Appello di 14 scienziati per salvare il servizio sanitario nazionale (pubblico)
“Dal 1978, data della sua fondazione, al 2019 il Ssn in Italia ha contribuito a produrre il più marcato incremento dell’aspettativa di vita (da 73,8 a 83,6 anni) tra i Paesi ad alto reddito. Ma oggi i dati dimostrano che il sistema è in crisi: arretramento di alcuni indicatoridi salute, difficoltà crescente di accesso ai percorsi di diagnosi ecura, aumento delle diseguaglianze regionali e sociali. Questo accade perché i costi dell’evoluzione tecnologica, i radicali mutamenti epidemiologici e demografici e le difficoltà della finanza pubblica, hanno reso fortemente sottofinanziato il Ssn,
al quale nel2025 sarà destinato il 6,2% del Pil (meno di vent’anni fa).
Il pubblico garantisce ancora a tutti una quota di attività (urgenza, ricoveri
per acuzie), mentre per il resto (visite specialistiche, diagnostica, piccola
chirurgia) il pubblico arretra, e i cittadini sono costretti a rinviare
gliinterventi o indotti a ricorrere al privato. La spesa sanitaria in Italia
non è grado di assicurare compiutamente il rispetto dei Livelli Essenziali di
Assistenza (Lea) e l’autonomia differenziata rischia di ampliare il divario tra
Nord e Sud d’Italia in termini di diritto alla alute.
È dunque necessario un piano straordinario di finanziamento del Ssn e
specifiche risorse devono essere destinate a rimuovere gli squilibri territoriali.
La allocazione di risorse deve essere accompagnata da efficienza nel loro
utilizzo e appropriatezza nell’uso a livello diagnostico e terapeutico, in
quanto fondamentali per la sostenibilità del sistema”, prosegue l’appello.
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Parte delle nuove risorse deve essere impiegata per intervenire in profondità
sull’edilizia sanitaria, in un Paese dove due ospedali su tre hanno più di 50
anni, e uno su tre è stato costruito prima del 1940. Ma il grande patrimonio
del Ssn è il suo personale: una sofisticata apparecchiatura si installa in un
paio d’anni, ma molti di più ne occorrono per disporre di professionisti
sanitari competenti, che continuano a formarsi e aggiornarsi lungo tutta la
vita lavorativa. Nell’attuale scenario di crisi del sistema, e di fronte a
cittadini/pazienti sempre più insoddisfatti, è inevitabile che gli operatori
siano sottoposti a una pressione insostenibile che si traduce in una fuga dal
pubblico, soprattutto dai luoghi di maggior tensione, come l’area dell’urgenza.
È evidente che le retribuzioni debbano essere adeguate, ma è indispensabile affrontare
temi come la valorizzazione degli operatori, la loro tutela e la garanzia di condizioni
di lavoro sostenibili” si legge ancora. “Da decenni si parla di continuità assistenziale
(ospedale-territorio-domicilio e viceversa), ma i progressi in questa direzione
sono timidi. Oggi il problema non è più procrastinabile: tra 25 anni quasi due
italiani su cinque avranno più di 65 anni (molti di loro affetti da almeno una
patologia cronica) e il sistema, già oggi in grave difficoltà, non sarà in
grado di assisterli.
