articoli e video di Jeff Halper, Davide Malacaria, Enzo Traverso, Edward Said, Ahmad Ibsais, Stefano Baudino
“Catastrofe”. Il 70% degli abitanti di Gaza nel nord nella Fase 5 dell’insicurezza alimentare – Davide Malacaria
Non c’è fame a Gaza è uno dei tanti temi base della propaganda israeliana, la Hasbara, come la chiamano, che a volte riecheggia nelle parole e nei comunicati di Washington. Dahlia Scheindlin pubblica su Haaretz: “Dentro l’inquietante negazione della fame a Gaza da parte di Israele”, articolo nel quale dettaglia la catastrofica emergenza alimentare dei palestinesi.
I dati dell’emergenza alimentare
Innanzitutto le valutazioni dell’ICP (classificazione integrata delle fasi di sicurezza alimentare), che “ha rilevato come il 70% degli abitanti di Gaza nel nord (circa 210.000 persone) si trovano ad affrontare la Fase 5 dell’insicurezza alimentare, cioè la catastrofe. Nelle regioni meridionali, dove le tante voci dell’hasbara sostengono con forza che i mercati sono aperti e il cibo è abbondante, il rapporto ha rilevato che i governatorati di Deir al-Balah, Khan Yunis e Rafah sono nella Fase 4 – stato di emergenza. Ma tutta Gaza si trova ad affrontare una grave insicurezza alimentare”.
“L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha affermato che il rapporto dell’IPC corrisponde alla sua esperienza diretta nel corso del servizio prestato alle popolazioni di Gaza dall’inizio della guerra. L’ OMS ha affermato che ‘il rapporto dell’IPC conferma ciò che noi, i nostri partner delle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative (ONG) stiamo osservando e denunciando da mesi. Quando le nostre missioni raggiungono gli ospedali, incontriamo operatori sanitari esausti e affamati che ci chiedono cibo e acqua”.
Impressionante anche il recente sondaggio del “Palestinian Center for policy and survey research” condotto da Khalil Shikaki all’inizio di marzo secondo il quale “solo un terzo, se non meno, dei palestinesi di Gaza aveva acqua e cibo disponibili” – la maggioranza ha affermato che potevano accedervi “con grandi difficoltà e rischi”, mentre il 13% ha affermato che non avevano affatto disponibilità di acqua e cibo. Il 27% degli interpellati ha aggiunto che l’assistenza medica non era disponibile. La stessa percentuale ha detto lo stesso riguardo ai servizi igienici; solo il 24% ha dichiarato che ne aveva. Questa è una formula per la morte”.
Così Philippe Lazzarini Commissario generale dell’UNWRA su X: “la settimana scorsa tutti i convogli alimentari dell’UNRWA diretti al nord di Gaza sono stati bloccati”. Negli stessi giorni, gli Stati Uniti bloccavano i finanziamenti all’Unwra fino al 2025. Riprenderanno, sempre se accadrà, quando la popolazione della Striscia sarà sfoltita…
Edward Said, preludi alla trappola di Gaza – Enzo Traverso
Gli scritti di Edward Said di 20 anni fa sulla Palestina sono quanto mai attuali. Fin da allora Said denunciava l’impraticabilità, dopo il fallimento degli accordi di Oslo, del progetto di due Stati e l’impossibilità, prodotta dalla politica di Israele, di un solo Stato con parità di diritti per tutti. Le sue analisi non sono state ascoltate e l’acritica adesione dell’Occidente alla narrazione sionista ha portato all’attuale situazione senza sbocchi.
(di Enzo Traverso, da il manifesto)
«Gaza è circondata su tre lati da un recinto di filo metallico percorso dalla corrente elettrica; imprigionati come animali, gli abitanti si trovano nell’impossibilità di muoversi, di lavorare, di vendere la verdura e la frutta che coltivano, di andare a scuola. Sono esposti agli attacchi dal cielo degli aerei e degli elicotteri israeliani, e a terra vengono abbattuti come tacchini dai carri armati e dalle mitragliatrici. Affamata e misera, Gaza umanamente è un incubo, fatto […] di migliaia di soldati impegnati nell’umiliazione, nella punizione e nell’intollerabile indebolimento di ogni palestinese, a prescindere dall’età, dal sesso e dallo stato di salute. Le forniture mediche vengono trattenute al confine, sulle ambulanze si spara oppure si fa in modo che perdano tempo. Vengono demolite centinaia di case e terreni agricoli e centinaia di migliaia di alberi vengono distrutti in nome della punizione collettiva sistematica con cui si intendono colpire i civili, in gran parte profughi in seguito alla distruzione della loro società nel 1948».
