critica del programma di Gotha9 – è infatti mutuata da Blanc10. In quell’opera del 1875, Marx contesta a Lassalle che, se in una fase di
transizione può essere comprensibile dare a ognuno secondo il lavoro prodotto,
nel comunismo realizzato anche questa soggezione al valore di scambio sarebbe
stata superata: la vera uguaglianza stava nel tener conto delle differenze di
condizione fra i soggetti. In tal senso è stato notato più volte l’errore di
Galvano della Volpe che attribuiva a Marx una visione meritocratica che avrebbe
inverato – dando a essa un’adeguata base materiale – l’idea roussoviana di una
diseguaglianza artificiale modellata su quella naturale11. Anche nelle opere precedenti, Marx articola una critica del merito come
giustificazione della diseguaglianza: a Stirner ad esempio, nell’Ideologia tedesca,
contesta l’idea innatistica delle doti che prescinde dalla considerazione del
contesto sociale, finendo per legittimare persino il razzismo. In Marx,
peraltro, il talento non viene negato: anzi la società volta a esaltare l’uomo
onnilaterale è anche quella che favorisce il dispiegarsi delle differenze
individuali, sebbene queste non debbano costituire fonte di privilegio e di
asimmetria di potere. Tali temi sembrano di una certa attualità dato che in Italia
alcune recenti pubblicazioni sostengono che il disagio sociale non sia frutto
della differenza di classe ma dell’incapacità della scuola di azzerare le
asimmetrie di partenza12. Può dunque essere utile capire come Gramsci articolasse il suo discorso
sulle diseguaglianze e sulla scuola alla luce della questione del merito,
tenendo sempre presente che a suo avviso, come per Marx, la scuola era da porre
in connessione con i processi produttivi e i rapporti di classe e, come per
Foucault, la pedagogia e l’egemonia passavano attraverso plurime agenzie
disseminate nel sociale13 e che dunque ogni discorso sulla scuola doveva essere collegato alla
visione più generale della società. Vedremo però che Gramsci, a differenza di
Marx, conserva fino alla fine una componente elitistica, sebbene essa nei Quaderni appaia
piuttosto sfumata rispetto agli scritti giovanili; e che in questi ultimi,
tuttavia, egli àncora il suo discorso selezionista e capacitario a una serrata
critica della diseguaglianza dei punti di partenza nella società capitalistica.
2. Gli scritti giovanili: un Gramsci
«meritocratico» contro la borghesia
2.1 Un elitismo anti-borghese
Nel settembre del 1916, sull’«Avanti», in un articolo intitolato La scuola all’officina,
Gramsci criticava un’iniziativa del Ministro Ruffini volta a impegnare gli
studenti nelle fabbriche per esigenze di guerra. La scuola e il lavoro non
potevano essere sovrapposti senza che si perdesse la serietà dell’uno e
dell’altro. La scuola doveva essere di chi ha le attitudini e non «degli
intrusi» e «futuri spostati»: non doveva essere un «privilegio di chi può
spendere»14. Qui va rilevata da un lato la critica democratica alle dispersioni di
talenti provocata dalla ristrettezza della base sociale della scuola superiore
e, dall’altro, l’idea che essa debba essere frequentata solo da chi abbia le
attitudini, all’insegna di un’idea della scuola come attività seria e
impegnativa. Si trattava, però, non certo di una polemica aristocratica –
sebbene commista di umori salveminiani e legati alla tradizione
liberale-moderata: si veda l’accenno agli «spostati» – bensì di una critica
della borghesia parassitaria. Il Gramsci di questa fase vedeva il movimento
operaio come fucina selettiva di nuove gerarchie capacitarie, in una visione di
rigenerazione coltivata anche dal soreliano Croce e che appariva parimenti
tributaria di tutto un versante liberale «produttivista», votato alla
promozione di un’umanità «utile». Allo stesso tempo emergeva già una
prefigurazione della necessità di unire lavoro intellettuale e manuale –
posizione che verrà da lui consolidata anche per influenza leniniana – e il
fatto che l’uno non debba essere considerato superiore all’altro, come era
invece per Croce e Gentile, che rispecchiavano i valori diffusi del ceto
dirigente.
A quest’altezza cronologica Gramsci condivide con i liberali la polemica
antiprotezionistica, legata al meridionalismo e a una venatura modernizzante e
antifeudale tipica degli intellettuali italiani progressisti dell’epoca15. Il mese precedente commentava con approvazione16, dettata anche dalle componenti anti-nazionalistiche connesse
all’antiprotezionismo, un articolo di Einaudi sulla “Riforma sociale”, in cui
l’economista fra le altre cose sottolineava come la «fortuna dei migliori» non
potesse dipendere dai favori del governo bensì dalla loro «intelligenza,
abilità, perizia, tecnica, audacia commerciale o speculativa»17. Un paio di anni dopo avrebbe sostenuto come, in un contesto pluralistico,
il movimento operaio si sarebbe giocato la partita dell’egemonia con la chiesa
nell’agone della concorrenza, in una scuola tendenzialmente emancipata dallo
stato18. E già nell’articolo di cui discutevamo sopra, sostenendo che il Ministro
Ruffini avesse ripreso l’idea della scuola-lavoro dall’Inghilterra, rilevava
come in quel paese la contaminazione avrebbe fatto meno danno, non essendo la
scuola finanziata dallo stato e non vigendo il valore legale del titolo di
studio: «gli impieghi e le cariche si danno solo a chi veramente sa e non a chi
è stato per un certo tempo nei ruoli dei provveditori»19.
Una posizione, quindi, ancora una volta intrisa della polemica salveminiana
contro l’impieganomania20, pervasa da venature liberiste21 e contro il proliferare di scuole tecniche e classiche22. In un articolo di qualche mese prima Gramsci si accaniva contro le
«borghesie latine arretrate e misoneiste» (con implicito apprezzamento di
quelle atlantiche) che, non rendendosi conto che anziché di «amministrare» e
«distribuire» c’era necessità di produrre, avevano convertito le scuole
tecniche in fucine di impiegati, a discapito della formazione professionale al
lavoro. Bisognava tagliare le università – scriveva Gramsci con ferocia
liberista – «bubboni purulenti» improduttivi e riequilibrare la spesa fra
l’insegnamento medio e quello professionale, riabilitando anche a livello di
dignità il lavoro manuale rispetto a quello intellettuale:
Concorrenza leale di capacità, gara a un maggiore sfruttamento delle forze
naturali, dei prodotti dell’ingegno, perché tutto ciò che serve a
intensificare, a migliorare la produzione interessa da vicino il socialismo e
il proletariato […] siano dati a tutti i mezzi necessari alla propria
elevazione interiore, alla messa in valore delle proprie qualità buone23.
È insomma un Gramsci chiaramente influenzato – lo ripetiamo dalla cultura
liberista e produttivista, incarnata da Pareto ed Einaudi e dal darwinismo
positivistico, persino venato di posizioni alla Ferrero sulla decadenza delle
razze latine. Tuttavia il giovane socialista orientava queste polemiche in
senso democratico-classistico, denunciando che i figli della borghesia non
sempre meritavano il percorso di studio che gli era
assicurato. Nel Natale seguente, sempre sull’«Avanti», Gramsci interviene con
forza contro la natura di classe della scuola italiana, nell’articolo Uomini o macchine?:
La scuola in Italia è rimasta un organismo schiettamente borghese, nel
peggior senso della parola. La scuola media e superiore, che è di Stato, e cioè
è pagata con le entrate generali, e quindi anche con le tasse dirette pagate
dal proletariato, non può essere frequentata che dai giovani figli della
borghesia, che godono dell’indipendenza economica necessaria per la tranquillità
degli studi. Un proletario anche se intelligente, anche se in possesso di tutti
i numeri necessari per diventare un uomo di cultura, è costretto a sciupare le
sue qualità in attività diversa, o a diventare un refrattario, un autodidatta,
cioè (fatte le dovute eccezioni) un mezzo uomo, un uomo che non può dare tutto
ciò che avrebbe potuto, se si fosse completato e irrobustito nella disciplina
della scuola24.
La conclusione era che scuola e cultura costituivano un «privilegio»:
E non vogliamo che tale essa sia. Tutti i giovani dovrebbero essere uguali
dinanzi alla coltura. Lo Stato non deve pagare coi denari di tutti la scuola
anche per i mediocri e deficienti, figli dei benestanti, mentre ne esclude gli
intelligenti e capaci, figlioli dei proletari. La scuola media e superiore deve
essere fatta solo per quelli che sanno dimostrare di esserne degni. Se è
interesse generale che essa esista, e sia magari sorretta e regolata dallo
Stato, è anche interesse generale che a essa, possano accedere tutti gli
intelligenti, qualunque sia la loro potenzialità economica. Il sacrifizio della
collettività è giustificato solo quando esso va a beneficio di chi se lo
merita. Il sacrifizio della collettività, perciò, deve servire specialmente a
dare ai valenti quella indipendenza economica, che è necessaria per poter
tranquillamente dedicare il proprio tempo allo studio e poter studiare
seriamente25.
Il tema del «merito» è dunque da subito presente nelle riflessioni
gramsciane. Gramsci stesso era stato fra i pochi che solo dopo grandi sacrifici
e ritardi era riuscito ad approdare al liceo e, grazie a una borsa di studio, a
un’università che non portò a termine proprio per motivi economici. La
questione era quindi da lui sentita non solo interiormente ma nel fisico
stesso, logorato da periodi di studio e lavoro massacranti, da astinenze dai
pasti e dal freddo torinese da cui non riusciva a difendersi non potendo
acquistare gli indumenti pesanti necessari. Da questo punto di vista è di un
certo rilievo un suo tema scolastico, scritto in quinta elementare, nel 1903,
in cui – venato del self-helpismo diffuso all’epoca nei libri di scuola –
immagina di scrivere una lettera a un amico che non vuole continuare a studiare
pur avendone la possibilità, ricordandogli il valore emancipativo dello studio26. È utile anche la lettura di un tema del liceo, del 1910, su oppressi e oppressori,
in cui scriveva:
La Rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti
oppressi; ma non ha fatto che sostituire una classe a un’altra nel dominio […]
Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze
sociali, essendo prodotto della società e non della natura, possono essere
sorpassate27.
Il tema radical-democratico della lotta al privilegio è dunque declinato in
un contesto di classe – come si diceva prima – con la prospettiva di una
ulteriore denaturalizzazione delle differenze sociali.
Ma tornando a Uomini o macchine?,
vediamo che in esso inizia a emergere anche un’altra questione che poi verrà
ripresa nei Quaderni, e cioè quella dell’«uomo intero», tema di
matrice rinascimentale, ma che va rinviata anche all’unilateralità dell’uomo
marxiano: un tipo di umanità, cioè, negata all’operaio. Il proletariato è
escluso dalle «scuole di coltura medie e superiori», mentre le scuole tecniche,
fucine di impiegati piccolo-borghesi, sono di difficile accesso per le tasse
troppo care. Restavano le scuole professionali, caratterizzate però da un
orizzonte culturale troppo ristretto. Agli operai gioverebbe invece poter
frequentare una scuola disinteressata, per poter diventare soggetti
in grado di esercitare la loro libertà: «anche i figli dei proletari devono
avere innanzi a sé tutte le possibilità, tutti i campi liberi per poter
realizzare la loro individualità nel modo migliore e perciò nel modo più
produttivo per loro e per la collettività»28.