La spesa per la prevenzione in Italia è da sempre al di sotto di quanto
programmato, il che spiega in parte gli insufficienti tassi di adesione ai
programmi di screening oncologico che si registrano in quasi tutta Italia. Ma
ancora più evidente è il divario riguardante la prevenzione primaria; basta un
dato: abbiamo una delle percentuali più alte in Europa di bambini sovrappeso o
addirittura obesi, e questo è legato sia a un cambiamento – preoccupante –delle
abitudini alimentari sia alla scarsa propensione degli italiani all’attività
fisica. Molto va investito, in modo strategico, nella cultura della prevenzione
(individuale e collettiva) e nella consapevolezza delle opportunità ma anche
dei limiti della medicina moderna. Molto, quindi, si può e si deve fare sul
piano organizzativo, ma la vera emergenza è adeguare il finanziamento del Ssn
agli standard dei Paesi europei avanzati (8% del Pil), ed è urgente e indispensabile,
perché un Ssn che funziona non solo tutela la salute ma contribuisce anche alla
coesione sociale”,
Firmano il documento Ottavio Davini, Enrico Alleva, Luca De Fiore, Paola Di
Giulio, Nerina Dirindin, Silvio Garattini, Franco Locatelli, Francesco Longo,
Lucio Luzzatto, Alberto Mantovani, Giorgio Parisi, Carlo Patrono, Francesco
Perrone e Paolo Vineis
La sanità è solo
per i ricchi? “Non ancora, ma non vorremmo lo diventasse” - Carlotta Di Santo
La sanità oggi è solo per ricchi? Non
ancora, ma questo è il motivo per il quale siamo preoccupati. Non vorremmo che
lo diventasse. Ci sono dei segnali di scricchiolio del Servizio
sanitario nazionale pubblico che vanno compresi, recepiti e che
chiedono di avere delle politiche di reazione. Fare la manutenzione è
assolutamente fondamentale per mantenere funzionante ed efficiente il SSN
pubblico. Quello che noi vogliamo sottolineare con il Manifesto è che la sanità
è una grande ricchezza dell’Italia e che si deve lavorare per fare
manutenzione. Così il presidente dell’Associazione Italiana Oncologia Medica
(AIOM), Francesco Perrone, interpellato dalla Dire in merito al manifesto ‘Non
possiamo fare a meno del servizio sanitario pubblico’, firmato da 14
scienziati di livello internazionale, tra cui Perrone stesso e il premio
Nobel Giorgio Parisi, rilanciato oggi dai media nazionali. Ma siamo ancora in tempo
per salvare il SSN? “Certamente- risponde Perrone- noi riteniamo di essere
ancora in tempo, altrimenti non avremmo fatto un appello, che vuole essere
costruttivo. Siamo tutti convinti che, pur nella necessità di fare scelte
coraggiose, vi sia assolutamente lo spazio per riavvicinare l’Italia ai Paesi
dell’Europa occidentale, che investono molto di più. Dobbiamo essere coscienti
che si tratta di investimenti e non di costi“. Lanciare un appello
e chiedere che si faccia una riflessione, dunque, viene fatto nell’ottica di
“dare un contributo, di spingere chi in qualche modo ha la possibilità di
modificare le politiche. Vale per questo governo, vale per il prossimo, ma vale
anche per quello che non hanno fatto i governi precedenti”. Il messaggio,
dunque, è capire che la sanità e gli investimenti nel Servizio sanitario
nazionale rappresentano una “ricchezza di tutti quanti”.
Come ha detto Silvio Garattini (anche lui firmatario della manifesto, ndr)
in una intervista, in Italia “alla fine i soldi si trovano per un sacco di
cose, ma purtroppo per quello che riguarda la manutenzione del SSN siamo sempre
un po’ indietro- prosegue Perrone- non tanto come numeri assoluti, perché il
governo sicuramente ha messo più soldi rispetto agli anni precedenti, quanto
piuttosto per il fatto che nel frattempo il potere d’acquisto dei soldi
è diminuito. Ed è questo il motivo per cui ci siamo concentrati su una
unità di misura che è la percentuale del PIL investito nella sanità. L’Italia
da questo punto di vista rispetto all’Europa è indietro, lo dimostrano i
numeri, non è colpa di nessuno ma del fatto che negli ultimi venti anni non
abbiamo sufficientemente capito che bisogna investire molto di più in
questo settore“.
Secondo Perrone, è allora necessario fare scelte che “vadano oltre la
legislatura, oltre il tempo di un governo e oltre il tempo di un ministro.
Bisogna fare delle scelte che garantiscano la salute delle generazioni future”.
Ma il manifesto ha sottintesa anche la preoccupazione attuale per le fasce di
popolazione con redditi medio-bassi, che dovranno inevitabilmente iniziare a
sostenere dei costi per essere curati? Si può prospettare uno scenario in cui
le persone meno abbienti saranno anche le più malate? “La difficoltà
socio-economica, storicamente, dappertutto e non solo in Italia si accompagna
anche a condizioni di salute peggiori e ad un maggiore rischio di malattia-
risponde Perrone alla Dire- per quello che riguarda il cancro, AIOM ogni anno
pubblica una monografia, ‘I numeri del cancro’, e da questa emerge che c’è una
convergenza di cattivi stili di vita, di scarsa propensione allo screening con
anche condizioni di disagio socio-economico maggiore. E tutto questo
chiaramente fa un cocktail che inevitabilmente va a colpire di più alcune fasce
della popolazione”.
