Credo sia necessario, quando ci si interroga sul sindacalismo di base oggi,
tenere presente il fatto che si tratta di un assieme di organizzazioni, di
militanti, di lavoratrici e lavoratori che esiste ormai dall’inizio degli anni
’90 e di una vicenda per molti versi complicata.
Ovviamente il sindacalismo di base non sorge dal nulla, già negli anni
precedenti vi erano alcune organizzazioni sindacali alla sinistra dei sindacati
istituzionali e, soprattutto, vi sono stati negli anni ’80 importanti movimenti
di massa fuori dal controllo di questi sindacati nella scuola, nei trasporti,
nella sanità; ma un’ipotesi consistente di sindacalismo alternativo data,
appunto, dall’inizio degli anni ’90.
È bene domandarsi quali siano le condizioni sociali e politiche che
determinano questa situazione.
In primo luogo si deve partire da quello che è stato definito la fine del
compromesso socialdemocratico e cioè dall’assieme di privatizzazioni, taglio
dei servizi e quindi del salario indiretto, taglio delle pensioni,
accrescimento del peso del lavoro precario.
Questa deriva rendeva credibile l’ipotesi che l’offensiva del capitale
avrebbe provocato una ripresa della lotta di classe a livello delle condizioni
che le lavoratrici e i lavoratori vivevano. Nei fatti la crisi del capitale ha
determinato, a livello planetario, risposte che hanno, quanto meno, spostato in
avanti le contraddizioni rendendole, nello stesso tempo, più radicali come
rileva Riccardo Bellofiore in “La caduta del saggio di profitto in Paul
Mattick” (1).
In secondo luogo la scelta dei sindacati istituzionali di accettare lo
scambio fra peggioramento delle condizioni della classe e salvaguardia del loro
diritto di gestire la contrattazione e dei finanziamenti che ricevevano, e
ricevono, dal padronato e dal governo suscitava tensioni fra i lavoratori, i
militanti sindacali, parte degli stessi gruppi dirigenti, culminate con la
cosiddetta “settimana dei bulloni” (2).
Di conseguenza, in realtà, entrambe le ipotesi si sono realizzate in
misura, a essere generosi, decisamente limitata. Di fronte alla pesantezza
dell’offensiva capitalistica e alla necessità per ribaltare la situazione di un
livello di scontro di straordinaria radicalità, la reazione della classe in
particolare in Italia è stata, anche nei momenti più alti, come gli scioperi
contro la riforma delle pensioni, assolutamente limitata e difensiva.
Per certi versi si potrebbe sostenere che il livello di integrazione
sociale della classe ne aveva frenato la capacità di iniziativa autonoma.
Per quel che riguarda il quadro politico sindacale è sin evidente che la
costruzione di un vero e proprio sindacato richiedeva una massa critica di
militanti, quadri, organizzatori, dotati di esperienza e fortemente radicati
nei posti di lavoro.
Ed è proprio dopo la settimana dei bulloni che questa condizione non si
realizza.
La gran parte dei militanti radicati nei posti di lavoro e, in particolare,
nelle fabbriche aderisce alla FIOM CGIL, molti vengono dall’esperienza dei
gruppi della nuova sinistra e dei movimenti e delle lotte degli anni ’70, sono
soggettivamente radicali e fortemente ostili alle scelte della burocrazia
sindacale e lo hanno dimostrato con la dura contestazione alle loro dirigenze.
Nello stesso tempo l’ipotesi di una rottura organizzativa con le organizzazioni
a cui appartengono, in particolare alla FIOM CGIL non li convince.
Si tratta di un’attitudine comprensibile, una cosa è fare una battaglia
politica contro le decisioni del proprio gruppo dirigente, un’altra è costruire
un’organizzazione, un’impresa complessa e piena di difficoltà a cui, con ogni
evidenza non si sentono attrezzati.
Per di più, di regola, i militanti della sinistra CGIL si sono formati in
una cultura politica che prevede una divisione fra:
sfera sindacale in cui centrale è l’unità sindacale ed è normale il dare
per scontato che il sindacato tende alla mediazione;
sfera politica in cui le posizioni radicali, laddove vi siano, sono
appannaggio dei gruppi della sinistra, appunto, radicale.