Gramsci tende qui a guardare oltre l’orizzonte antagonista, in un’ottica di
generale elevamento della società borghese stessa, rivendicando non solo la
necessità del proletariato di lottare come classe ma anche di rivendicare
diritti «universali». Per il nostro discorso qui dobbiamo fermare almeno tre
punti. La scuola professionale è vista come deviata dalla sua destinazione
popolare e quindi democratica, verso una domanda piccolo-borghese surrogatoria
del liceo-classico e foriera di impiegati in eccesso, in accordo con la visione
dello stesso Salvemini. Ci sono inoltre risonanze di Gentile che parimenti
rivendicava la necessità di coniugare l’educazione professionale con un uno
sguardo generale ai fondamenti umanistici29. In seguito, riguardo a questo, Gramsci, influenzato anche da Lenin e
dalla Krupskaja30, sarebbe giunto alla conclusione che la precoce differenziazione professionale
della scuola sortisse esiti antidemocratici. Ma già in questo articolo egli
svela (questo è il secondo punto) dietro l’educazione professionale un
dispositivo di assoggettamento per le classi popolari, in quanto private
dell’ampiezza della cultura disinteressata a vantaggio di un sapere asservito
al lavoro, mentre all’epoca anche molti socialisti tendevano a proporre le
scuole professionali come tipiche del proletariato31: si pensi che anche in uno dei temi di liceo di recente riscoperti,
Gramsci appare pervaso dall’antiutilitarismo delle avanguardie liberty, teso a
rivendicare il diritto a una bellezza della «vita comune» che evitasse
l’imbarbarimento del popolo32. In questo senso va vista anche la sua polemica contro le università
popolari, che non si proponevano di «contribuire all’elevamento spirituale
della moltitudine attraverso l’insegnamento», ma comportavano uno studio
«passivo», incapace di far rivivere attivamente negli studenti i vari saperi33. Gramsci si schiera fra i difensori del latino, spesso i più conservatori
nel dibattito nazionale, proprio enfatizzando i benefici effetti dello studio
delle lingue classiche sulla formazione del carattere e della capacità dei
soggetti di articolare il pensiero storico34. Tali tematiche torneranno con forza negli anni del carcere – pur
nell’idea che ormai anche altre discipline più affiatate con la contemporaneità
potessero assolvere questo compito –, dopo essere state da lui messe
provvisoriamente in soffitta negli anni influenzati dal proletkult e
condizionati dallo sforzo di pensare una paideia che implementasse la nuova
società industriale e le sue esigenze35. Se, infatti, in Uomini o macchine? Gramsci
affermava che al proletariato era «necessaria una scuola disinteressata»,
nell’aprile del 1925 sull’«Ordine nuovo» sosteneva che «né uno studio oggettivo
né una cultura disinteressata possono aver luogo nelle nostre file»36. Insomma, sembrerebbe una palinodia, sia pure transitoria, sebbene vada
tenuto presente che qui il leader comunista si riferiva alla «scuola di
partito» e in un momento storico in cui il movimento operaio stava per essere
definitivamente soffocato dal tallone di ferro della dittatura. Nella seconda
introduzione alle dispense della scuola per corrispondenza, lo sforzo è quello
di opporre al tipo umano dei “rampolli” della borghesia forgiato dalla scuola
di classe, un’autonoma e diversa esperienza educativa. Interessante che già qui
Gramsci parli di “sistema Taylor dell’educazione”, volto a recepire gli stimoli
bolscevichi ma tenendo ben stretta, sorelianamente e antiburocraticamente,
l’esperienza intellettuale a quella delle masse, benché nella prospettiva di
una selezione dei quadri frutto di una solida organizzazione37.
Terzo punto: Gramsci scrive che la collettività si assoggetta volentieri
per far scaturire dal suo seno gli «uomini migliori» volti –
evoluzionisticamente – a portare avanti tutta la società. Gli stessi soviet
sarebbero stati la soluzione alla crisi del parlamentarismo liberale incapace
ormai di selezionare i più «valenti»38. Nel 1920 ad esempio criticava le tendenze «follaiole» e «popolaresche»
degli anarchici, contrapponendovi l’«energica azione organizzativa dei migliori
e più consapevoli elementi della classe operaia». «I socialisti – continuava si
sforzano in tutti i modi di preparare, attraverso questi elementi
d’avanguardia, le più larghe masse a conquistarsi la libertà e il potere capace
di garantire questa libertà stessa»39. La «democrazia», cioè, doveva puntare a farsi «aristocrazia»40 in cui «la libertà di ogni individuo coincide con il suo elevarsi
alla consapevolezza e all’autonomia»41. Questo vitalismo «critico», di marca anche vociana, proiettava sul piano
della classe e del conflitto collettivo l’individualismo e la competizione
liberistica del mercato, che nel celebre saggio in cui contrapponeva il calcio
allo scopone42, viene considerata uno stadio più evoluto di convivenza in quanto regolata
da sentimenti di fiducia reciproca in una legge comune. Anche su ciò maturava
l’intesa con Gobetti: la stessa tradizione del self-help,
storicamente votata a giustificare meritocraticamente il successo di pochi
provenienti dal basso e a neutralizzare il conflitto sociale, era diventata,
per Gramsci, un paradigma da rideclinare in chiave collettiva come strumento di
emancipazione dai privilegi consolidati di una società ancora feudale e
protezionistica43. In Unione Sovietica – scriveva Gramsci sempre nello stesso periodo:
Il problema era di suscitare una gerarchia, ma che fosse aperta, che non potesse
cristallizzarsi in un ordine di casta e di classe. Dalla massa, dal numero si
doveva arrivare all’uno, in modo che esistesse una unità sociale, che
l’autorità fosse solo autorità spirituale44.
E ancora, negli stessi mesi, Gramsci tornava a parlare del mercato come
dispositivo virtuosamente selettivo delle capacità, con l’obiettivo di spiegare
l’arretratezza culturale e politica del paese, ancora in ritardo dal punto di
vista del capitalismo: ma ciò per denunciare proprio il «culto della
competenza» (allora portato avanti dai nazionalisti) e cioè l’idea di poter
formare governi con eccellenze imprenditoriali esperte nei vari settori. Tale
visione – spiegava Gramsci – non teneva conto sia del fatto che gli
imprenditori avrebbero sempre anteposto l’interesse privato a quello pubblico,
sia che, in tal modo, non si riconosceva la libera concorrenza nell’agone
politico, rispondendo a un’allergia tecnocratica per i partiti45. Come ha scritto Luca Michelini, a proposito della differenza con le
posizioni meritocratiche di Prezzolini che rivendicava medesimi punti di
partenza per differenti punti di arrivo, per Gramsci anche i punti di partenza
risultavano ineguali per via del rapporto squilibrato fra capitale e lavoro, e,
come abbiamo visto, per lui il problema non erano i ritardi determinati dal
soffocamento del mercato da parte della politica ma quelli legati allo
squilibrio dei rapporti sociali46. Insomma, viene mantenuta una lettura elitista e liberista della società,
sebbene innestandola su un architrave democratico e un’analisi di classe: la
selezione deve avvenire coinvolgendo tutta la base sociale: non per «premiare»
i migliori, ma affinché questi si pongano a guida e a servizio degli altri
soggetti. Negli anni dei Quaderni questa visione sarebbe stata
assorbita in una prospettiva più collettivista, frutto del bagno leniniano a
cavallo degli anni Venti e delle riflessioni sul fordismo e la transizione ad
uno Stato nuovo.
2.2. Verso lo Stato nuovo
Va qui subito registrata una somiglianza fra talune indicazioni gramsciane
e quelle di Pierre Bourdieu, nonostante la differenza dei loro impianti
categoriali. Sul confronto fra i due studiosi si sono già scritte pagine
interessanti47, ma senza molto focalizzare la tematica della scuola come agenzia di
riproduzione sociale. In un articolo sull’«Avanti» del 1919 (La scuola è un’istituzione seria?)48 Gramsci ribadisce infatti con forza che la scuola è un’istituzione
seria, denunciando lo spirito dei giovani studenti contestatori imbevuti di
futurismo, che chiedevano agli operai di unirsi a loro nella lotta contro la
scuola vecchia e noiosa, colpevole di non mettere in cattedra bei giovani e
ballerine ma uomini afflitti dai problemi della comune umanità. Come già
Bourdieu nei Delfini alla vigilia del ’68, che sottolineava
come i figli dei ceti meno abbienti investissero molte speranze sull’istruzione
superiore senza peraltro avere, come gli studenti di estrazione borghese, un
retroterra che sopperisse alle loro mancanze49, così Gramsci ricorda come la scuola fosse pagata dalla collettività e non
dovesse perciò recare vantaggi soltanto a chi replica i privilegi della propria
origine. «La serietà dell’insegnamento», scrive, «vorrebbe fosse ristorata la
disciplina degli studi perché l’istituto della scuola renda qualcosa alla
società e non sia completamente sprecato il denaro, faticosamente sudato dai
lavoratori». La denuncia è quindi rivolta contro una bohème studentesca spesso
composta di soggetti di estrazione borghese che non «meritano» di usufruire del
servizio pubblico: un servizio finanziato soprattutto dal lavoro sfruttato dei
proletari, ma organizzato poi a vantaggio quasi esclusivamente dei ceti
possidenti50. I socialisti avrebbero quindi dovuto difendere i docenti dalla pressione
delle famiglie, promuovendo la serietà dell’insegnamento e la disciplina degli
studi contro lo sterile avanguardismo di studenti mossi dal desiderio di épater le bourgeois.
Si pensi del resto alla rivolta contro le scuole di Giovanni Papini51.
Gramsci era del resto consapevole della necessità che le masse popolari si
formassero culturalmente anche in modo autonomo: di qui il suo attivismo
nell’organizzazione di momenti formativi collaterali al partito, nel periodo
dell’occupazione delle fabbriche e poi nell’esperienza del confino. In Prima liberi («Avanti»,
1918), del resto, considerava tali sforzi indirizzati a sfuggire al «dispotismo
degli intellettuali di carriera e delle competenze per diritto divino»52. Sono anni, questi, in cui l’autonomia del proletariato sembrava produrre
un esodo dallo stato borghese che ormai assorbiva (e in qualche misura, come si
è già detto, sublimava, proiettandola sulla collettività) ogni reminiscenza
liberale-radicale dal discorso gramsciano: ora attento all’esempio di Gorki e
dei proletari russi53. Ancora nel 1919 Gramsci si esprime sulla fase ascendente del movimento
operaio, con un misto di elitismo e bergsonismo, come di un gigantesco setaccio
delle migliori energie capaci di «dominare il mondo»54. Ma l’influsso della Rivoluzione russa, Lenin, l’occupazione delle
fabbriche, lo spingono presto – lo si diceva anche prima – a stemperare
progressivamente gli aspetti elitistici della sua formazione, valorizzando
sempre più la dimensione collettiva e la visione marxiana dell’uomo
onnilaterale rispetto alle preoccupazioni selettive. In un articolo
sull’«Ordine nuovo» del gennaio del 1920, scriveva: «Non vi è nessun motivo per
cui un lavoratore debba essere incapace di giungere a gustare un canto di
Leopardi più di una chitarrata, supponiamo, di Felice Cavallotti o di un altro
poeta «popolare», una sinfonia di Beethoven più di una canzone di Piedigrotta»55.
