In aumento i
cittadini che rinunciano a visite mediche ed esami
Nel 2023 sono stati 4,5 milioni, pari al 7,6% della popolazione, erano il
7% nel 2022. I motivi: problemi economici, liste d’attesa e difficoltà di
accesso
Sono stati circa 4,5 milioni nel 2023 i cittadini che hanno dovuto
rinunciare a visite mediche o accertamenti diagnostici per problemi economici,
di lista di attesa o difficoltà di accesso, il 7,6% della popolazione, in
aumento rispetto al 7,0% del 2022 e al 6,3% del 2019, probabilmente
per recupero delle prestazioni sanitarie differite per il Covid-19 e difficoltà
a riorganizzare efficacemente l’assistenza sanitaria.
E’ quanto si legge nel Rapporto sul Benessere equo e sostenibile
(Bes) dell’Istat, presentato oggi.
Secondo i dati c’è un raddoppio della quota di chi ha rinunciato per
problemi di lista di attesa (da 2,8% nel 2019 a 4,5% nel 2023), stabile la
rinuncia per motivi economici (da 4,3% nel 2019 a 4,2% nel 2023), ma comunque
in aumento rispetto al 2022: +1,3 punti percentuali in un solo
anno. Torna inoltre ai livelli pre-Covid l’emigrazione
ospedaliera extra-regione: nel 2022 l’8,3% dei ricoveri in regime ordinario per
acuti. Basilicata, Calabria, Campania e Puglia sono le regioni con maggiori
flussi in uscita non compensati da flussi in entrata; in Sicilia e Sardegna,
sebbene l’indice di emigrazione ospedaliera sia contenuto, è molto superiore
all’indice di immigrazione ospedaliera. Risulta
in continuo aumento la quota di anziani assistiti in Assistenza domiciliare
integrata (Adi), dal 2,9% nel 2019 al 3,3% nel 2022, ma resta una forte
variabilità territoriale: dal 3,8% nel Nord-est al 2,6% al Sud. Se si
considera anche l’assistenza residenziale, rimane il Nord-est l’area con la
maggiore presa in carico di anziani fragili (6,2% nel 2021) e il Sud con quella
più bassa (2,8% nel 2021). Dal rapporto emerge anche che è in crescita
in Italia la speranza di vita: al 31 dicembre scorso “è pari a 83,1
anni, in aumento rispetto al 2022 (82,3)”, un dato con cui si “recupera quasi
del tutto il livello del 2019 (83,2 anni)”. In particolare, “gli uomini con
81,1 anni di vita media attesa tornano allo stesso livello del 2019, mentre per
le donne (85,2 anni) mancano ancora 0,2 anni (85,4 nel 2019)”.
“La speranza di vita in buona salute nel 2023 è pari a 59,2 anni e si
riduce rispetto ai 60,1 anni del 2022″, si precisa nel testo, e “tale
riduzione ha riportato l’indicatore quasi al livello del 2019 (58,6 anni),
ridimensionando l’incremento anomalo verificatosi tra il 2020 e il 2022 dovuto
alla componente soggettiva, per effetto della più diffusa percezione di
condizioni di buona salute in tempi di pandemia”, indica l’Istituto di
statistica. Nel 2021, va avanti il dossier, nella Penisola “il tasso di
mortalità per tumori della popolazione adulta di 20-64 anni è pari a
7,8 per 10.000 residenti e si è ridotto rispetto a quanto osservato nel 2020 (8,0
per 10.000 residenti)”. Tuttavia, “si osservano disuguaglianze socioeconomiche
anche per la mortalità per tumori della popolazione adulta, con uno svantaggio
che aumenta al diminuire del livello di istruzione”, e “sono più marcate nei
maschi, dove gli individui meno istruiti hanno una mortalità 2,1 volte maggiore
dei più istruiti, nelle femmine tale rapporto scende a 1,4”.