D’altro canto, anche ma non principalmente a causa della scelta di molti
militanti di aderire al sindacalismo di base, nei decenni seguenti la sinistra
CGIL si ridurrà a un ruolo marginale schiacciata da un apparato solido e, per
un verso, impermeabile alle pressioni della base e capace, all’occorrenza, di
svolte “estremiste” tali da recuperare lo scontento di settori di lavoratori
che pure, a più riprese, emerge.
Una riprova a contrario di quanto affermo è che l’unica esperienza di
rottura organizzativa consistente con il sindacalismo istituzionale si dà nella
FIM CISL milanese e lombarda che in larga parte era uscita dall’organizzazione
a cui apparteneva dando vita alla FLMUniti che sarà uno dei principali gruppi
che fonderanno la Confederazione Unitaria di Base.
Vi è nella scelta del gruppo che da vita a FLMUniti un mix di continuità e
discontinuità della sua cultura politica, per un verso il coraggio di fare una
scelta difficile che io stesso, poco prima, ritenevo improbabile e, per
l’altro, il riferimento a una visione del sindacato come soggetto autonomo
assente o debole nella sinistra CGIL.
Con la CUB si ha un tentativo di creare un sindacato caratterizzato da una
forte e rivendicata autonomia dal padronato e dal governo, il che se vogliamo è
ovvio, ma anche dai partiti e, in genere, dai soggetti politici che si vogliono
espressione del movimento operaio.
In concreto un modo di proporsi volto a favorire un’aggregazione larga,
cosa che, entro certi limiti, si dà ma che comporterà negli anni tensioni
interne, in particolare fra l’area di provenienza FIM e quella delle
Rappresentanze Sindacali di Base, un sindacato preesistente alla CUB, che
porteranno in seguito all’uscita di RdB dalla CUB e alla nascita di USB.
D’altro canto, il fatto che non vi sia UN sindacato alternativo talmente
forte e radicato da determinare una deriva centripeta favorisce la scelta di
altri gruppi di militanti di creare organizzazioni caratterizzate da ipotesi
politiche e sindacali diverse.
Ricostruire una vicenda decennale di nascita di nuovi soggetti, scissioni e
aggregazioni eccede l’intento di questo testo.
Basta rilevare che l’esistenza, a seconda dei periodi, di tre o quattro
sindacati di una qualche consistenza e di una piccola galassia di
organizzazioni a base locale o, comunque, di dimensioni modestissime è un
fattore di debolezza sul terreno propriamente sindacale che peserà sulla
credibilità dell’intero sindacalismo di base.
Torniamo alle domande poste in premessa.
In primo luogo non vi è stato alcun ciclo di lotte di dimensioni e durata
tale da mettere in crisi, per un verso, il padronato e il governo e, per
l’altro, l’apparato dei sindacati istituzionali.
Certamente vi sono state mobilitazioni importanti ma su singoli temi o di
singole categorie e, in particolare, nell’industria raramente si è andati, e si
va, oltre le lotte di difesa degli operai delle aziende in crisi.
Basta pensare alle importanti mobilitazioni delle lavoratrici e dei
lavoratori della scuola, alle prime lotte dei driver, a quelle dei lavoratori
in gran parte immigrati della logistica ma, con la parziale eccezione della
logistica in cui si sviluppa il SI Cobas e, in misura minore, anche AdL Cobas,
CUB e USB, non hanno avuto un impatto tale da ottenere vittorie importanti e da
favorire lo sviluppo del sindacalismo di base.
Di conseguenza, mentre la generazione militante formatasi negli anni ’70 è
andata in gran parte in pensione, non si è formata in misura adeguata una nuova
generazione militante.
Ovviamente non mancano giovani compagne e compagni spesso capaci e generosi
ma, per non dilungarci, limitiamoci a rilevare che non bastano.
Per chiudere su questi punti, ritengo che un giudizio liquidatorio sia
sbagliato e ingeneroso. Ha svolto un ruolo importante in diverse lotte
altrettanto importanti, ha condotto iniziative significative in rapporto con
importanti movimenti sociali quali quello NO TAV, Non Una di Meno, contro la
spesa militare ecc.. Soprattutto ha mantenuto un rapporto vivo con settori
della nostra classe, il problema è che, con ogni evidenza, ciò non basta e che
o si troveranno nuove ed efficaci modalità di azione e di organizzazione, o il
rischio è la routine.