E nel luglio successivo, sempre sull’«Ordine nuovo»:
E così i nostri gruppi, troppo diversi da una associazione politica,
avranno in sé una capacità più modesta ma nuova, quella di essere, in un
momento in cui ogni legame disinteressato sembra sciogliersi e svanire, piccoli
centri intorno ai quali si radunino dei giovani, della gente che ancora sappia
che cosa è il disinteresse, che ancora dia valore a ciò che non dà nessun
premio, né uno stipendio né una posizione56.
La componente selettiva dell’eredità liberista veniva perciò sfumata in una
visione di crescita collettiva che pur nel respiro produttivistico stemperava
le componenti utilitaristico-individualistiche. L’impostazione meritocratica
rimaneva tuttavia in campo, sebbene saldamente innestata nella visione della
lotta di classe. Criticando i socialisti inclini ad accettare per gli operai
una scuola meramente di tipo professionale, Gramsci sosteneva, infatti, il 10
aprile del 1922 sull’«Ordine nuovo»:
Come nell’officina l’operaio subisce continuamente esami che lo portano
innanzi o lo respingono indietro se perde le sue capacità, così i comunisti
tendono ad applicare questo concetto a tutte le forme di vita sia manuale che
intellettuale.
3. I Quaderni: oltre la meritocrazia
3.1 La scuola unica
All’inizio del Quaderno 857, tornando sul suo piano di lavoro, Gramsci inserisce anche La scuola e
l’educazione nazionale e La scuola unica e cosa essa significhi per tutta
l’organizzazione della cultura nazionale. E poi Intellettuali Quistioni
scolastiche. È ovvio quindi che il leader comunista sostenga fortemente l’idea
della scuola unica, oggetto di dibattito in Italia a partire dalla proposta
della commissione Boselli nel 190558, prima di essere spazzata via dalla riforma di Gentile, che da sempre,
all’unisono con Lombardo Radice (e Salvemini), l’aveva avversata. Il modello
cui Gramsci guardava era del resto anche quello sovietico. Tant’è vero che
richiamava alcune note di Lenin sulla scuola unica (che in realtà sono della
Krupskaja59) all’interno di un ragionamento in cui mostrava come talune istanze di
eguaglianza, libertà e fraternità, ancora all’epoca della Rivoluzione francese
da considerare utopistiche, in quanto soggette alle contraddizioni
storico-sociali, diventassero politiche nella società che, superando tali
contraddizioni, si avviava verso il regno della libertà60. Lo stesso Rodolfo Mondolfo dava atto a Lenin di andare nella giusta
direzione pensando che ogni operaio dovesse respirare l’aria della cultura
disinteressata61. Una scuola unica, quindi, che non dividesse i soggetti per capacità
determinate dall’estrazione sociale, riproducendo la loro originaria
classificazione. La scuola unica, cioè, cui pensava lo stesso Michael Young,
scrivendo The Rise of Meritocracy,
con l’occhio fisso sia agli Stati Uniti di allora sia, appunto, all’Unione
Sovietica e che sarebbe stata di lì a poco realizzata in Inghilterra con la
riforma del 1964 parallela a quella italiana, che si fermava però alle scuole
medie inferiori. Prima avevamo parlato di un’analogia fra Gramsci e Bourdieu:
ma Bourdieu non elabora le sue critiche alla scuola di classe pensando a un
contesto in cui si era ormai affermata la scuola unica? E del resto anche
Gaetano Salvemini sosteneva che, se gli studenti fossero stati tutti inseriti
in una scuola unica, immediatamente si sarebbero riprodotte le differenze di
classe62. Ma la soluzione del molfettano – a differenza di quella di Bourdieu – era
quella, appunto, di percorsi differenziati che potessero meglio indirizzare i
figli delle classi popolari verso obiettivi professionali63. Invece per Gramsci la scuola unica era vista non tanto come varco verso
la democratizzazione della società stessa, bensì come parte integrante della
società frutto del processo stesso di democratizzazione. Cioè una società in
cui la maggior parte dei soggetti non sarebbero andati a scuola in condizioni
di pesante subalternità. Nel Quaderno 12, rielaborando le riflessioni del
Quaderno 4, Gramsci scriveva:
Oggi la tendenza è di abolire ogni tipo di scuola “disinteressata” (non
immediatamente interessata) e “formativa” o di lasciarne solo un esemplare
ridotto per una piccola élite di signori e di donne che non devono pensare a
prepararsi un avvenire professionale e di diffondere sempre più le scuole
professionali specializzate in cui il destino dell’allievo e la sua futura
attività sono predeterminate. La crisi avrà una soluzione che razionalmente
dovrebbe seguire questa linea: scuola unica iniziale di cultura generale,
umanistica, formativa, che contemperi giustamente lo sviluppo delle capacità di
lavorare manualmente (tecnicamente, industrialmente) e lo sviluppo delle
capacità del lavoro intellettuale. Da questo tipo di scuola unica, attraverso
esperienze ripetute di orientamento professionale, si passerà ad una delle
scuole specializzate o al lavoro produttivo64.
Ma Gramsci approfondiva ulteriormente questo programma. Egli immaginava,
infatti, una scuola unica con un liceo di due anni e non di tre e con un
obbligo scolastico variabile a seconda delle esigenze produttive. Tuttavia,
l’efficacia doveva essere quella del liceo classico coevo, dato che il percorso
sarebbe stato più intenso.
Pensava, cioè, a una vita di collegio che avrebbe implicato ingenti
investimenti pubblici in termini di edifici, servizi e reclutamento, data la
necessità di abbassare la proporzione fra alunni e docenti. Tutto ciò avrebbe
trasformato «il bilancio del dicastero dell’educazione nazionale da cima a
fondo, estendendolo in modo inaudito e complicandolo». «Perciò – continuava –
inizialmente il nuovo tipo di scuola dovrà e non potrà non essere proprio di
gruppi ristretti, di giovani scelti per concorso o indicati sotto la loro
responsabilità da istituzioni idonee»65. Nella prima stesura del Quaderno 4 la dizione era
«istituzioni private idonee»66: secondo Mario Alighiero Manacorda l’aggettivo «private» era un prestito
hegeliano e il modello quello sovietico, con «collegi inizialmente elitari […]
e con la “raccomandazione sociale” dei giovani alle università da parte delle organizzazioni
giovanili, sindacali, politiche»67. Anche in questa pagina gramsciana emerge l’idea di una società che, una
volta approdata al regno della libertà, continui comunque a funzionare come
macchina di selezione delle capacità a fini produttivi, in qualche modo
discostandosi dall’utopia marxiana di un mondo sgravato dagli imperativi della
necessità e votato all’onnilateralità. E tuttavia qui Gramsci dice:
«inizialmente»: egli pensa cioè a una fase di transizione, un po’ come Marx che
nella Critica del programma di Gotha parla
di «inconvenienti» di passaggio che implicano il mantenimento del valore di
scambio68: ci sarà un momento, cioè, in cui per Gramsci la formazione adeguata potrà
essere estesa oltre i «gruppi ristretti»: anzi è interessante che nella prima
versione del Quaderno 4 si parli di «élite», termine poi
sostituito, forse proprio per evitare la risonanza troppo aristocratica69. In un primo momento, dunque, l’evoluzione democratica si sarebbe
realizzata nel fatto che i «gruppi ristretti» sarebbero stati selezionati su
tutta la base sociale, al netto (va immaginato) dell’eredità dei privilegi
passati, mentre progressivamente l’istruzione di qualità sarebbe diventata
patrimonio di tutti. La fase di transizione, del resto, avrebbe potenziato un
trend già in atto nelle società più sviluppate (rispetto cui Gramsci vedeva
l’Italia in ritardo), ma risolvendone le criticità tipiche di una società
capitalistica: egli osservava, infatti, come in essa la formazione di massa,
tesa a «creare la più larga base possibile per la selezione e l’elaborazione
delle più alte qualifiche intellettuali», aumentava anche il tasso di
disoccupazione70.
La scuola elementare della società futura sarebbe stata «dogmatica», volta
a inoculare il nuovo conformismo ma con l’obiettivo di far sviluppare
gradualmente – superando la visione magica del mondo, il folklore e le sue
venature localistiche e individualistiche71 – la coscienza critica e l’autonomia del pensiero: un conformismo,
insomma, quasi ossimoricamente, a una visione critica della vita. Le accademie
avrebbero dovuto essere ripensate come luoghi di formazione permanente per i
soggetti che dopo il liceo non passano all’Università ma direttamente alla vita
lavorativa, dopo adeguato orientamento professionale svolto a scuola. Gramsci
immagina una rete di accademie controllate dal centro che, legando questo alle
periferie, costruisse
un meccanismo per selezionare e fare avanzare le capacità individuali della
massa popolare, che oggi sono sacrificate e si smarriscono in errori e
tentativi senza uscita. Ogni circolo locale dovrebbe avere necessariamente la
sezione di scienze morali e politiche e mano a mano organizzerà le altre
sezioni speciali per discutere gli aspetti tecnici dei problemi industriali,
agrari, di organizzazione e razionalizzazione del lavoro, di fabbrica,
agricolo, burocratico ecc. Congressi periodici di diverso grado faranno
conoscere i più capaci72.
È interessante che nella riscrittura del 193273 Gramsci parli di «centralizzazione» e non di «gerarchia» – come era
nella prima versione74 – fra centro e periferia. Inoltre, come
si diceva prima, la posizione di Gramsci non può più dirsi propriamente meritocratica,
in quanto la selezione capacitaria è pensata all’interno di una società che ha
superato le contraddizioni di classe e che dunque non collega più la
valorizzazione di una capacità a un privilegio75. Come osservò Angelo Broccoli, la critica di Gramsci alla scuola
gentiliana non può essere collocata nell’ambito di un «riformismo educativo»,
andando oltre la rivendicazione (appunto, «meritocratica») delle «pari
opportunità»76. Si trattava, tuttavia, di una visione che, pur anti-economicistica nel
rifiuto dell’identificazione fra formazione e lavoro, riteneva che dopo la fase
dello studio disinteressato dovesse comunque subentrare un momento di scelta
professionale guidato dalla società e dalle sue esigenze produttive, in una
visione tributaria della sua formazione neo-idealistica e
industrialistico-capacitaria, ma che aveva anche saldi ancoraggi nella cultura socialista
pregressa, pensiamo ad esempio allo stesso Rodolfo Mondolfo77. Una chiara egida neo-idealista (un neo-idealismo, però, non da vedere
come specchio di una cultura feudale, bensì, all’opposto, come pensiero
moderno-troppo-moderno) lo possiamo rilevare nella pagina in cui Gramsci –
risuonando di alcuni accenti di Bertrando Spaventa e Gentile – parla del lavoro
come nucleo del principio educativo immanente alla scuola elementare, in cui
l’ordine sociale e statale è «introdotto e identificato nell’ordine naturale» e
in tal modo viene diradato il velo magico della cultura tradizionale dagli
occhi dei bambini. Anche nel tema del Gramsci studente Oppressi e oppressori,
se da un lato invocava leopardianamente (e anticolonialisticamente e
antimperialisticamente) una lotta contro la natura anziché fra gli uomini78; dall’altro sottolineava come ciò fosse «per renderla sempre più utile ai
bisogni degli uomini» stessi. In una lettera a Giulia del marzo del 1936,
parlava della «formazione di una generazione che sappia costruire la sua vita e
la vita collettiva in modo sobrio, con il massimo di economia negli sforzi e il
massimo di rendimento»79. E tuttavia, come si diceva prima, identificare quasi «ontologicamente» la
scuola elementare con l’assorbimento della filosofia della prassi nel lavoro,
non significava schiacciare l’istruzione sul lavoro stesso e la produzione, pur
tenendo forte il nesso con tale dimensione, né dimenticare che la differenza di
ruoli lavorativi non doveva comportare un divario di «cittadinanza»:
Nella scuola attuale, per la crisi profonda della tradizione culturale e
della concezione della vita e dell’uomo, si verifica un processo di progressiva
degenerazione: le scuole di tipo professionale, cioè preoccupate di soddisfare
interessi pratici immediati, prendono il sopravvento sulla scuola formativa,
immediatamente disinteressata. L’aspetto più paradossale è che questo nuovo
tipo di scuola appare e viene predicata come democratica, mentre invece essa
non solo è destinata a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle
in forme cinesi. La scuola tradizionale è stata oligarchica perché destinata
alla nuova generazione dei gruppi dirigenti, destinata a sua volta a diventare
dirigente: ma non era oligarchica per il modo del suo insegnamento. Non è
l’acquisto di capacità direttive, non è la tendenza a formare uomini superiori
che dà l’impronta sociale a un tipo di scuola. L’impronta sociale è data dal
fatto che ogni gruppo sociale ha un proprio tipo di scuola, destinato a perpetuare
in questi strati una determinata funzione tradizionale, direttiva o strumentale80.