L’autonomia differenziata
porterà alla fine del Servizio Sanitario Nazionale
Convegno a Bologna: “AutoNOmia Differenziata, quali rischi per il SSN?”.
Migliore: “In sanità l’autonomia regionale è già una realtà, la riforma deve
essere un’opportunità per individuare i correttivi per una maggiore equità”
“Se passa l’autonomia differenziata sarà la fine del servizio sanitario
nazionale“. Con queste parole Pierino Di Silverio, Segretario
nazionale Anaao Assomed, ha rappresentato al numeroso pubblico che ha
partecipato al Convegno di Bologna dal titolo “Autonomia differenziata. Quali
rischi per il Servizio Sanitario Nazionale?” le preoccupazioni dell’intera
categoria di medici e dirigenti sanitari.
“Il servizio sanitario nazionale – ha affermato Stefano Bonaccini,
Presidente dell’Emilia Romagna nel suo intervento di saluto – non è mai stato a
rischio come oggi. Il Governo lo sta smantellando e il risultato è che sono
esplose le assicurazioni private, medici e infermieri, a causa di salari troppo
bassi e di turni massacranti, emigrano verso il privato o cambiano
lavoro. Presto potrà curarsi solo chi ne avrà le possibilità
economiche.
Serve una grande mobilitazione, perché ormai siamo di fronte a un’emergenza
nazionale. Dobbiamo batterci per riaffermare che il diritto alla salute deve
essere garantito a chiunque, ad un povero esattamente come ad un ricco”.
“L’autonomia differenziata in campo sanitario rappresenta una sfida per le
Regioni, ma una sfida che può portare con sé grandi benefici: per
quanto mi riguarda, dunque, ritengo sia necessario proseguire nel percorso
intrapreso – ha dichiarato il presidente di Regione Liguria Giovanni
Toti nel messaggio inviato all’Anaao Assomed. In primo luogo,
autonomia significa assunzione di responsabilità da parte di chi
amministra un territorio, senza la possibilità di “distribuire” gli effetti
delle scelte fatte e di ciò che non va sul governo centrale ma con la necessità
di rispondere in prima persona alle critiche e alle richieste dei cittadini. In
secondo luogo, perché permetterà di adattare i servizi forniti alle esigenze
specifiche del territorio, tenendo conto delle caratteristiche uniche di ogni
area del Paese e con la possibilità di avere un costante dialogo con i
cittadini, anche attraverso la digitalizzazione. Insomma l’autonomia consentirà
di essere più competitivi ed efficienti”.
Preoccupazione per il rischio di un servizio sanitario frammentato e
disuguale è stata espressa dagli esperti intervenuti.
Per Francesco Pallante, Professore Associato di Economia Politica,
l’Autonomia differenziata, così come proposta, non risponde all’attuale crisi
del diritto alla salute e rischia di acuire le disuguaglianze tra le diverse
regioni. Risolvere l’attuale crisi del diritto alla salute a beneficio delle
sole regioni più dinamiche è una prospettiva che si colloca al di fuori dal
quadro costituzionale e ha suggerito l’esigenza di tornare alla Costituzione, a
partire dal pieno rispetto dei principi di uguaglianza e di unità.
Sull’identificazione e finanziamento dei Leps si è concentrato l’intervento di
Francesco Porcelli Associato di Economia Politica – Università degli
Studi di Bari “Aldo Moro” e membro del Comitato scientifico per la definizione
dei livelli essenziali delle prestazioni, il cui percorso, iniziato a maggio
del 2023, dovrebbe portare a una normativa organica in tema di LEP. L’attività
di ricerca ha cercato di rispondere a domande cruciali come: Cosa si intende
per LEP? Quali sono i potenziali LEP che si possono rinvenire nella normativa
vigente nelle materie che interessano i diritti sociali e civili? Quali sono
i passaggi che consentono di tramutare i LEP in fabbisogno di spesa,
sviluppando modelli di perequazione che ne consentono il finanziamento
rispettando gli equilibri di finanza pubblica? Anche se le risposte non sono
ancora complete e univoche, la definizione organica dei LEP, indipendentemente
dall’attuazione dell’autonomia differenziata, è un’operazione di grande
portata, in quanto attua una parte della Costituzione che pone le basi per la
riduzione dei divari territoriali.