Provo adesso ad aggiungere alcune schematiche considerazioni su uno
specifico problema che molte compagne e molti compagni si pongono e pongono e
cioè su in che misura il sindacalismo di base sia effettivamente di base.
Una serie di fatti è assolutamente evidente e proverò a riassumerli in una
forma, per certi versi, brutale e persino eccessiva:
1. i militanti del sindacalismo alternativo, di norma, non hanno affatto
elaborato un’identità comparabile a quella dei sindacalisti d’azione diretta
dell’inizio del secolo scorso, in particolare per quel che riguarda la critica
del parlamentarismo e del ceto politico. Si potrebbe far rilevare che lo stesso
sindacalismo d’azione diretta era, da questo punto di vista, contraddittorio ma
è bene tener presente che la visione generale della questione sociale che
caratterizza la parte più consistente dei “sindacalisti alternativi” è, al
massimo, welfarista radicale e che la rottura con i sindacati istituzionali
verte principalmente sul fatto che questi ultimi sono completamente subalterni
alle politiche statali e padronali;
2. le organizzazioni sindacali alternative che hanno tenuto bene e sono
cresciute si caratterizzano per la presenza di un numero, certo limitato in
assoluto e in proporzione rispetto ai sindacati istituzionali, ma discreto, di
funzionari e distaccati. Vi è, in altri termini, una piccola ma consolidata
burocrazia che si è stabilizzata e consolidata nel tempo. Uso, in questo caso,
il termine burocrazia non in un’accezione polemica, ma per indicare un dato di
fatto e un gruppo sociale i cui membri possono essere persone di grande onestà
e capacità di lavoro, ma che hanno, inevitabilmente, un modo di affrontare i
problemi che parte, in primo luogo, dalla necessità di crescita organizzativa;
3. la stessa attività quotidiana di tutela individuale e collettiva che i
sindacati alternativi garantiscono non potrebbe esservi senza questo piccolo
apparato. I lavoratori che si organizzano con un sindacato, con qualsiasi
sindacato, si attendono, almeno, la tutela legale, la consulenza sul salario,
le tasse, la previdenza, la malattia ecc. e questo lavoro, superata una certa
consistenza, richiede competenze specialistiche e una disponibilità di tempo
che non è facile richiedere a militanti che spendono la loro giornata in
produzione. Naturalmente quanto dico non esclude che molta di questa attività
possa essere garantita da lavoratori e delegati aziendali ma il volontariato in
primo luogo deve esserci e deve caratterizzarsi per una certa competenza e, in
secondo luogo, ha dei limiti;
4. l’apparato tende a controllare l’organizzazione che lo ha prodotto. I
suoi membri possono dedicarsi a tempo pieno al lavoro sindacale, conoscono la
situazione, sono in relazione con i collettivi aziendali, possono orientare la
discussione e le decisioni, posseggono informazioni che non sono a disposizione
degli iscritti, che per la verità non sono di regola nemmeno interessati ad
averle, e dei militanti.
Ovviamente non intendo sostenere che “questa è la realtà e che c’è poco da
fare”, al contrario credo che su quest’ordine di questioni vada avviato una
riflessione e un’inchiesta a partire dalla nostra concreta esperienza e che
proprio Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe debba e possa promuovere
questa riflessione e questa inchiesta.
Note
(1) La risposta del capitale alla crisi
degli anni Settanta si è mossa su due gambe. Da un lato, la frantumazione del
lavoro, cioè la precarizzazione nel mercato e nel processo di lavoro, la
concorrenza aggressiva dei global player che determina sovra-capacità, la
centralizzazione senza concentrazione, il trasformarsi della struttura
produttiva verso un capitalismo di imprese modulari articolate in rete. È un
mondo di catene transnazionali della produzione, di delocalizzazioni e
in-house-outsourcing, di lavoro migrante e sempre più «femminile».