Per spezzare questa trama occorreva dunque «non moltiplicare e graduare i
tipi di scuola professionale», ma creare una scuola unica «elementare-media»
che preparasse in modo eguale i soggetti alla scelta professionale. Essi
dovevano, infatti, nel frattempo, essere formati come persone capaci di
pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige. E concludeva:
Il moltiplicarsi di tipi di scuola professionale tende, dunque, a eternare
le differenze tradizionali, ma siccome, in queste differenze, tende a suscitare
stratificazioni interne, ecco che fa nascere l’impressione di una sua tendenza
democratica. Manovale e operaio qualificato, per esempio; contadino e geometra
o piccolo agronomo ecc. Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può
solo significare che un operaio manovale diventa qualificato, ma che ogni
“cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone, sia pure
“astrattamente”, nelle condizioni generali di poterlo diventare; la democrazia
politica tende a far coincidere governanti e governati (nel senso del governo
col consenso dei governati), assicurando a ogni governato l’apprendimento
gratuito della capacità e della preparazione tecnica generale necessarie al
fine. Ma il tipo di scuola che si sviluppa come scuola per il popolo non tende
neanche più a mantenere l’illusione, poiché essa si organizza sempre più in
modo da restringere la base del ceto governante tecnicamente preparato, in un
ambiente sociale politico che restringe ancor più l’“iniziativa privata” nel
senso di dare questa capacità e preparazione tecnico-politica, in modo che si
ritorna in realtà alle divisioni di “ordini” giuridicamente fissati e
cristallizzati più che al superamento delle divisioni in gruppi: il
moltiplicarsi delle scuole professionali sempre più specializzate fin
dall’inizio della carriera degli studi è una delle manifestazioni più vistose
di questa tendenza81.
Qui Gramsci, oltre a denunciare gli effetti della riforma Gentile,
sollevava dubbi anche su alcuni sviluppi della scuola sovietica: in alcune
lettere alla cognata e alla moglie del dicembre del 1931, in cui ipotizzava che
il «metodo di laboratorio a squadre» potesse imbrigliare lo sviluppo dei
soggetti a determinate vocazioni professionali prima che queste si siano
sviluppate82. Già Manacorda aveva notato come in questo senso le perplessità di Gramsci
andassero viste alla luce dell’eredità marxiana e leniniana dell’uomo
onnilaterale83; anche se oltre e più che la critica dell’innatismo, di cui scriveva il
pedagogista romano, emerge qui la preoccupazione per una troppo precoce scelta
dei percorsi che non tenga conto delle inclinazioni più profonde. Giocavano
certo un ruolo importante le esperienze autobiografiche: quelle personali, ma
anche, ad esempio, la preoccupazione per la nipote Mea, che aveva dovuto
ripiegare sulla scuola di avviamento professionale pur avendo superato
brillantemente gli esami per accedere alle medie84. E poi quelle per i figli Giuliano e Delio che andavano a suo avviso
educati – scriveva alla moglie Giulia – «a un contemperamento armonioso di
tutte le facoltà intellettuali e pratiche, che avranno modo di specializzarsi a
suo tempo»: l’ingegnere americano, il filosofo tedesco, il politico francese,
sintetizzati dal «tipo moderno di Leonardo da Vinci divenuto uomo-massa o uomo
collettivo pur mantenendo la sua forte personalità»85.
Quindi da un lato le esigenze della società richiedono meccanismi di
selezione e individuazione delle capacità, ma all’interno di una società in
cui dirigenti e diretti tendono a coincidere
nella misura in cui i secondi hanno la possibilità di entrare nella schiera dei
primi e comunque hanno gli strumenti per controllarli. Gramsci rileva come
negli stati Uniti il problema di una selezione professionale che assegni
compiti ingrati per alcuni soggetti è risolto da alti salari che compensino la
potenziale insoddisfazione, rispondendo a bisogni non meramente di
reintegrazione muscolare come avviene in altri contesti86. Ma è chiaro che in una società in cui vige il self-government del
lavoro, cui pensa Gramsci, si poteva immaginare più facilmente l’incontro fra
vocazione personale e selezione delle capacità. In tale società la scuola unica
– istituzione cardine per la saldatura del blocco storico – avrebbe corrisposto
ai bisogni di cultura scientifica delle «masse nazionali-popolari, riunendo la teoria
e la pratica, il lavoro intellettuale e quello industriale»87.
In quel contesto di sviluppo per le forze produttive la scuola non avrebbe
elevato più il livello delle masse funzionalmente agli interessi delle classi
dominanti88. Anche la scuola nuova è pensata saldamente nelle mani centralizzate di
uno Stato nuovo, capovolgendo la visione liberista coltivata in gioventù.
Appuntandosi il titolo di un libro sull’istruzione pubblica nel Regno di
Napoli, Gramsci, infatti, scrive: «le scuole private fioriscono, mentre
l’attività statale decade: si costituisce così uno strato di intellettuali
nettamente separato dalle classi popolari e in opposizione allo Stato»89. E nel Quaderno 14 scriveva a chiare lettere che in una
società moderna servizi come la scuola dovevano essere pubblici90. «La scuola unitaria – scrive Gramsci – domanda che lo Stato possa
assumersi le spese che oggi sono a carico della famiglia per il mantenimento
degli scolari»91. Nel Quaderno 16 rielabora una pagina del Quaderno 4,
denunciando come con il Concordato lo stato laico rischiasse di fornire campo
libero alla chiesa fra le classi popolari. La chiesa avrebbe, infatti, dominato
le scuole elementari e medie e nelle Università cattoliche avrebbe immesso
soggetti delle classi popolari, attraverso un canale continuo con le scuole
cattoliche, mentre invece alle università pubbliche la via sarebbe stata
preclusa per i ceti subalterni. Ma per altri versi tale riflessione dava modo a
Gramsci per sostenere come la chiesa fosse appunto molto più democratica dello
stato laico, selezionando le capacità anche fra le masse popolari e promuovendo
la mobilità sociale:
Se lo Stato (anche nel senso più vasto di società civile) non si esprime in
una organizzazione culturale secondo un piano centralizzato e non può neanche
farlo, perché la sua legislazione in materia religiosa è quella che è, e la sua
equivocità non può non essere favorevole alla Chiesa, data la massiccia
struttura di questa e il peso relativo e assoluto che da tale struttura
omogenea si esprime, e se i titoli dei due tipi di università sono equiparati,
è evidente che si formerà la tendenza a che le università cattoliche siano esse
il meccanismo selettivo degli elementi più intelligenti e capaci delle classi
inferiori da immettere nel personale dirigente92.
Favoriranno questa tendenza:
il fatto che non c’è discontinuità educativa tra le scuole medie e
l’Università cattolica, mentre tale discontinuità esiste per le Università
laico-statali; il fatto che la Chiesa, in tutta la sua struttura, è già
attrezzata per questo lavoro di elaborazione e selezione dal basso. La Chiesa,
da questo punto di vista, è un organismo perfettamente democratico (in senso
paternalistico): il figlio di un contadino o di un artigiano, se intelligente e
capace, e se duttile abbastanza per lasciarsi assimilare dalla struttura
ecclesiastica e per sentirne il particolare spirito di corpo e di conservazione
e la validità degli interessi presenti e futuri, può, teoricamente, diventare
cardinale e papa93.
Per Gramsci questa concezione della mobilità sociale è intrinseca al
concetto stesso di democrazia, come spiega nel Quaderno 8:
Tra i tanti significati di democrazia, quello più realistico e concreto mi
pare si possa trarre in connessione col concetto di egemonia. Nel sistema
egemonico, esiste democrazia tra il gruppo dirigente e i gruppi diretti, nella
misura in cui [lo sviluppo dell’economia e quindi] la legislazione [che esprime
tale sviluppo] favorisce il passaggio [molecolare] dai gruppi diretti al gruppo
dirigente94.
Ma come di recente ha osservato Massimo Baldacci, probabilmente Gramsci si
riferisce a una democrazia in senso borghese, caratterizzata da un regime
concorrenziale, che è tanto più democratica quanto più ampia è la sua capacità
di cooptazione: lo Stato nuovo la supererebbe con una selezione dei migliori
candidati alla dirigenza che non sarebbe più predeterminata da meccanismi di
predestinazione sociale95. Resta quindi l’esigenza di selezionare i ruoli direttivi ma in una realtà
sociale in cui è garantito per tutti un’adeguata formazione culturale e un alto
livello di capacità critica. Se un governo si propone di «organizzare meglio
l’alta cultura e deprimere la cultura popolare» – scrive Gramsci nel Quaderno 6
– magari privilegiando la tecnologia e le scienze naturali finanziandole
paternalisticamente più che nel passato, esso svolge una funzione repressiva e
non espansiva. Infatti – concludeva – «un sistema di governo è espansivo quando
facilita e promuove lo sviluppo dal basso in alto, quando eleva il livello di
cultura nazionale-popolare e rende quindi possibile una selezione di “cime intellettuali”
su più vasta area»96.
3.2 La riproduzione sociale
Già nel Quaderno 197 e in una lettera alla moglie dello stesso periodo98 – prima, cioè dell’integrazione del suo piano di lavoro – Gramsci
tratta il problema dell’educazione scolastica riprendendo quel tema che sopra
abbiamo collegato con le future posizioni di Bourdieu: l’efficacia della
scuola, cioè, si gioca per Gramsci sulla sua capacità di non lasciare alla
spontaneità l’interazione fra maestro e alunno. La scuola attiva e le sue
premesse roussoviane e pestalozziane avevano avuto, a suo avviso, un loro ruolo
positivo contro la rigidità gesuitica e dovevano continuare ad averlo (Gramsci
non smette di considerare la scuola unica del futuro come una scuola attiva),
ma anche erano da correggere con un necessario momento coercitivo, senza cui
non poteva essere accelerato il processo di emancipazione99. Se è vero che Gramsci sottolinea come nell’università si produca una
cesura nel percorso formativo in quanto dinamica «creativa» in cui il discente
impara autonomamente sotto la guida «amichevole» del docente, su cui avrebbe
dovuto essere modellato anche il liceo, osservava anche come in Italia mancasse
nella vita accademica l’abitudine al seminario che, viceversa, assieme ai
laboratori, avrebbe dovuto essere introdotto al liceo stesso100. In un frammento del Quaderno 6 Gramsci sosteneva che
l’abitudine nei licei e nelle università della lezione-conferenza, nella
convinzione che le «cose facili» siano facilmente attingibili dagli studenti a
differenza delle difficili, rischiava di lasciare lacune di base e non fornire
strumenti metodologici adeguati: per cui sarebbe stato necessario integrare le
lezioni con i seminari101. Ma è nel Quaderno 1 che Gramsci si diffonde sul tema:
nelle università il contatto tra insegnanti e studenti non è organizzato.