Secondo Perrone è “semplicemente l’analisi di un fenomeno che è in
contrasto per certi versi con quello che è il dettato dell’articolo 32 della
Costituzione, cioè l’Italia è un Paese nel quale la possibilità di accesso al
Ssn deve essere uguale per tutti. La differenza tra ricchi e poveri, nel mio
modo di vedere e in quello di molte persone, sarà il fatto che si pagano tasse
in maniera differenziata a seconda della propria ricchezza, ma una
volta che un cittadino contribuisce al mantenimento della macchina dello Stato in
misura proporzionale a quella della sua capacità di reddito, dopo la
garanzia della salute deve essere uguale per tutti”
“Il Servizio Sanitario Nazionale rischia di morire”. Intervista con Nino
Cartabellotta (di Roberto Bertoni)
Nino Cartabellotta, presidente del GIMBE, lancia un allarme accorato e
suffragato da dati incontrovertibili sui rischi che corre il Servizio Sanitario
Nazionale in questepoca5 di tagli, autonomia differenziata e altre misure volte
ad accrescere le disuguaglianze anziché ridurle.
Il rischio è la privatizzazione, di fatto già in corso, di un bene
primario, previsto dalla Costituzione ed essenziale per la tutela dei diritti
individuali e collettivi. Se dovesse venir meno il Servizio Sanitario
Nazionale, verrebbe di fatto meno un cardine della Costituzione. Uno dei tanti
che sono a repentaglio in questa tristissima stagione.
Premi Nobel e scienziati hanno lanciato un allarme relativo alla sanità
pubblica, ormai talmente in difficoltà da star uscendo dagli standard europei.
Durante il Covid si era detto che la sanità fosse un bene comune, medici e
infermieri venivano considerati eroi. Perché non appena si è allentata
l’emergenza, anziché far tesoro di un’esperienza così drammatica, si è
addirittura tornati indietro?
Nel pieno dell’emergenza tutte le forze politiche osannavano il valore
della sanità pubblica, celebravano come eroi medici, infermieri e tutti i
professionisti della sanità. Ma soprattutto convergevano sulla necessità di
rilanciare un Servizio Sanitario Nazionale (SSN) che la pandemia ha trovato
profondamente indebolito. Tuttavia, passata l’emergenza, la sanità è “rientrata
nei ranghi”, ovvero è stata relegata dai Governi degli ultimi vent’anni:
governi di “tutti i colori”, che hanno sempre considerato la spesa sanitaria
come un costo e mai come un investimento, attingendovi a piene mani per
soddisfare le esigenze del proprio elettorato o per risanare i conti pubblici.
Di conseguenza, se nel 2010 la spesa sanitaria pubblica pro-capite era pari
alla media dei paesi europei, nel 2022 l’Italia ha speso circa € 47,3 miliardi
in meno. E dal 2010 al 2022 il gap complessivo ha superato la cifra di € 330
miliardi Riguardo al fabbisogno sanitario nazionale (FSN), ogni anno è sempre
aumentato in termini assoluti e sempre aumenterà: per questo ogni governo in
carica potrà sempre affermare di aver messo più risorse di chi lo ha preceduto.
Nel 2024 la Legge di Bilancio ha aumentato il FSN di ben € 3 miliardi, ma oltre
€ 2.400 milioni sono destinati all’improcrastinabile rinnovo dei contratti per
il personale sanitario. E, soprattutto, per gli anni successivi la Manovra non
sancisce alcun rilancio progressivo del finanziamento pubblico per la sanità:
perfettamente in linea con la Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e
Finanza del settembre 2023, dove il rapporto spesa sanitaria/PIL precipita dal
6,6% del 2023 al 6,1% del 2026.
Quali sono le principali carenze del Servizio Sanitario Nazionale?