Dall’altro lato, abbiamo la
finanziarizzazione. Favorita dalla globalizzazione dei capitali e dai cambi
flessibili, e dalla conseguente incertezza, il rinnovato primato della finanza
ha preso la forma di un money manager capitalism, di un «capitalismo dei
fondi», che ha fatto esplodere il debito privato, e in particolare il debito al
consumo, grazie a una inflazione dei prezzi delle attività finanziarie…. Questa
nuova finanziarizzazione altro non è che una autentica «sussunzione reale del
lavoro alla finanza» (ai mercati finanziari e alle banche). Essa non solo ha
incluso le «famiglie» in modo subalterno. Essa ha anche, da un lato, accelerato
la decostruzione del lavoro per mille vie, incidendo potentemente sui processi
capitalistici di lavoro, dall’altro stimolato una domanda effettiva manovrata
politicamente. Una sorta di paradossale «keynesismo privatizzato» di natura
finanziaria.
Il capitale fittizio ha avuto
conseguenze tutto meno che fittizie. Ha approfondito lo sfruttamento nei luoghi
di lavoro, con una simbiosi di estrazione di plusvalore relativo e assoluto; e
ha creato le condizioni della sua realizzazione sul mercato. Un mondo che non è
compreso dallo stagnazionismo sottoconsumistico, o dalla caduta del saggio del
profitto nei suoi termini tradizionali. La crisi possibile è stata a lungo
posposta grazie a politiche monetarie di grande attivismo (la banca centrale
come prestatrice «di prima istanza»), che hanno innescato a ripetizione bolle
speculative nei mercati finanziari o sugli immobili. La crescita del valore
delle «attività» ha spinto verso l’alto la domanda interna nell’area del
capitalismo anglosassone grazie al consumo indebitato, consentendo ad altre
aree di praticare politiche «neo-mercantiliste», cioè di crescere grazie al traino
delle esportazioni nette. Il mondo del lavoro è stato ovunque consegnato
all’insicurezza, su di lui si sono scaricati rischi e margini di aggiustamento.
Un meccanismo dall’instabilità repressa, e un capitalismo insostenibile, in cui
è riemersa in forme nuove e violente la tendenza alla crisi sistemica del
capitale.
A ben vedere, prima inclusi dal
neoliberismo e poi messi a rischio dalla sua crisi, sono stati, e sono, non
soltanto il consumo e il risparmio. Sono stati anche, e sono, in un elenco
tutto meno che esaustivo, abitazioni, istruzione, pensioni, sanità, lavoro di
cura. Prosegue intanto l’abbattimento del salario e la dilatazione del tempo di
lavoro, l’aggressione al corpo e alla vita dei lavoratori e delle lavoratrici,
sino alla spoliazione della stessa natura. In una parola, in gioco sono ormai
le condizioni di esistenza e riproduzione degli esseri umani nella loro
integralità…..
(2) A settembre 1992 Amato torna
all’attacco con una finanziaria da 93mila miliardi di lire e un pesante attacco
alle pensioni. Nelle piazze i lavoratori esprimono la loro rabbia contro Amato,
ma anche contro l’accordo di luglio.
Trentin viene pesantemente contestato a
Firenze, il 23 è il turno della UIL a Milano, il 24 della CISL a Napoli. È
impossibile concludere i comizi: fischi e grida prevalgono, dalla folla piovono
bulloni. La contestazione assume una tale portata che la stampa battezza quel
periodo “la stagione dei bulloni”. I dirigenti sindacali parlano protetti dal
servizio d’ordine munito di scudi di plexiglass. Stampa e mass-media, insieme
ai vertici sindacali e ai dirigenti del Partito Democratico della Sinistra,
promuovono una campagna che definisce i contestatori un manipolo di
provocatori. L’Unità del 23 settembre titola “L’autonomia assalta Trentin, ma
150mila lo applaudono”. La realtà è che i lavoratori non solo tollerano chi
lancia i bulloni, ma fanno di tutto per impedire ai dirigenti di concludere i
comizi a suon di fischi. L’onda di contestazioni cresce di giorno in giorno,
per tentare di arginarla e recuperare un minimo di credibilità viene convocato
uno sciopero nazionale di 4 ore per il 13 ottobre. La storia si ripete, gli
scioperi sono ancora più partecipati: Milano 150mila, 100mila a Bologna e
Napoli, ancora contestazioni.
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