Queste parole sembrano scritte ieri, ma portano la data dell’agosto 2002. Il loro autore, il teorico della letteratura e critico culturale Edward Said, è morto vent’anni fa. Sono moltissimi, in questi mesi in cui si sta consumando la tragedia di Gaza, a sentire la mancanza della sua voce autorevole, indomita e sempre scomoda alle orecchie del potere. Uscito da poco dal Saggiatore, La Pace possibile. Riflessioni critiche e prospettive sui rapporti israelo-palestinesi (traduzione di Antonietta Torchiana, prefazione di Tony Judt, pp. 348, € 24,00) raccoglie un insieme di testi scritti poco prima della sua scomparsa, ma non ha perduto nulla della sua attualità. A distanza di vent’anni, le sue parole premonitrici risuonano anzi con. più forza. Destinati ai quotidiani arabi Al-Ahram e Al-Hayat, pubblicati al Cairo e Londra, questi articoli analizzano il contesto della seconda Intifada in Palestina, dell’11 settembre e delle guerre che ne sono seguite in Afganistan e in Iraq. Lo sfondo è la crisi degli accordi di Oslo, che avrebbero dovuto portare alla pace ma hanno soltanto preparato il terreno per la distruzione della Palestina oggi sotto i nostri occhi. Said è stato uno dei primi (e dei pochi) a denunciarli come una trappola per i palestinesi e a indicare le conseguenze catastrofiche che ne sarebbero discese.
La diagnosi contenuta in questi testi è lucidissima. Said sottolinea innanzi tutto l’assenza, per non dire l’impossibilità di un dialogo: nel 1948 i palestinesi sono stati «depredati e sradicati», mentre Israele proclama di aver conquistato la sua indipendenza; i palestinesi sono stati privati della loro terra, mentre Israele afferma di essersi riappropriato di una terra che appartiene agli ebrei per decreto biblico; i palestinesi hanno subito decenni di occupazione, privazione di diritti, umiliazione e violenza sistematica, ma Israele ritiene di agire in nome di un popolo di vittime. Tutti i grandi media occidentali hanno aderito senza riserve alla narrazione sionista che sfrontatamente strumentalizza la storia degli uni e ignora o nega quella degli altri. In Europa e negli Stati Uniti, osserva Said, Israele non è mai trattato come uno Stato ma piuttosto come «un’idea, una sorta di talismano» interiorizzato al fine di legittimare i peggiori soprusi in nome di alti princìpi morali. Decenni di occupazione militare, vessazioni e violenza appaiono così come l’autodifesa di uno Stato minacciato e la resistenza palestinese una manifestazione di odio antisemita…
Questa non è la “guerra di Netanyahu”, è il genocidio di Israele – Ahmad Ibsais (*)
La catastrofe a cui stiamo assistendo in Palestina non può essere attribuita ad un solo cattivo leader.
(*) Ahmad Ibsais è uno studente di giurisprudenza palestinese-statunitense di prima generazione. Questo suo lucido intervento, giustamente polemico nei confronti della sinistra del partito democratico statunitense (Sanders, un nome per tutti) che, concentrando le proprie critiche su Netanyahu, di fatto assolve e difende lo stato colonialista, razzista, di apartheid di Israele, e tutte le potenze occidentali che da sempre lo sostengono, ci è stato segnalato dalla compagna Maria Grazia G., ed è comparso qui
Il razzismo, l’estremismo e l’intento genocida che sono in mostra oggi a Gaza e in tutto il territorio palestinese occupato non possono e non devono essere attribuiti solo a Netanyahu.
Non biasimo Benjamin Netanyahu. Non biasimo il primo ministro israeliano per ciò che sta accadendo al mio popolo. Non lo biasimo oggi, quando le bombe israeliane distruggono ogni angolo di Gaza e i bambini muoiono sotto le macerie. Non lo biasimavo nemmeno nel 2013, quando dovevo guardare il massacro del mio popolo a Gaza al telegiornale della sera.
Mia madre non lo ha incolpato quando i cecchini appollaiati sui tetti le hanno sparato mentre cercava di andare al lavoro in Cisgiordania. Neanche mio nonno, che Dio riposi l’anima sua, lo ha incolpato perché è morto senza mai tornare nella terra rubatagli dai coloni negli anni ’80.