Le preoccupazioni si basano su dati concreti per Enrico Coscioni, Presidente
di Agenas, che sottolinea l’importanza di un dibattito attento e
responsabile, che ponga al centro la salute dei cittadini e l’equità del SSN:
“Alla luce dei dati sulla spesa sanitaria, sulla carenza di personale e sulle
disomogeneità regionali, è fondamentale interrogarsi se il SSN sia pronto per
questa nuova fase. Il dibattito sull’autonomia differenziata deve essere
condotto con attenzione e senso di responsabilità, ponendo al centro la tutela
della salute dei cittadini e la garanzia di un SSN equo ed efficiente.” E
ricorda alcuni dati sul confronto impietoso sulla spesa sanitaria
pubblica e privata rispetto a Germania e Francia: nel 2022 la spesa sanitaria
pubblica italiana è pari a circa 131 miliardi rispetto ai 423 della Germania e
ai 271 della Francia, mentre l’incidenza della spesa sanitaria pubblica in
rapporto al Pil è stata pari al 6,8%, inferiore di ben 4,1 punti a quella
tedesca (10,9%), di 3,5 punti a quella francese (10,3%), e inferiore di mezzo
punto anche a quella spagnola (7,3%).
Anna Lisa Mandorino Segretaria Generale di Cittadinanzattiva ha
evidenziato i rischi di una frammentazione nell’accesso alle cure sanitarie,
con cittadini di serie A e di serie B a seconda della regione di residenza,
richiamando l’urgente necessità di stabilire i Livelli Essenziali di
Prestazioni (LEP) come standard minimi garantiti a tutti i cittadini. “Se
facessimo l’ipotesi, estrema ma possibile, che tutte le Regioni chiedessero per
sé forme di regionalismo asimmetrico così articolate, l’Italia, come Stato
unitario, semplicemente non esisterebbe più e lo si sarebbe deciso senza alcun
tipo di partecipazione popolare”.
I rischi di un sistema sanitario frammentato sono stati evidenziati da
Giovanni Trianni di Medicina Democratica Emilia Romagna. Teme un
“marasma istituzionale” con gravi conseguenze per la sanità pubblica. “Siamo a
dieci giorni dalla discussione del ddl di autonomia differenziata e Medicina
Democratica propone azioni concrete quali una stagione di scioperi generali,
preparazione a referendum abrogativi eventualmente possibili, la preparazione
di ricorsi alla Corte Costituzionale, una campagna di sensibilizzazione verso i
cittadini e cittadine di non votare candidati e candidate, alle prossime
elezioni europee/amministrative che sostengono la autonomia differenziata”.
“Il convegno – ha concluso Pierino Di Silverio – ha messo in luce le
profonde criticità dell’Autonomia Differenziata per il SSN. Le voci degli
esperti e delle associazioni chiedono un dibattito pubblico aperto e
costruttivo sul futuro della sanità in Italia, con l’obiettivo di tutelare il
diritto alla salute per tutti i cittadini”. “È fondamentale che il dibattito
sull’Autonomia Differenziata si svolga in modo aperto e trasparente,
coinvolgendo tutti gli stakeholder interessati, al fine di trovare soluzioni
che tutelino il diritto alla salute e garantiscano un SSN di qualità per tutti
i cittadini”.
“In sanità sperimentiamo l’autonomia regionale da quasi venticinque
anni. La modifica del Titolo V del 2001 ha creato di fatto 21 sistemi
sanitari. La riforma può e deve essere dunque un’opportunità per garantire
maggiore equità e stabilità al sistema sulla base dell’esperienza che abbiamo
maturato”. Questa la posizione che il presidente della Fiaso, Giovanni
Migliore, porterà come contributo nel convegno “AutoNomia differenziata: quali
rischi per il SSN?” organizzato da Anaao a Bologna.
