La società
della «bava e del fiele», ha cercato affannosamente un’altra preda da azzannare
e ha trovato sulla sua strada Donatella Di Cesare, oggetto transizionale della
furia vendicativa. A lei la destra oggi al governo, l’entourage più stretto
della Meloni, rimprovera di essere stata colta in fallo, smascherata, per aver
squarciato il velo con cui tenta di coprire le sue idee radicate nel razzismo
della «sostituzione etnica». Per questo deve pagare.
L’associazione
nazionale funzionari di polizia ha ritenuto doveroso inviare una lettera aperta
alla professoressa Donatella di Cesare, docente di filosofia teoretica presso
l’università di Roma La Sapienza, dopo le polemiche scatenate da un suo tweet
di cordoglio per la morte della ex dirigente delle Brigate Rosse Barbara
Balzerani, scomparsa domenica 3 marzo 2024. Nel suo breve messaggio la
professoressa Di Cesare aveva scritto: «La tua rivoluzione è stata anche la
mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con malinconia un addio alla
compagna Luna».
Attacco al
diritto di parola e di pensiero
L’Anfp è
un’associazione di natura sindacale nata per tutelare gli interessi dei quadri
direttivi della polizia di Stato. Nella lettera aperta, che potete leggere qui
per intero (www.anfp.it/lettera-alla-prof-ssa-di-filosofia-teoretica) si rimprovera alla docente di aver
dimostrato mancanza di rispetto verso le vittime e i familiari delle vittime,
tra cui si enumerano anche quelle della strage di Bologna che nulla c’entra con
la storia politica della Balzerani, anzi si pone in frontale antitesi con il
suo percorso, dimenticando troppo in fretta quei funzionari di polizia e dei
servizi segreti coinvolti nei depistaggi della strage e per questo condannati,
ed a cui – a quanto pare – i funzionari di polizia fanno sconti.
La lettera
mette in discussione il diritto di parola e la libertà di pensiero della Di
Cesare, punta il dito persino contro la pietas davanti alla
morte, contestandole di essere mancata al suo ruolo istituzionale, al rispetto
del gioco delle regole: una prova di infedeltà che nelle parole dei dirigenti
di polizia sembra mostrare nostalgia verso un modello di università che
espelleva chi rifiutava di giurare fedeltà al regime.
Il nuovo
ministero dell’etica
Sorge
immediatamente una domanda: quale è il ruolo e soprattutto il posto della
polizia nel sistema politico-istituzionale italiano? Spetta a loro regolare il
dibattito pubblico? Stabilire cosa e come si insegna all’interno delle
Università, chi merita la cattedra o meno? Non sembrano questi i compiti che
gli vengono attribuiti dalla costituzione, che pure dovrebbero rispettare alla
lettera per mandato istituzionale. E’ davvero singolare pretendere di ricordare
alla cittadina De Cesare che non può oltrepassare il suo ruolo istituzionale di
docente, mentre una tale oltrepassamento viene largamente realizzato da parte
dei funzionari di polizia con una simile lettera.
Per altro la professoressa Di Cesare ha espresso il suo pensiero su un social
non all’interno della sua facoltà. Ha parlato da cittadina, non da docente
davanti ai suoi studenti. Attenta a non confondere i due luoghi. Se dei
funzionari di polizia si sentono liberi di andare oltre le loro funzioni, di
additare in pubblico una persona, esercitando il magistero del pensiero e della
parola, l’accaduto assume la fisionomia di una chiara intimidazione. Un invito
a tacere manette alla mano.
Il volantino
degli studenti e la stella volutamente fraintesa
Sempre nella
lettera si contesta un volantino di solidarietà alla professoressa affisso da
alcuni studenti sulle mura della facoltà di filosofia di Villa Mirafiori,
subito etichettati come «pericolosi anarchici» (sic!) e filobrigatisti perché
avrebbero firmato il testo con la stella brigatista. Come tutti possono vedere
dall’immagine qui accanto, non si tratta della stella asimmetrica con le
due punte allungate ma di una normale stella, simbolo storico della sinistra
italiana, emblema nel 1957 del Fronte democratico popolare con l’effigia del
volto di Garibaldi incastonato all’interno di una stella, appunto. Stella
presente nel simbolo di molti partiti storici della sinistra che solo l’ottusa
ignoranza questurina può ricondurre immediatamente allo stemma brigatista. Ma
il clima è questo, l’ignoranza più gretta sale in cattedra.
Cosa ha
detto di tanto scandaloso la professoressa Di Cesare?
Che le
Brigate rosse sono nate in quel crogiolo di pensiero, ribellione e militanza
che nel 1968-69 diede vita ad un nuovo spazio politico animato dalla sinistra
rivoluzionaria. Nuova sinistra che contestava le forze storiche del movimento
operaio concorrendo sul suo stesso terreno sociale: le fabbriche e le periferie
della grandi città.