Per me, per la mia famiglia, per la mia gente, ciò a cui stiamo assistendo oggi in Palestina non è la “guerra di Netanyahu”. Non è la sua occupazione. Non è che un altro ingranaggio dell’implacabile macchina da guerra che è Israele.
Eppure, se chiedeste ai senatori Bernie Sanders o Elizabeth Warren, i presunti paladini dei diritti dei palestinesi e dell’umanitarismo progressista negli Stati Uniti, tutto ciò che ci è successo negli ultimi 75 anni, e che ci sta accadendo oggi, sarebbe la colpa di un uomo soltanto: Netanyahu.
Sanders chiama con insistenza l’attuale attacco israeliano a Gaza “la guerra di Netanyahu” e chiede che gli Stati Uniti “non diano a Netanyahu un altro centesimo”. Nel frattempo, la Warren denuncia “il fallimento della leadership di Netanyahu” e chiede un cessate il fuoco.
Per questi senatori progressisti, la causa di tutto il dolore e la sofferenza in Palestina è chiara: un primo ministro di estrema destra e aggressivo, determinato a portare avanti un conflitto che lo mantiene al potere.
Certo, Netanyahu è il male. Certo, ha commesso innumerevoli crimini contro i palestinesi e contro l’umanità, nel corso della sua lunga carriera. Certo, continua ad alimentare la carneficina di Gaza oggi, in parte per la sua stessa sopravvivenza politica. E dovrebbe essere ritenuto responsabile di tutto ciò che ha detto e fatto e che ha causato danno e dolore alla mia gente. Ma il razzismo, l’estremismo e l’intento genocida che si manifesta oggi a Gaza e in tutto il territorio palestinese occupato non possono e non devono essere attribuiti solo a Netanyahu.
Far cadere la colpa di palesi violazioni dei diritti umani da parte di Israele, del disprezzo del diritto internazionale e della aperta celebrazione dei crimini di guerra solo su Netanyahu non è altro che un meccanismo di reazione per liberali come Sanders e Warren.
Incolpando Netanyahu per la sofferenza e l’oppressione del popolo palestinese, passato e presente, mantengono viva la menzogna secondo cui Israele è stato costruito su ideali progressisti, piuttosto che sulla pulizia etnica.
Incolpando Netanyahu, nascondono il loro sostegno apparentemente incondizionato a uno Stato che commette palesemente crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Incolpando Netanyahu e descrivendo Israele come uno stato progressista e ben intenzionato che rispetta il diritto umanitario internazionale ma attualmente governato da un cattivo leader, stanno assolvendo se stessi – e gli Stati Uniti in generale – dalla complicità nei numerosi crimini di guerra di Israele.
Naturalmente, Sanders, Warren e tutti gli altri che sostengono questa linea sanno bene che il “conflitto” israelo-palestinese non scomparirebbe magicamente e i palestinesi non otterrebbero immediatamente la liberazione e la giustizia se Netanyahu se ne andasse.
Dopotutto, hanno visto uno scenario simile verificarsi negli Stati Uniti solo pochi anni fa. La gente diceva che se solo Trump fosse stato rimosso dalla Casa Bianca, i problemi che aveva alimentato e provocato sarebbero scomparsi. La democrazia americana sarebbe salva e tutto andrebbe bene.
Ma è successo? Sono passati quasi quattro anni dalla fine movimentata della presidenza Trump, ma possiamo ancora vedere il razzismo dilagante, la disuguaglianza, la violenza armata e la povertà in tutto il Paese.
Questi problemi non sono stati risolti magicamente dopo la presidenza Trump, perché non sono stati creati da Trump. Questi non sono mai stati problemi “di Trump”, ma americani. Inoltre, esiste una possibilità molto concreta che Trump ritorni alla Casa Bianca l’anno prossimo perché milioni di americani sostengono lui e la sua agenda.
Lo stesso vale per Netanyahu e Israele.
L’ipotesi che Netanyahu abbia tradito i fondamenti progressisti e democratici di Israele e abbia causato la “catastrofe umanitaria” a cui stiamo assistendo oggi a Gaza, ignora l’oppressione sistemica che è intrinseca ad Israele come insediamento di coloni.
Sanders e altri possono voler credere al mito sionista secondo cui Israele è un paese essenzialmente progressista con fondamenta socialiste, costruito su una “terra senza popolo” da un popolo senza terra. Ma non possono sfuggire al fatto che la Palestina non è mai stata una “terra senza popolo”. In effetti, la fondazione di Israele ha richiesto l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi indigeni da quella terra, e la sopravvivenza di Israele come “nazione ebraica”, come affermato nella sua Legge sullo Stato nazione, richiede la continua oppressione, privazione dei diritti civili e abusi sui palestinesi.