Con un simile livello di definanziamento è evidente che il SSN si è
innanzitutto profondamente indebolito nella sua componente strutturale
(ospedali e strutture vetuste, non in regola con norme antisismiche e
antincendio), tecnologiche (“parco macchine” inadeguato e distante anni luce
dalle innovazioni più recenti), organizzativa e soprattutto professionale. È
stato, infatti, il personale sanitario a scontare più di tutti l’imponente
definanziamento, complice il tetto di spesa per la spesa del personale che fa
ormai riferimento a parametri del 2004. Ma ovviamente non è solo questione di
soldi, perché di fatto, a fronte di varie transizioni (epidemiologica,
demografica, tecnologica, digitale), negli ultimi 25 non c’è stata alcuna
riforma del SSN e il finanziamento, i criteri di riparto del FSN,
l’organizzazione dei servizi sanitari, i sistemi premianti e tanto altro ancora
seguono regole definite da riforme che risalgono ad oltre un quarto di secolo
fa. Dopo un lento e silenzioso sgretolamento del SSN, dunque, oggi tutti i nodi
sono venuti al pettine e la vita quotidiana delle persone, in particolare
quelle meno abbienti, è sempre più condizionata dalla mancata esigibilità del
diritto fondamentale alla tutela della salute: interminabili tempi di attesa
per una prestazione sanitaria o una visita specialistica, necessità di pagare
di tasca propria le spese per la salute sino all’impoverimento e alla rinuncia alle
cure, pronto soccorso affollatissimi, impossibilità di trovare un medico o un
pediatra di famiglia vicino casa, enormi diseguaglianze regionali e locali sino
alla migrazione sanitaria.
Un altro argomento delicatissimo è quello relativo ai Livelli Essenziali
d’Assistenza (LEA). Quali conseguenze potrebbe avere, a tal riguardo,
l’autonomia differenziata?
Il nostro SSN è ormai profondamente indebolito e segnato da inaccettabili
diseguaglianze regionali. Nel 2021, su quattordici Regioni adempienti ai Livelli
Essenziali di Assistenza – le prestazioni che il SSN è tenuto a fornire a tutti
i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento del ticket – solo tre sono del
Sud (Abruzzo, Puglia e Basilicata) e tutte a fondo classifica. Non solo: la
fuga per curarsi al Nord vale € 4,25 miliardi, un fiume di denaro che scorre
prevalentemente da Sud a Nord. E l’attuazione delle maggiori autonomie in
sanità legittimerà normativamente la “frattura strutturale” Nord-Sud: il
Mezzogiorno sarà sempre più dipendente dalla sanità del Nord, compromettendo
l’uguaglianza dei cittadini nell’esercizio del diritto costituzionale alla
tutela della salute. Ecco perché la Fondazione GIMBE, in audizione alla 1a
Commissione Affari Costituzionali del Senato prima e della Camera poi, ha chiesto
di espungere la tutela della salute dalle materie su cui le Regioni possono
chiedere maggiori autonomie.
Lei si è occupato, in un recente articolo sulla Stampa, dei poveri che non
possono curarsi. Chiara Saraceno ha parlato di coesione sociale mai così a rischio.
Ci spieghi nello specifico, specie alla luce dei dati relativi
all’indebitamento dei ceti sociali meno abbienti per accedere alle cure.
L’indebolimento del SSN e le conseguenti minori tutele pubbliche hanno un
rilevante impatto economico sulle famiglie, in particolare quelle meno abbienti
e residenti nel Mezzogiorno. Questo genera un effetto disastroso sulla crescita
economica del Paese perché se le famiglie si impoveriscono, si indebitano o
rinunciano a curarsi e crolla il livello di salute della popolazione, che è
strettamente correlato alla crescita del PIL: perché chi è malato non produce,
non consuma e, spesso, limita anche l’attività lavorativa dei propri familiari.
E ovviamente erode spesa pubblica, sanitaria e socio-sanitaria. Ecco perché la
perdita del nostro SSN, che dobbiamo assolutamente scongiurare, porterebbe ad
un disastro sanitario, economico e sociale senza precedenti.
Qual è e quale sarà, in futuro, l’impegno del GIMBE, di cui lei è
presidente, per far fronte a questa drammatica situazione?