Già Rossana Rossanda, nel 1978, ebbe a dire qualcosa del genere, suscitando
scandalo per aver iscritto le Brigate rosse nell’«album di famiglia» del
comunismo storico. Parole suscitate da volontà polemica non solo contro la
posizione del Pci, che pur sapendo della loro vera origine le definiva
«sedicenti», accusandole di essere manipolate, eterodirette, agenti Nato
eccetera; ma con le stesse Br, ritenute un residuato culturale del
veterocomunismo degli anni 50, più che una delle tante anime della nuova
sinistra. Biografie politiche e inchieste sociologiche hanno poi dimostrato che
sbagliava e di molto anche se più avanti cercò di capirle e raccontarle meglio
di ogni altro.
La violenza
politica? Una risorsa condivisa
In questo
nuovo spazio politico il ricorso alla violenza politica era considerato una
risorsa legittima. La violenza rivoluzionaria era innanzitutto «parlata», in un
libro uscito alcuni anni fa per Deriveapprodi, La lotta è armata,
Gabriele Donato spiega quanto fosse condivisa e discussa questa opzione in
tutte le formazioni della nuova sinistra, quanto questo orizzonte fosse
discusso, percepito come inevitabile: alcuni lo ritardavano ma non lo
escludevano e nell’immediato tutti si dotavano di servizi d’ordine, livelli
illegali, molti si armavano, facevano «espropri», rapine per finanziarsi,
difendevano i cortei dalle forze di polizia e dalle aggressioni fasciste mentre
tutt’intorno si susseguivano le stragi e gli attentati della destra e dei
Servizi, nelle piazze, sui treni. Si agitavano ombre di golpe e altrove si
ribaltavano con le dittature militari governi democraticamente eletti, tanto da
spingere il maggiore partito di opposizione italiano a convincersi che non si
potesse più salire al governo, divenendo maggioranza alle elezioni, senza prima
allearsi con quello stesoo partito di governo dagli albori della repubblica, da
sempre avversario, dando vita una società senza più opposizione, priva di
dialettica, senza conflitti, moderando salari e rivendicazioni e che gli
specialisti chiamarono «consociativa». Una democrazia a sovranità limitata,
sottoposta al dominio dei vincoli esterni della geopolitica. Si è così arrivati
a sparare, ed i primi, ci ricorda la cronaca, non furono le Brigate rosse.
Un qualunque studio serio su quegli anni si immerge in un clima del genere,
anche se molti, sopravvissuti e scampati, ormai avanti nello loro carriere
professionali, preferiscono dimenticare, non farsi riconoscere, mentire e
nascondersi pavidamente.
Che cosa avrebbe detto allora di non vero la professoressa Di Cesare? Che non
ha mancato di sottolineare come quel comune sentire iniziale si sia poi diviso
in percorsi diversi, in scelte politiche ed esistenziali separate?
La
stigmatizzazione etica
Nelle parole
della Di Cesare non c’è traccia di stigmatizzazione etica, questo è il punto.
Le si rimprovera la mancata riprovazione, la damnatio negata.
Il regime della indignazione è l’unico possibile a cinquant’anni dai fatti:
indignazione selettiva, per giunta, se è vero che uno come Franco Freda,
ritenuto giudiziariamente e storicamente responsabile della strage di piazza
Fontana, vive tranquillamente quello che gli resta della sua esistenza
ignorato, dimenticato, senza che nessuno gli ricordi quello che è stato: uno
stragista, una massacratore di umanità al servizio e per conto di alcuni
apparati dello Stato italiano.
Come ha scritto Adriano Sofri, si può uscire ad un certo punto dalla lotta
armata, ma non si entra mai da un’altra parte. Quella storia è stata dichiarata
conclusa dai militanti delle Brigate rosse, Balzerani compresa, con un atto
politico quasi quarant’anni fa. Ma non è mai esistito un dopo. Le classi
dirigenti e le loro sponde mediatiche non lo hanno voluto perché hanno ancora
bisogno di quelle icone per rappresentarvi il male. Una comoda esportazione di
ogni colpa e responsabilità per tutti. Per la destra che in questo modo può
sbiancare le proprie origini e collusioni golpiste e stragiste; per la sinistra
che può così eludere i propri errori politici e fallimenti culturali
consolandosi con l’alibi del complotto attuato da forze oscure che le hanno
impedito di salire al potere.
Le Brigate rosse hanno incarnato in questo modo tutto il male del Novecento.
Risultato paradossale davanti agli orrori del secolo breve, ma ancor di più del
presente: ad una guerra russo-ucraina che ha fatto in due anni, stando alle
stime del New York Times, 200 mila morti e circa 300 mila feriti, e agli oltre
30 mila morti di Gaza.
Una preda di
sostituzione
Barbara
Balzerani se n’è andata in silenzio, con una mossa di judo si è sottratta alla
morsa di chi aveva bisogno del suo corpo per eleggerla a moderna strega, come
periodicamente accadeva. La società della «bava e del fiele», orfana della sua
persona e del suo funerale che si è tenuto nel più assoluto riserbo, lontano
dagli sguardi morbosi dei media, frustrata e livorosa ha cercato affannosamente
un’altra preda da azzannare. Ha trovato sulla sua strada Donatella Di Cesare,
oggetto transizionale della furia vendicativa. A lei la destra oggi al governo,
l’entourage più stretto della Meloni, rimprovera di essere stata colta in
fallo, smascherata, per aver squarciato il velo con cui tenta di coprire le sue
idee radicate nel razzismo della «sostituzione etnica». Per questo deve pagare.
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