Oggi milioni di palestinesi continuano a vivere e morire sotto l’occupazione israeliana e, insieme ai cittadini palestinesi di Israele, sono soggetti a quello che viene ampiamente descritto come un sistema di apartheid.
Questa dinamica insostenibile e ingiusta non è una creazione di Netanyahu e del suo governo.
Fin dall’inizio, lo Stato di Israele ha legato la propria sopravvivenza a lungo termine alla pulizia etnica della Palestina, alla completa cancellazione dell’identità palestinese e all’oppressione dei palestinesi rimasti nelle loro terre. L’ex primo ministro israeliano Golda Meir scrisse in un editoriale del Washington Post che “Non esistono i palestinesi” nel 1969, decenni prima dell’inizio del regno di Netanyahu.
Certo, la sinistra israeliana promuove la propria situazione di vita comunitaria basata sull’agricoltura nei “kibbutzim” come un sogno socialista, e molti israeliani sono orgogliosi della “democrazia” del loro paese. Ma tutto questo è vero solo se si ignora l’umanità dei palestinesi che sono stati sottoposti a pulizia etnica dalle loro terre per far posto ai kibbutz socialisti, e che non possono partecipare alla democrazia israeliana nonostante vivano sotto il pieno controllo israeliano in territori illegalmente occupati.
Prima dell’inizio del genocidio a Gaza, gli israeliani hanno protestato in massa per mesi contro quello che consideravano un attacco al sistema legale e alla democrazia del paese da parte di Netanyahu. Eppure non hanno mai protestato in tale numero e con tale forza contro l’occupazione, l’omicidio e la brutalizzazione dei palestinesi da parte del loro stesso Stato e delle forze armate.
A novembre, un mese intero dall’inizio del genocidio, solo l’1,8% degli israeliani ha affermato di ritenere che l’esercito israeliano stesse usando troppa potenza di fuoco a Gaza, e ora, a cinque mesi dall’inizio del genocidio, circa il 40 % degli israeliani afferma di voler vedere una rinascita degli insediamenti ebraici a Gaza.
Sembra che le immagini di migliaia di palestinesi morti e mutilati non significhino molto per gli israeliani. Non si commuovono davanti ai video dei padri che trasportano i resti dei loro figli in sacchetti di plastica, o delle madri che piangono sui corpi insanguinati dei loro bambini assassinati. A loro non importa dei bambini affamati bloccati sotto le macerie, o dei bambini piccoli che vengono avvelenati dal mangime per uccelli che sono costretti a mangiare in una carestia provocata dall’uomo. Non sono semplicemente indifferenti alle sofferenze che i loro militari infliggono agli innocenti: migliaia di loro protestano addirittura ai cancelli di confine per garantire che nessun aiuto raggiunga i palestinesi sull’orlo della fame.
Molti di questi sono gli stessi israeliani che sono scesi in piazza meno di un anno fa per protestare contro il cosiddetto attacco di Netanyahu alla loro democrazia.
Quindi no: ciò a cui stiamo assistendo oggi in Palestina non è la “guerra di Netanyahu” come sostengono con insistenza Sanders e Warren. Questo conflitto, questo genocidio, non è iniziato con l’ascesa al potere di Netanyahu e non finirà con la sua inevitabile caduta in disgrazia.
I coloni iniziarono a rubare le terre, le case e le vite dei palestinesi molto prima che Netanyahu diventasse rilevante nella politica israeliana. I palestinesi sono rinchiusi in prigioni a cielo aperto da molto prima che lui diventasse primo ministro. L’esercito israeliano non ha iniziato ad abusare, molestare, mutilare e uccidere i palestinesi quando Netanyahu è diventato il loro comandante.
Il problema non è Netanyahu o qualsiasi altro politico o generale israeliano.
Il problema è l’occupazione da parte di Israele. Il problema è la colonizzazione di insediamento, la cui stessa sicurezza e vitalità a lungo termine dipendono da un sistema di apartheid e dall’occupazione senza fine, dall’oppressione e dall’uccisione di massa di una popolazione indigena.
Questa non è la guerra di Netanyahu, è il genocidio di Israele.
Analisi lucidissima che si cerca di “contrastare” non con argomentazioni, ma con il Vade Retro dell’ Antisemitismo.
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