Il professore insegna dalla cattedra alla massa degli ascoltatori, cioè svolge
la sua lezione, e se ne va. Solo nel periodo della laurea avviene che lo
studente si avvicini al professore, gli chieda un tema e consigli specifici sul
metodo della ricerca scientifica. Per la massa degli studenti i corsi non sono
altro che una serie di conferenze, ascoltate con maggiore o minore attenzione,
tutte o solo una parte: lo studente si affida alle dispense, all’opera che il
docente stesso ha scritto sull’argomento o alla bibliografia che ha indicato.
Un maggiore contatto esiste tra i singoli insegnanti e singoli studenti che
vogliono specializzarsi su una determinata disciplina: questo contatto si
forma, per lo più, casualmente ed ha una importanza enorme per la continuità
accademica e per la fortuna delle varie discipline. Si forma, per esempio, per
cause religiose, politiche, di amicizia famigliare. Uno studente diventa
assiduo di un professore, che lo incontra in biblioteca, lo invita a casa, gli
consiglia libri da leggere e ricerche da tentare.
E continuava:
Ogni insegnante tende a formare una sua “scuola”, ha suoi determinati punti
di vista (chiamati “teorie”) su determinate parti della sua scienza, che
vorrebbe veder sostenuti da “suoi seguaci o discepoli”. Ogni professore vuole
che dalla sua università, in concorrenza con le altre, escano giovani
“distinti” che portino contributi “seri” alla sua scienza. Perciò nella stessa
facoltà c’è concorrenza tra professori di materie affini per contendersi certi
giovani che si siano già distinti con una recensione o un articoletto o in
discussioni scolastiche (dove se ne fanno). Il professore allora guida
veramente il suo allievo; gli indica un tema, lo consiglia nello svolgimento,
gli facilita le ricerche, con le sue conversazioni assidue accelera la sua
formazione scientifica, gli fa pubblicare i primi saggi nelle riviste
specializzate, lo mette in rapporto con altri specialisti e lo accaparra definitivamente.
Questo costume, salvo casi sporadici di camorra, è benefico, perché integra la
funzione delle università. Dovrebbe, da fatto personale, di iniziativa
personale, diventare funzione organica: non so fino a che punto, ma mi pare che
i seminari di tipo tedesco, rappresentino questa funzione o cerchino di
svolgerla. Intorno a certi professori c’è ressa di procaccianti, che sperano
raggiungere più facilmente una cattedra universitaria. Molti giovani invece,
che vengono dai licei di provincia specialmente, sono spaesati e nell’ambiente
sociale universitario e nell’ambiente di studio. I primi sei mesi del corso
servono per orientarsi sul carattere specifico degli studi universitari e la
timidezza nei rapporti personali è immancabile tra docente e discepolo. Nei
seminari ciò non si verificherebbe o almeno non nella stessa misura102.
Come si vede Gramsci, sembra segnalare – come poi farà Bourdieu103 – come il modo con cui era strutturata l’Università sfavoriva chi non
aveva «familiarità» con la stessa e magari veniva dalla provincia.
Le stesse «scuole progressiste, ispirate al principio dell’autonomia
dell’alunno», che fiorivano allora in Europa, ad esempio in certe public School
inglesi, potevano rischiare di giustapporre «snobisticamente» e
«superficialmente» lavoro intellettuale e manuale, senza fornire la necessaria
organica sinergia necessaria a rendere dirigenti le classi popolari104. E anche certe concezioni libertarie dello studio nella scuola media
estendevano a essa il metodo delle università italiane in cui lo studente aveva
massima libertà e spesso non conosceva nemmeno il docente105.
È interessante che la critica allo spontaneismo venisse da Gramsci rivolta
sia alle scuole progressiste che al gentilianesimo, in una sorta di
coniugazione di due correnti politicamente opposte in uno stesso modello
«borghese». Le posizioni neoidealistiche di Gentile e Lombardo Radice, del
resto, tradivano il conservatorismo di fondo nella misura in cui lo
spontaneismo finiva per riprodurre i destini sociali individuali, senza che –
come ha ben enucleato Baldacci – l’azione dell’oggetto riuscisse a trasformare
realmente il soggetto (la prassi è rovesciata e non rovesciante):
il soggetto opera la sintesi, senza poter diventare altro106. In Gramsci è invece l’antitesi educativa che opera la sintesi, ma in
presenza – come sempre Baldacci ha indicato – dello spirito popolare creativo che
costituisce la premessa dell’educabilità, di fatto negata dallo spontaneismo
neo-idealistico107. E non a caso Gramsci rimarcava il fatto che rispetto alla casatiana, la
scuola gentiliana premiasse il giudizio estetico o filosofico rispetto al culto
nozionistico delle date, favorendo una nebulosa spontaneità che avrebbe
riprodotto la vita privata naturalizzata, lasciando i meno strutturati dal
contesto di partenza nell’incapacità di evolversi108. In un paragrafo del Quaderno 1 che poi avrebbe ripreso e
integrato nel Quaderno 27, sosteneva che la scuola non potesse
essere agnostica109 – riprendendo in tal caso la posizione gentiliana contraria al
liberalismo positivistico post-unitario: essa doveva infatti esprimere un suo
sistema di valori, proprio andando a decostruire le convinzioni
«folkloristiche» che allignavano soprattutto nei ceti popolari. L’esperienza
«storicistica»110 del latino e greco che, a differenza della matematica e della logica
pongono i soggetti di fronte alle variazioni semantiche nel tempo, doveva
essere fruita da tutti e non da ristrette minoranze111. Più avanti avrebbe poi puntualizzato che non si trattava di ritenere che
solo le lingue antiche avrebbero potuto rivestire quel ruolo, ma che esse
andassero sostituite con discipline e saperi che potessero sortire gli stessi
effetti formativi nel nuovo contesto storico-sociale112.
Gramsci scrive:
si immagina che nel bambino il cervello sia come un gomitolo che il maestro
aiuta a sgomitolare […] non si tiene conto che il bambino, da quando incomincia
“a vedere e a toccare”, forse da pochi giorni dopo la nascita, accumula
sensazioni e immagini che si moltiplicano e diventano complesse con
l’apprendimento del linguaggio113.
Si tratta del capovolgimento del punto di vista espresso da Croce in un
documento di presentazione della propria proposta di riforma della scuola, che
anticipava le linee di quella di Gentile, in cui si difendeva il testo
dall’accusa di antidemocraticità. Per Croce l’esame a dieci anni che avrebbe
divaricato il destino dei soggetti, interverrebbe in un momento in cui il
contesto ambientale non ha avuto il tempo di influire sulle tendenze innate dei
bambini114. Anche Lombardo Radice, del resto, confinava l’ambiente, assieme
all’ereditarietà, nella «passività dell’uomo», pedagogicamente aperto a
infinite possibilità115. Lo stesso Rodolfo Mondolfo aveva sottolineato come Croce, in quel
progetto di legge, rimuovesse il problema dell’influenza delle condizioni
sociali sui soggetti, sostenendo che il modello di Lunaciarski era utopistico
se pensava di eliminare le differenze di attitudini e la divisione del lavoro,
ma andava nella giusta direzione nel voler sostituire il criterio dell’attitudine
personale a quello delle condizioni economiche116.
E anche Gramsci sosteneva:
In una serie di famiglie, specialmente dei ceti intellettuali, i ragazzi
trovano nella vita famigliare una preparazione, un prolungamento e
un’integrazione della vita scolastica, assorbono, come si dice, dall’“aria”
tutta una quantità di nozioni e di attitudini che facilitano la carriera
scolastica propriamente detta: essi conoscono già e sviluppano la conoscenza
della lingua letteraria, cioè il mezzo di espressione e di conoscenza,
tecnicamente superiore ai mezzi posseduti dalla media della popolazione scolastica
dai 6 ai 12 anni. Così gli allievi della città, per il solo fatto di vivere in
città, hanno assorbito già prima dei 6 anni una quantità di nozioni e di
attitudini che rendono più facile, più proficua e più rapida la carriera
scolastica.
Ma una folgorante anticipazione bourdesiana la abbiamo dove più avanti
Gramsci parla proprio di «abito» in termini simili a quelli del sociologo
francese117:
Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto
faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche
muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo
sforzo, la noia e anche la sofferenza. La partecipazione di più larghe masse
alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello
studio, a domandare “facilitazioni”. Molti pensano addirittura che le
difficoltà siano artificiose, perché sono abituati a considerare lavoro e
fatica solo il lavoro manuale. La quistione è complessa. Certo il fanciullo di
una famiglia tradizionale di intellettuali supera più facilmente il processo di
adattamento psico-fisico; entrando già la prima volta in classe ha parecchi
punti di vantaggio sui suoi compagni, ha un’orientazione già acquisita per le
abitudini famigliari: si concentra nell’attenzione con più facilità, perché ha
l’abito del contegno fisico ecc. Allo stesso modo il figlio di un operaio di
città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un
giovane contadino già sviluppato per la vita rurale. Anche il regime alimentare
ha un’importanza ecc.118.
Ovviamente fra gli abiti discriminanti assumeva un ruolo fondamentale
quello linguistico, data anche la particolare storia del nation building italiano.
Interessante da questo punto di vista una lettera del gennaio del 1936 al
figlio:
La quasi totalità dei miei condiscepoli non sapeva parlare l’italiano che
molto male e stentatamente e ciò mi metteva in condizioni di superiorità,
perché il maestro doveva tener conto della media degli allievi e il saper
parlare correntemente l’italiano era già una circostanza che facilitava molte
cose (la scuola era in un paese rurale e la grande maggioranza degli allievi
era di origine contadina)119.
Questo tema era svolto da Gramsci anche nelle note sulla selezione
«democratica» operata dalla chiesa cattolica, a cui abbiamo fatto riferimento
nel precedente paragrafo:
Se nell’alta gerarchia ecclesiastica l’origine democratica è meno frequente
di quanto potrebbe essere, ciò avviene per ragioni complesse, in cui solo
parzialmente incide la pressione delle grandi famiglie aristocratiche
cattoliche o la ragione di Stato (internazionale): una ragione molto forte è
questa, che molti Seminari sono assai male attrezzati e non possono educare
compiutamente il popolano intelligente, mentre il giovane aristocratico dal suo
stesso ambiente famigliare riceve senza sforzo di apprendimento una serie di
attitudini e di qualità che sono di primo ordine per la carriera ecclesiastica:
la tranquilla sicurezza della propria dignità e autorità e l’arte di trattare e
governare gli altri120.
Queste posizioni si collocano del resto sul versante anti-innatistico delle
critiche di Marx a Stirner, cui si faceva cenno nel paragrafo introduttivo.
Scrive Gramsci a proposito di una «giustissima osservazione di Engels»:
anche i modi del pensare sono elementi acquisiti e non innati, il cui
giusto impiego (dopo l’acquisizione) corrisponde a una qualifica professionale.