“La tutela della salute è un bene costituzionalmente garantito – spiega
Migliore – e lo Stato, attraverso i Livelli Essenziali di Assistenza (Lea), definisce le prestazioni e i
servizi che il SSN deve offrire sul territorio a tutti i cittadini. Nel 2022
sette regioni, di cui cinque al Sud, non hanno raggiunto la sufficienza rispetto all’erogazione dei Lea. E’
necessario quindi intervenire con strumenti nuovi, lì dove ormai ci sono
difficoltà consolidate nel tempo, per ridurre le disuguaglianze di
accesso ai servizi sanitari”.
I LEA, negli anni tra il 2020 e il 2023, sono stati finanziati per l’87,3%
dall’imposizione fiscale diretta ed indiretta, per l’1,6% dai ricavi e
dalle entrate proprie delle Aziende sanitarie, per l’8,5% dalla partecipazione
delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome e per il 2,6% dalla
voce relativa al Fondo sanitario nazionale.
L’imposizione fiscale, quindi, costituisce la parte preponderante delle
fonti che finanziano il Fondo sanitario nazionale: la componente diretta,
rappresentata dalle risorse derivanti dall’Irap e dall’addizionale Irpef,
incide per il 26,2% (Irap 18,1% e addizionale Irpef 8,1%), la componente
indiretta (Iva e accise) per il 61,1%.
“Il riparto delle disponibilità finanziarie per il Servizio sanitario
nazionale – continua Migliore – avviene sulla base di criteri che sono
cambiati più volte nel corso degli anni, per adeguare le risposte alle
criticità che emergevano via via nella assegnazione delle risorse. Ci sono
dunque i margini, anche attraverso il Fondo di garanzia dello Stato, per
assicurare a tutte le regioni la copertura dei livelli essenziali delle
prestazioni, magari anche aumentando le risorse stanziate per il Fondo
sanitario nazionale, storicamente sotto finanziato rispetto alla media
dei paesi europei più avanzati”.
“Ma non basta – conclude Migliore – serve avere il coraggio di cambiare le
regole ed è necessario uno sforzo straordinario di sistema, per dare
ai cittadini risposte adeguate ed in tempi congrui ai loro bisogni. Fino ad
oggi, nonostante tutte le difficoltà, grazie alla capacità di innovazione delle
aziende, con un sistema che abbiamo definito frugale siamo riusciti a
garantire uno stato di salute della popolazione buono ed una aspettativa di
vita tra le più elevate nei paesi occidentali. Adesso è necessario fare
di più. E noi non ci sottraiamo dalla discussione, anzi, abbiamo anche
chiesto alla politica di ridefinire la figura del direttore generale, per
valorizzare ancora di più competenza ed esperienza, indispensabili per gestire
bene le risorse affidate alle aziende sanitarie”.
Dalla sanità
pubblica alla sanità del lusso - Ilaria Marciano
A
differenza di altri Paesi europei, in Italia si disinveste sulla sanità.
Mancanza di disponibilità e ripetuti tagli nel settore spingono sempre più
italiani a spostarsi dal Mezzogiorno verso nord per farsi curare. La riforma
dell’autonomia differenziata rischia di rendere l’accesso alle cure, più che un
diritto, un privilegio.
C’è un
diritto, quello alla salute, che sempre meno cittadini possono dare per
scontato: le lunghe liste d’attesa, la mancanza di disponibilità
nelle strutture pubbliche, i costi nel settore privato che diventano sempre
meno accessibili hanno reso ormai la sanità italiana un lusso.
Il
Servizio sanitario nazionale, infatti, è al centro di un profondo
divario tra il Nord e il Sud del Paese, un divario che nel corso
degli anni, secondo il rapporto Svimez 2024, si è ampliato significativamente.