Dal 2013 la nostra organizzazione indipendente ha un’ambiziosa mission:
salvare il Servizio Sanitario Nazionale. Crediamo infatti fermamente che, per
quanto vicini al punto di non ritorno, sia ancora possibile non solo salvare,
ma anche rilanciare il SSN. E a undici anni dall’avvio della campagna #SalviamoSSN, abbiamo lanciato
una rete civica nazionale: riteniamo indispensabile diffondere a
tutti i livelli il valore del SSN, come pilastro della nostra democrazia,
strumento di equità e giustizia sociale, oltre che leva di sviluppo economico.
L’obiettivo è coinvolgere sempre più persone nella tutela e nel rilancio del
SSN nonché promuovere un utilizzo informato di servizi e prestazioni sanitarie,
al fine di arginare fenomeni consumistici. Perché, al di là delle difficoltà di
accesso ai servizi, la maggior parte delle persone non ha ancora contezza del
rischio incombente: quello di scivolare lentamente ma inesorabilmente, in
assenza di una rapida inversione di rotta, da un SSN fondato su princìpi di
universalità, uguaglianza ed equità per tutelare un diritto costituzionale a
ventuno sistemi sanitari regionali basati sulle regole del libero mercato.
Mancano medici e infermieri, al punto che alcune regioni li stanno
importando da paesi stranieri e addirittura extra-europei. Come valuta
l’ipotesi di abolire il numero chiuso a Medicina?
In termini assoluti, secondo i dati OCSE 2021, non c’è una carenza di
medici in Italia. La realtà è invece ben diversa: sia perché l’OCSE include
tutti i medici dalla laurea alla pensione sia perché l’emergenza COVID-19 ha
slatentizzato una crisi motivazionale che oggi determina licenziamenti
volontari e pensionamenti anticipati, con fughe verso il privato o per
l’estero, oltre che lo spopolamento di alcuni corsi di laurea (es. scienze
infermieristiche) e specialità mediche (es. emergenza-urgenza). Ovvero, oggi
mancano medici in varie specialità oltre che medici di famiglia.
Riguardo la mera abolizione del “numero chiuso” – in realtà “numero
programmato” – oltre a ridurre la qualità della formazione universitaria,
aumenterebbe solo il numero di laureati e non la forza lavoro per il SSN. Con il
rischio ulteriore che le nuove leve si trasferiscano all’estero o scelgano di
lavorare nella sanità privata, vanificando gli investimenti per la loro
formazione. Ecco perché serve un’adeguata programmazione del fabbisogno di
medici, mantenendo flessibili gli accessi alla Facoltà di Medicina e adeguando
il numero di borse di studio per le scuole di specializzazione a quello dei
laureati attesi. Di gran lunga peggiore è la carenza del personale
infermieristico. Nel 2021, con 6,2 infermieri per 1.000 abitanti, l’Italia si
colloca ben al di sotto della media OCSE (9,9). La parola chiave per il
personale sanitario, vera colonna portante del SSN, è “rimotivazione”:
aumentare le retribuzioni, migliorare le condizioni organizzative di lavoro
(sicurezza, tempo libero, formazione, prospettive di carriera), ma soprattutto
fare sentire i professionisti sanitari parte integrante di un pilastro della
nostra democrazia che tutela un diritto costituzionale delle persone. Perché la
loro demotivazione è innanzitutto figlia della svalutazione del loro ruolo
sociale.
Quali investimenti sono necessari, nell’immediato e utilizzando al meglio i
fondi del PNRR, per favorire l’immissione di nuovi camici bianchi nelle
strutture sanitarie?
La Missione Salute del PNRR rappresenta una grande opportunità per
potenziare il SSN, ma la sua attuazione deve essere sostenuta da azioni
politiche: urgono infatti interventi straordinari per reclutare in tempi brevi
il personale infermieristico, investimenti certi e vincolati per il personale
sanitario dal 2027, oltre ad un sostegno concreto per consentire alle Regioni
del Mezzogiorno di recuperare, almeno in parte, gli imponenti divari. In altri
termini il PNRR deve essere inserito in un quadro di rilancio complessivo del
SSN e non essere utilizzato come “stampella” per una sanità pubblica
“claudicante”. Altrimenti avremo indebitato le future generazioni per
finanziare solo un “costoso lifting” del SSN, senza alcun beneficio reale per
l’organizzazione sanitaria e per i pazienti.
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