Non possederli, non accorgersi di 〈non〉 possederli, non porsi il problema di acquistarli attraverso un
“tirocinio”, equivale alla pretesa di costruire un’automobile sapendo impiegare
e avendo a propria disposizione l’officina e gli attrezzi di un fabbro ferraio
da villaggio121.
4. Conclusione
Diversamente da Marx, tuttavia, va registrata in Gramsci un’attenzione
«capacitaria» alla divisione del lavoro in base alle esigenze produttive di una
razionalizzazione fordista-taylorista da capovolgere, eliminandone la struttura
di classe, ma non da superare122, in certo modo con qualche assonanza con le posizioni che in Inghilterra
portavano avanti i fabiani, sebbene il leader comunista nel quadro di una
prospettiva rivoluzionaria e non di una strategia dirigista di tipo elitario.
Il libero e cooperativo assoggettamento della vita individuale e collettiva al
massimo rendimento dell’apparato produttivo era del resto, anche, la reazione
alla svalutazione del lavoro da parte di cattolici e idealisti123 e una denuncia del parassitismo delle classi privilegiate. Se è vero
che il percorso intersoggettivo immaginato da Gramsci è improntato alla
maturazione di una consapevolezza critica volta a rendere fluida la distanza
fra dirigenti e diretti; è vero anche che la prospettiva concreta di uno Stato
nuovo in cui la produzione fosse in mano collettiva, sul modello sovietico,
spingeva l’autore dei Quaderni a pensare a un ruolo educatore
dello stato stesso che, attraverso premi per l’«attività lodevole e meritoria»
e punizioni per l’«azione od omissione criminale», mirasse a cambiare le
condizioni di vita e non solo per via coercitiva ma «facendo intervenire “l’opinione
pubblica” come sanzionatrice»124. Ma ciò – ci sembra – a differenza di quanto riteneva Manacorda125, divaricandosi, appunto, da Marx, che pensava al comunismo anche come al
superamento dello Stato con la sua funzione razionalizzatrice-classificatrice e
della divisione del lavoro di tipo capitalistico126.
La vera eredità della riflessione gramsciana sulla scuola è del resto
un’altra. La critica del giovane Gramsci a una società che non pone i soggetti
nelle condizioni di poter sviluppare la propria personalità, poi proiettata
nei Quaderni nella visione di una società alternativa in cui
si mira a elevare l’intero corpo sociale e non soltanto le sue eccellenze,
costituì un ingrediente fondamentale per la riflessione del costituzionalismo
democratico. L’articolo 34 della costituzione italiana, in cui si afferma che i
«capaci e meritevoli» hanno diritto ai più alti gradi degli studi va sempre
letto assieme al secondo comma dell’articolo 3: con quei «capaci e meritevoli»,
per quanto tradendo il mito borghese della mobilità sociale, si intendeva
affermare, infatti, non solo e non tanto l’esigenza di una selezione delle
élite, bensì quella di evitare che i soggetti non meritevoli dei ceti più
abbienti continuassero a godere di privilegi esclusivi. Inoltre la riflessione
gramsciana può costituire oggi un utile contravveleno per il ritorno di
concezioni volte a destinare precocemente i soggetti a percorsi
professionalizzanti, sulla base di presunte vocazioni e di malintese finalità
di inclusione democratica.
Negli anni giovanili Gramsci aveva sottolineato la necessità di porre tutti
i soggetti nella condizione di poter attingere a una cultura disinteressata e
conseguire una piena cittadinanza, sebbene in una prospettiva
democratico-radicale, di stampo illuministico e insieme permeata del vitalismo
delle avanguardie, che in tal senso si venava anche dell’ideale «meritocratico»127 e in cui ancora non era stata pienamente tematizzata – come è stato
notato – l’appropriazione di classe dei saperi128. Gramsci approda poi, nei Quaderni, al disegno di una scuola
unica che, collocandosi nel cuore di una società post-capitalista e
riappropriandosi del sistema produttivo, si riappropria al contempo dei saperi
stessi129. Nella scuola unica dei Quaderni la divaricazione dei
ruoli avviene dopo il suo completamento: dopo, cioè, un percorso ispirato a
criteri formativi disinteressati e non professionalizzanti, estraneo al
«facilismo»130 dannoso per i ceti meno abbienti e richiesto da certa borghesia,
magari incoraggiato dalle vulgate attivistiche. Nel settantanovesimo paragrafo
del Quaderno 6 il prigioniero sottolineava come i comunisti
non dovessero percepirsi come un «élite-aristocrazia-avanguardia», ispirata a
«talentismo» e «irresponsabilità», bensì come un movimento volto a delineare
una collettività frutto degli sforzi individuali, in cui i soggetti non
subiscano passivamente l’iniziativa di entità superiori131. Gramsci riprende da Croce l’idea per cui in ogni soggetto vada
riconosciuta la facoltà logica ed estetica e che quindi, in certa misura,
ognuno è un intellettuale; ma rideclinando questa visione in una figura non più
tradizionale (umanistica), bensì intessuta dei saperi legati al lavoro manuale,
tecnologico, industriale, in cui non tanto il produttivismo può essere
valorizzato per la critica dell’attuale società post-fordista, bensì l’idea
dell’uomo intero come modello di massa in cui la cooperazione collettiva non
era pensata in conflitto, nel singolo individuo, con la sua «forte personalità
e originalità individuale»132.
Da Scienza & Politica. Per Una
Storia Delle Dottrine, 35(69), 151–175. https://doi.org/10.6092/issn.1825-9618/19057
salvatore.cingari@unistrapg.it Università per
Stranieri di Perugia
Note
1 Si veda ad
esempio il recente M. BALDACCI, Oltre la subalternità. Praxis ed educazione in Gramsci,
Roma, Carocci, 2017.
2 Qui di seguito
alcuni dei testi più recenti utili per la decostruzione dell’ideologia
meritocratica: J. LITTLER, Against Meritocracy. Culture, Power and Myte of Mobility,
Abington, Routledge, 2018; D. GUILBAUD, L’il- lusion meritocratique,
Paris, Jacob, 2018; M. BOARELLI, Contro l’ideologia del merito,
Roma-Bari, Laterza, 2019; M. DURU-BELLAT, Le mérite contre la justice, Paris,
Presses de la Fondation National des sciences politiques, 2019; D.
MARKOVITZ, The Meritocracy Trap, New York,
Penguin, 2019; S. CINGARI, La meri- tocrazia,
Roma, Ediesse, 2020; M.J. SANDEL, The Tyranny of Merit. What’s Become of the Common Good? New
York, Farrar, Straus&Giroux, 2020 (trad. Ital. La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti,
Milano, Feltrinelli, 2021, traduzione di C. Del Bò – E. Marchiafava).
3 T.
PIKETTY, Capital et ideologie, Paris, ed.
Du Seuil, 2019, pp. 825-829.
4 N. FRASER, Il vecchio muore e il nuovo non può nascere. Dal neoliberismo progressista a Trump e oltre,
Verona, Ombre corte, 2019, pp. 12-13 (ed. or. The Old is Dying, the New Cannot be Born. From Progressive Neoliberalism to Trump and Beyond,
New York, Verso, 2019).
5 M. YOUNG, L’avvento della meritocrazia,
Roma-Ivrea, Edizioni di Comunità, 2014 (ed. or. The rise of the meritocracy,
London, Thames & Hudson, 1958).
6 Su ciò ad es.
cfr. L. BUTLER, Michael Young, Social Science and The British Left. 1945-1970,
Oxford, Oxford University Press, 2020, p. 3.
7 D. BELL, On Meritocracy and Equality,
«Public interest», 29/1972, pp. 29-68.
8 J.L. BOLTANSKI –
E. CHIAPPELLO, Il nuovo spirito del capitalismo,
Milano, Mimesis, 2014 [ed. or. Le nouvel esprit du capitalisme,
Paris, Gallimard, 1999].
9 K. MARX, Critica al programma di Gotha (1875),
Roma, Editori Riuniti, 1978 [1891, Kritik des Gothaer Programms,
«Die Neue Zeit», vol. 1, 18/1890-1891, pp. 561-575], p. 32. Sul tema del
«merito» in Marx cfr. S.CINGARI, Per uno studio del tema della capacità e del merito nel pensiero di Karl Marx,
in A. GABELLONE– G. PREITE (eds), Karl Marx. Eredità teoriche e nuove prospettive analitiche,
Pisa, Pacini, 2022, pp. 157173.
10 In una brochure
della serie «l’homme d’aujourd’hui», pubblicata il 6 dicembre 1878 e ora
conservata in un fondo dell’International Institute for Social History di
Amsterdam e forse proprio da Blanc ispirata, si attribuisce la suddetta formula
proprio all’autore dell’Organizzazione del lavoro: cfr. M.G. MERIGGI, L’inven- zione della classe operaia. Conflitti del lavoro, organizzazione del lavoro e della società in Francia intorno al 1948,
Milano, FrancoAngeli, 2002, p. 92n.
11 G. DELLA
VOLPE, Rousseau e Marx (1957), Roma,
Editori riuniti, 1971, pp. 17-18, 53-55. Della Volpe torna su questi temi anche
in Critica dell’ideologia contemporanea,
Roma, Editori riuniti, 1967, pp. 54-56, 105-106.
12 Citiamo ad
esempio P. MASTROCOLA – L. RICOLFI, Il danno scolastico. La scuola progressista come mac- china della diseguaglianza,
Milano, La nave di Teseo, 2021; A. GAVOSTO, La scuola bloccata,
Roma-Bari, Laterza, 2022; L. RICOLFI, La rivoluzione del merito,
Milano, Rizzoli, 2023.
13 Si legga in
particolare come Gramsci si esprima a proposito dell’egemonia come rapporto
pedagogico (A. GRAMSCI, Quaderni del carcere,
Torino, Einaudi, 1975, vol. II, Quaderno 10, §44, p. 1331):
«Questo rapporto esiste in tutta la società nel suo complesso e per ogni
individuo rispetto ad altri individui». Non è raro ormai vedere accostati
Gramsci e Foucault (al netto delle profonde differenze rispetto alla dimensione
del disciplinamento: cfr. qui più avanti alla nota 123): ad esempio cfr. E.
BALIBAR, Foucault et Marx, in Michel Foucault philosophe,
Paris, Editions du soil, 1988, p. 69; P. MAYO, Gramsci, Freire e l’educazione degli adulti. Possibilità di un’azione trasformativa,
Sassari, Delfino, 2007, (Gramsci, freire and adult education: possibilities for transformative action,
London-New York, Zed book, 1999) p. 115; A. BURGIO, La passione per la critica,
in R.M. LEONETTI (ed), Foucault e Marx. Paralleli e paradossi,
Roma, Bulzoni, 2010, p. 39;
R.M. LEONETTI, Gramsci. Il sistema in movimento,
Roma, Derive e Approdi, 2014, p. 222; P. MAYO, Hegemony and Education under Neoliberalism. Insight from Gramsci,
London and New York, Routledge, 2015, pp. 14, 62, 100, 152.
14 A.
GRAMSCI, La scuola all’officina («Avanti»,
8/9/1916), in Scritti (1910-1926), vol. I (1910-1916),
Roma, Treccani, 2019, pp. 631-632.
15 Per il giovane
Gramsci si veda almeno L. PAGGI, Il moderno principe,
Roma, Editori riuniti, 1970 e L. RAPONE, Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo, Roma,
Carocci, 2011.
16 A.
GRAMSCI, Contro il feudalesimo economico,
in Cronache torinesi, Torino, Einaudi, 1980, p. 471
(«Il grido del popolo», 5 agosto 1916).
17 L.
EINAUDI, I problemi economici della pace. Avvertenza introduttiva,
«La riforma sociale», 27/1916, p. 331.
18 A.
GRAMSCI, La libertà della scuola,
in Il nostro Marx. 1918-1919,
Torino, Einaudi, 1984, p. 291 («Il grido del popolo», 14/9/1918).
19 A.
GRAMSCI, La scuola all’officina, p. 631.
20 Sull’impiegomania
e il culto della «raccomandazione» e del favoritismo al Sud cfr. G.
SALVEMINI, Problemi educativi e sociali dell’Italia di oggi,
Catania, Battiato, 1914, pp. 5-17.
21 Sul liberismo di
Gramsci (oltre che i testi indicati alla nota 15) cfr. D. LOSURDO, Antonio Gramsci dal liberismo al comunismo «critico»,
Gamberetti, Roma, 1997; L. MICHELINI, Marxismo, liberismo, Rivoluzione. Saggio sul giovane Gramsci (1915-1920),
Napoli, La città del sole, 2011; S. CINGARI, Liberismo e rivoluzione. Note a margine di un recente volume su Antonio Gramsci,
«Italia contemporanea», vol. 267, 2012, pp. 277-290; G. GUZZONE, Gramsci e la critica dell’economia politica,
Roma, Viella, 2018, pp.35-55.
22 A. GALLETTI – G.
SALVEMINI, La riforma della scuola media. Notizie, osservazioni, proposte, MilanoPalermo-Napoli,
Sandron, 1908, pp. 33-63; G. SALVEMINI, Problemi educativi e sociali dell’Italia di oggi, pp.
5-6.
23 A.
GRAMSCI, La scuola del lavoro («Avanti»,
18/7/1916), in Scritti, vol. I, p. 529.
24 A. GRAMSCI, Uomini o macchine?
(«Avanti» 24/12/1916), ivi, p. 797.
25 Ivi, pp.
497-498.
26 M. PAULESU
QUERCIOLI (ed), Gramsci vivo nelle testimonianze dei suoi contemporanei,
Milano, Feltrinelli, 1977, p. 34.
27 A.
GRAMSCI, Oppressi e oppressori, in Scritti,
vol. I, p. 825.
28 A.
GRAMSCI, Uomini o macchine, p. 798.
29 G.
GENTILE, Politica e cultura, vol. I,
Firenze, Le lettere, 1990, pp. 237-251.
30 M.A.
MANACORDA, Il principio educativo in Gramsci: conformismo e americanismo,
Roma, Armando Editore, 1970, p. 129; cfr. anche Introduzione a
M.A. MANACORDA (ed), L’alternativa pedagogica, Roma,
Editori riuniti, 2012 (I ediz. 1972), pp. 20 e 37.
31 A.
BROCCOLI, Antonio Gramsci e l’educazione come egemonia,
Firenze, La nuova Italia, 1972, p. 33.
32 Gramsci: il popolo «imbarbarito» e l’«americanarsi dell’Europa»,
«Il fatto quotidiano», 24 giugno 2022, pp. 16-17.
33 A.
GRAMSCI, L’Università popolare («Avanti»,
29/12/1916), in Scritti, vol. I, p. 804.
34 Ivi, pp.
29-30.
35 M.A.
MANACORDA, Il principio educativo in Gramsci: conformismo e americanismo,
pp. 54-57; M.A. MANACORDA, Introduzione, p. 21.
36 A.
GRAMSCI, La scuola di partito («L’Ordine
nuovo», 1/4/1925), in La costruzione del partito comunista,
Torino, Einaudi, 1971, p. 49. Su Gramsci e la «scuola di partito» cfr. P.
MALTESE, Gramsci dalla scuola di partito all’anti-Bucharin,
Palermo, Istituto Poligrafico Europeo, 2018, pp.19-51.
37 Fondo Antonio
Gramsci, Carte personali / I, 1891-1926 (P. MALTESE, Gramsci dalla scuola di partito,
pp. 38-51).
38 A. GRAMSCI, La settimana politica (19/07/
1919), in «L’Ordine nuovo», 1919-1920, Torino, Einaudi, 1987,
p.147.
39 A.
GRAMSCI, Discorso agli anarchici (3-10/04/1920), ivi,
p. 491.
40 A.
GRAMSCI, Bolscevismo intellettuale, in Scritti giovanili («Avanti»,
16/5/1918), p. 226.
41 G. URBANI, Introduzione a
G. URBANI (ed), La formazione dell’uomo,
Roma, Editori riuniti, 1974 (I ed. 1967).
42 A.
GRAMSCI, Il «foot-ball» e lo scopone («Avanti»
26/08/1918), in Il nostro Marx. 1918-1919,
pp. 265-266.
43 L. RAPONE, Cinque anni che paiono secoli, pp.150-153.
44 A.
GRAMSCI, Utopia («Avanti», 25/7/1918), in Scritti giovanili,
p. 285. E continuava (ivi, pp. 285-286): «I nuclei vivi di questa
gerarchia sono i Soviet e i partiti popolari. I Soviet sono l’organizzazione primordiale
da integrare e sviluppare e i bolscevichi diventano il partito del governo
perché sostengono che i poteri dello Stato devono dipendere ed essere
controllati dai Soviet […] è la gradazione gerarchica del prestigio e della
fiducia, che si è formata spontaneamente, che si mantiene per libera elezione».
45 A.
GRAMSCI, Il culto della competenza («Avanti»,
13/5/1918), ivi, pp. 223-224.
46 L.
MICHELINI, Marxismo, liberismo, Rivoluzione,
pp. 116-117.
47 S.E.
SCHAFFER, Hegemony and the habitus: Gramsci, Bourdieu, and James Scott on the Problem of Resi- stance,
«Research & Society», 8/1995, pp. 29-52; P. MAYO, Gramsci, Freire e l’educazione degli adulti,
pp. 154-155; M. BURAWOY, The Roots of Domination: Beyond Bourdieu and Gramsci,
«Sociology», 46, 2/2012, pp. 187-206; R.P. JACKSON, On Bourdieu and Gramsci,
«Gramsciana», 2/2016, pp. 141-161; G. PIZZA, L’antropologia di Gramsci. Corpo, natura, mutazione,
Roma, Carocci, 2020, pp. 28-29, 66, 100, 147-149.
48 A.
GRAMSCI, La scuola è un’istituzione seria?,
in Il nostro Marx. 1918-1919,
pp. 581-584. Posizioni affini nel campo socialista su questo tema vanno
rilevate in R. MONDOLFO, Libertà della scuola ed esami di Stato e problemi di scuola e cultura,
Bologna, Cappelli, 1922, pp. 35-37, 94. Ma cfr. anche G. SALVEMINI, Cultura e laicità,
Catania, Battiato, 1914, pp. 28-31.
49 P. BOURDIEU – J.C.
PASSERON, Les héritiers. Les étudiants et la cuture,
Paris, Les editions de minuit, 1964.
50 Sulla vicinanza
delle posizioni di Gramsci e Bourdieu su questi temi cfr. G. PIZZA, L’antropologia di Gram- sci,
pp. 147-148.
51 G. PAPINI, Chiudiamo le scuole (1914)
in G. PAPINI, Chiudiamo le scuole, Firenze,
Vallecchi editore, 1919, pp. 35-51.
52 A. GRAMSCI, Prima liberi,
in Scritti giovanili. 1914-1918, Torino,
Einaudi, 1958, p. 301.
53 A. GRAMSCI, Cronache dell’ordine nuovo (23/08/1919),
in L’Ordine nuovo (1918-1920), p. 452.
54 A.
GRAMSCI, Cronache dell’ordine nuovo (27/12/1919), ivi,
p. 365.
55 A.
GRAMSCI, Cronache dell’Ordine nuovo (10/01/1920), ivi,
p. 380.
56 A.
GRAMSCI, Cronache dell’Ordine nuovo,
(12/6/1920), ivi, p. 481.
57 A.
GRAMSCI, Quaderni del carcere, vol.
II, Quaderno 8, p. 935.
58 M. MUSTÉ, Educare e unificare
il popolo-nazione, in G. COSPITO – G. FRANCIONI – F. FROSINI
(eds), Nazione, popolo, nazionale-popolare. Una costellazione gramsciana,
Como-Pavia, Ibis, 2023, p. 92.
59 M.A. MANACORDA, Il principio educativo in Gramsci: conformismo e americanismo,
pp. 195-196.
60 A.
GRAMSCI, Quaderni del carcere, vol. I, Quaderno 4
(1930-1932), §45 p. 472; Quaderno 11 (1932-1933), 62, pp.
1488-1489. Cfr. anche ivi, Quaderno 5 (1930-1932),
§42, p. 573 (accenno alla «scuola unica del lavoro»).
61 R.
MONDOLFO, Libertà della scuola, p. 102.
62 Secondo Salvemini con
la fine dell’antico regime la classificazione sociale non avrebbe più dovuto
essere regolata dai privilegi giuridici ed economici ma attraverso il «merito»
di ciascuno e quindi attraverso il percorso scolastico che avrebbe assegnato ad
ognuno il proprio posto nella gerarchia sociale secondo le sue capacità. G.
SALVEMINI, Cultura e laicità, pp. 84-86.
63 Ad es. A.
GALLETTI – G. SALVEMINI, La riforma della scuola media.
64 A.
GRAMSCI, Quaderni del carcere, vol.
I, Quaderno 4 (1930-1932), §49, p. 483; vol. II, Quaderno 8
(1931-1932), §1, p. 1531.
65 Ivi, p.
1534.
66 Ivi, vol.
I, Quaderno 4 (1930-1932), §49, p. 485.
67 M.A.
MANACORDA, Il principio educativo in Gramsci: conformismo e americanismo,
p. 208.
68 K. MARX, Critica del programma di Gotha,
pp. 31-32.
69 A.
GRAMSCI, Quaderni del carcere, vol.
I, Quaderno 4 (1930-1932), §49, p. 485.
70 Ivi, vol.
III, Quaderno 12 (1932), §1, pp. 1517-1518.
71 Ivi, p.
1540; vol. I, Quaderno 4 (1930-1932), §54, p. 498.
72 Ivi, vol.
III, Quaderno 12 (1932), §1, p. 1539. Prima stesura: ivi,
vol. I, Quaderno 4 (1930-1932), §50, pp. 487-488: «sarà il
meccanismo selettivo per mettere in valore le capacità individuali della
periferia».
73 Ivi, pp.
1536-154.
74 Ivi, vol.
I, Quaderno 4 (1930-1932), §49, pp. 485-488.
75 In una lettera a
Giorgio Baratta del 1989 Ercole Piacentini, vecchio compagno di carcere di
Gramsci, sosteneva invece che la visione gramsciana non era egualitaria ma
basata su un’idea di selezione sulla base delle «competenze» e del «lavoro»: L.
CAPITANI – R. VILLA, Scuola, intellettuali e identità nazionali nel pensiero di Antonio Gramsci,
Roma, Gamberetti, 1999, p. 61 (lettera del 30/3/1989). Certo l’impressione è
che in Gramsci rimanga un’idea gerarchica rinforzata dalla suggestione del
sistema fordista, ma il quadro dello Stato nuovo in cui è proiettata non sembra
lasciar pensare a disuguaglianze nei diritti, nel godimento delle risorse e
delle capabilities. La selezione, cioè, avverrebbe sul piano
delle capacità da impiegare, più che dei meriti da
premiare.
76 Cfr. anche A.
BROCCOLI, Antonio Gramsci e l’educazione come egemonia,
p. 168.
77 R.
MONDOLFO, Libertà della scuola, pp. 74, 93,
111-112.
78 A.
GRAMSCI, Scritti, vol. I, p. 825.
79 A.
GRAMSCI, Lettere dal carcere, Torino,
Einaudi, 2020, p. 1094 (lettera del 25/3/1936).
80 A.
GRAMSCI, Quaderni del carcere, vol.
III, Quaderno 12 (1932), §2, p. 1547; prima stesura, vol.
I, Quaderno 4 (1930-1932), §55, pp. 501-502.
81 A.
GRAMSCI, Quaderni del carcere, vol.
III, Quaderno 12 (1932), §2, pp. 1547-1548; prima stesura,
vol. I, Quaderno 4 (1930-1932), §55, pp. 501-502.
82 A. GRAMSCI, Lettere dal carcere,
p. 696 (a Tatiana Schucht, 7/12/1931); p. 702 (lettera a Giulia Schucht,
14/12/1931).
83 M.A. MANACORDA, Il principio educativo in Gramsci: conformismo e americanismo,
pp. 127-128.
84 Ivi, pp.
129-132.
85 A. GRAMSCI, Lettere del carcere,
pp.823-824 (lettera a Giulia Schucht, 1 agosto 1932).
86 A.
GRAMSCI, Quaderni del carcere, vol. I, Quaderno 5
(1930-1932), §39, pp. 572-573.
87 Ivi, vol.
II, Quaderno 8 (1931-1932), §188, p. 1055.
88 Cfr. quanto
Gramsci scrive sullo «stato etico»: ivi, p. 1049.
89 Ivi, vol.
III, Quaderno 19 (1934-1935), §48, p. 2068. Cfr. la prima
stesura: Ivi, vol. I, Quaderno 3 (1930), 134, p.
395.
90 Ivi, vol.
III, Quaderno 14 (1932-1935), §56, pp. 1714-1715.
91 Ivi, Quaderno 12
(1932), §1, p. 1534; prima stesura: ivi, Quaderno 4
(1931-1932), §50, p. 485.
92 Ivi, vol.
III, Quaderno 16 (1933-1934), § 11, p. 1869; prima
stesura: Quaderno 4 (1930-1932), §53, p. 495.
93 Ibidem.
94 Ivi, vol.
II, Quaderno 8 (1931-1932), §191, p. 1056.
95 M. BALDACCI, La scuola al bivio. Mercato o democrazia?,
Milano, FrancoAngeli, 2019, p. 23.
96 A.
GRAMSCI, Quaderni del carcere, vol. II, Quaderno 6
(1930-1932), §170, p.821. l’attualità di questo brano è stata di recente
rilevata da Virginia Magnaghi: Le oasi nel deserto del sapere,
«Jacobin Italia», 21/2023, p. 78.
97 A.
GRAMSCI, Quaderni del carcere, vol.
I, Quaderno 1 (1929-1930), §123, p. 114.
98 A.
GRAMSCI, Lettere del carcere, pp. 424-426
(Lettera a Giulia Schucht, 30/12/1929).
99 Su Gramsci e lo
«spontaneismo educativo» cfr. anche L. BORGHI, Educazione e scuola in Gramsci, in
P. ROSSI (ed), Gramsci e la cultura contemporanea,
Roma, Editori Riuniti, 1969, pp. 207-238; D. RAGAZZINI, Società industriale e formazione umana,
Roma, Editori riuniti, 1976 pp. 118-204; P. MALTESE, Il problema politico come problema pedagogico in Antonio Gramsci, Roma,
Anicia, 2018, pp. 295-309. Vedi inoltre C. META, Il soggetto e l’educazione in Gramsci. Formazione dell’uomo e teoria della personalità,
Roma, Bordeaux, 2019.
100 A.
GRAMSCI, Quaderni del carcere, vol.
I, Quaderno 4 (1930-1932), §50, pp. 486-487; vol. III, Quaderno 12
(1932), §1, pp. 1537-1538.
101 Ivi, vol.
II, Quaderno 6 (1930-1932), §206, pp. 843-844.
102 Ivi, vol.
I, Quaderno 1 (§15), 1929-1930, pp. 12-13.
103 Cfr. nota 47.
104 A.
GRAMSCI, Quaderni del carcere, vol.
II, Quaderno 9 (1932), §119, p. 1183.
105 Ivi, p.
1184.
106 M.
BALDACCI, Oltre la subalternità. Praxis ed educazione in Gramsci,
pp. 219-221. Sulla questione della traduzione gentiliana dell’umwälzende Praxis marxiana
cfr. F. FROSINI, La religione dell’uomo moderno. Politica e verità Quaderni del carcere di Antonio Gramsci,
Roma, Carocci, 2010, pp. 65-75.
107 M.
BALDACCI, La scuola al bivio: mercato o democrazia?,
pp. 147-151.
108 A.
GRAMSCI, Quaderni del carcere, vol. III, Quaderno 12
(1932), §1, pp. 1543; prima stesura, Quaderno 4 (1930-1932),
§55, ivi, p. 499. Cfr. anche M.A. MANACORDA, Introduzione,
p. 32. Sulla presenza di questi temi gramsciani negli Stati Uniti di fine
millennio cfr. J. BUTTIGIEG, Le «forme cinesi». Dalla scuola retorica alla scuola democratica,
in L. CAPITANI – R. VILLA, Scuola, intellettuali e identità nazionali,
p. 70. Buttigieg si riferiva a E.D. HIRSCH, The Schools We Need: and Why We Don’t Have Them,
New York, Doubleday, 1999.
109 A.
GRAMSCI, Quaderno 1 (1929-1930), §89, p. 89; vol. III, Quaderno 27
(1935), §1, pp. 2313-2314.
110 Ivi, vol.
I, Quaderno 1 (1929-1930), §153, pp. 135-137; vol. III, Quaderno 16
(1933-1934), §21, pp. 1889-1893.
111 Questo tema gramsciano
è ripreso nel secondo dopoguerra da C. MARCHESI, In difesa del latino,
in «Belfagor», XI, 3, 31 maggio, pp. 348-351. Nello stesso fascicolo cfr. anche
L. COLLINO, Equivoci sul Latino. Concetto Marchesi ha ripreso la bona battaglia, ivi,
pp. 348-351. Marchesi sviluppava la lezione dei Quaderni sostenendo
la necessità di una scuola «unica» formativa e disinteressata, ma anche l’idea
che tale scuola dovesse «accertare le varie capacità e attitudini individuali».
112 A.
GRAMSCI. Quaderni del carcere, vol.
III, Quaderno 12 (1932), §1, pp. 1543-1546; vol. I, Quaderno 4
(1930-1932), §55, pp. 501-502.
113 Cfr. nota 97.
114 B. CROCE, Le riforme degli esami e la sistemazione della scuola media,
Firenze, La voce, 1921, p. 71. Anche Peter Mayo ha sottolineato il carattere
«antimeritocratico» delle posizioni del Gramsci dei Quaderni: «mi
colpisce come la sua critica della separazione, proposta dal regime fascista,
fra scuola “classica” e “professionale”, si coniughi tanto bene con la
tradizione radicale di opposizione a qualsiasi tipo di differenziazione in base
al cosiddetto “merito”, poiché in realtà l’intero processo meritocratico è in
effetti una selezione in base alla classe sociale». P. MAYO, Gramsci, Freire e l’educazione degli adulti,
p. 54.
115 G. L.
RADICE, Il concetto dell’educazione,
Catania, Battiato, 1916, pp. 8, 31-32.
116 R.
MONDOLFO, Libertà della scuola, pp. 97.
117 P. BOURDIEU –
J.C. PASSERON, La riproduzione, Bologna, Guaraldi, 1972
[1970, Eléments pour une théorie du systéme d’ensegnement,
Les editions de minuit, Paris]. Su questo punto, avevano già visto un
accostamento possibile P. MAYO (Gramsci, Freire e l’educazione degli adulti. Possibilità di un’azione trasformativa,
pp. 154-155) e G. PIZZA (L’antropologia di Gramsci, pp.
28-29).
118 A.
GRAMSCI, Quaderni del carcere, vol.
III, Quaderno 12 (1932), §1, pp. 1549-1550; vol. I, Quaderno 4
(1930-1932), §55, pp. 501-502.
119 A. GRAMSCI, Lettere del carcere,
p. 1088 (lettera a Giuliano Gramsci, 25/1/1936).
120 A.
GRAMSCI, Quaderni del carcere, vol.
III, Quaderno 16 (1933-1934), §11, pp. 1869-1870; prima
stesura: vol. I, Quaderno 4 (1930-1932), §53, pp. 495-496.
121 Ivi, vol.
III, Quaderno 16 (1933-1934), §21, p. 1892; prima stesura:
vol. I, Quaderno 1 (1929-1930), §153, p.136.
122 Su ciò cfr. le
utili considerazioni di B. TRENTIN in La città del lavoro (1997),
Firenze, Firenze University Press, 2014, pp. 113-168. Interessanti, ad esempio,
le osservazioni con cui Trentin, pur più volte sottolineando l’importanza
dell’enfasi gramsciana sull’egemonia come modalità non
centralistico-autoritaria della presa del potere, rilevi tuttavia nel pensatore
sardo l’importanza del mito soreliano del «produttore» (ivi, pp.
124-125, 146). Sulle analisi di Trentin cfr. le obiezioni di G. BARATTA, Gramsci nella società dell'apprendi- mento,
in L. CAPITANI – R. VILLA (eds), Scuola, intellettuali e identità nazionale nel pensiero di Antonio Gramsci,
Roma, Gamberetti, 1999, p. 39.
123 P.
MALTESE, Il problema politico come problema pedagogico in Antonio Gramsci,
pp. 291-293.
124 A.
GRAMSCI, Quaderni del carcere, vol.
III, Quaderno 13 (1932-1934), §11, pp. 1570-1571. Si veda
anche la prima stesura dove Gramsci parla di una non filistea «gogna delle
virtù» a proposito della funzione premiatrice del diritto: ivi, Quaderno 8
(1931-1932), §62, pp. 978-979.
125 M.A.
MANACORDA, Introduzione a L’alternativa pedagogica,
p. 41.
126 Si tratta di una
divaricazione con Marx con alcune affinità con quella che si può rilevare
nel Rousseau e Marx di Galvano della
Volpe: su ciò cfr. S. CINGARI, La meritocrazia, pp.
40-45.
127 È vero, come
dice Maltese (Il problema politico come problema pedagogico in Antonio Gramsci,
p. 274), che qui Gramsci pensa anche all’«espansività operaia», ma in un’ottica
anche legata al radicalismo democratico e al vocianesimo della sua formazione.
128 P.
MALTESE, Il problema politico come problema pedagogico in Antonio Gramsci,
pp. 261-265, 270-271.
129 Cfr. anche ivi,
p. 258.
130 Ivi, pp.
287-288.
131 A.
GRAMSCI, Quaderni del carcere, vol.
II, Quaderno 6 (1930-1932), §79, p. 749. Contro il mito del
talento cfr. anche ivi, Quaderno 1 (1929-1930),
§145, p. 130.
132 Cfr. nota 85.
Nessun commento:
Posta un commento