E le cifre parlano chiaro: mentre le risorse pro capite investite nel SSN sono
diminuite del 2% tra il 2010 e il 2019, altri Paesi europei hanno visto un
incremento significativo. Come la Spagna, che nello stesso periodo ha
registrato un +9%, o il Regno Unito (27%), ma anche Francia (+32%) e Germania
(+38%). Solo la pandemia da Covid-19 ha portato un’incerta inversione di
tendenza, con un aumento della percentuale di PIL investita nella sanità in
tutti i Paesi. Gli effetti di questa mancanza di investimenti e ripetuti tagli
nel settore sanitario, dunque, hanno dato vita a disuguaglianze sempre più
marcate tra il Nord e il Sud Italia: secondo il rapporto, infatti, le regioni
meridionali mostrano livelli di spesa per abitante inferiori alla media
nazionale di 2140 euro. In particolare, la spesa corrente più contenuta si
registra in Calabria (1748 euro), seguita da Campania, Basilicata e Puglia. Per
quanto riguarda gli investimenti, i valori più bassi emergono in Campania (18
euro), Lazio (24 euro) e Calabria (27 euro), rispetto alla media nazionale di
41 euro. Oltre ai dati finanziari, il fattore sociale aggiunge un ulteriore
strato di disuguaglianza: su 1,6 milioni di famiglie italiane che
vivono in povertà sanitaria, 700mila di queste vivono nel Mezzogiorno: in
particolare, le famiglie considerate in povertà sanitaria sono l’8% al Sud, il
5,9% al Nord-Ovest, il 5% al Centro e il 4% al Nord-Est. Le conseguenze
di questo divario, naturalmente, non sono solo statistiche, e producono degli
effetti concreti che si traducono in una costante migrazione di
pazienti dal Sud al Centro-Nord del Paese, soprattutto per le patologie più
gravi. Per esempio, nel 2022, su un totale di 629 mila migranti
sanitari, il 44% proveniva da una regione del Mezzogiorno; per le patologie
oncologiche, oltre 12.400 pazienti meridionali si sono dovuti spostare per
ricevere cure al Centro o al Nord.
I dati
del rapporto Svimez, dunque, restituiscono l’immagine di un Paese diviso a metà
nell’accesso alle cure ed evidenziano un quadro preoccupante del sistema
sanitario italiano. E adesso il rischio, se verrà approvata la
riforma dell’autonomia differenziata – passata a fine gennaio al Senato e ora
in attesa di essere discussa alla Camera – è che questo divario si acuisca,
rendendo l’accesso alle cure, più che un diritto, un privilegio.
L’allarme di Cartabellotta: salviamo la Sanità pubblica dal disastro dell’autonomia
Si scrive «autonomia differenziata» ma
si legge «frattura del Paese», sicuramente in sanità. Ecco perché, con l’avvio
della discussione parlamentare del ddl Calderoli, è cruciale ribadire che la
tutela della salute deve essere espunta dalle materie su cui le Regioni possono
richiedere maggiori autonomie. Perché in caso contrario si finirebbe per
legittimare normativamente il divario tra Nord e Sud, violando il principio
costituzionale di uguaglianza dei cittadini nell’esercizio del diritto alla
tutela della salute. Ed esistono almeno sei buone ragioni per farlo.
Primo. Il Servizio sanitario nazionale attraversa una gravissima crisi di
sostenibilità e il sotto-finanziamento costringe anche le Regioni virtuose del
Nord a tagliare i servizi e/o ad aumentare le imposte per scampare al piano di
rientro. E guardando alla crescita economica del Paese, all’impatto atteso del
nuovo Patto di Stabilità e all’assenza di misure concrete per ridurre evasione
fiscale e debito pubblico, non ci sono risorse né per rilanciare il
finanziamento pubblico della sanità, né tantomeno per colmare le diseguaglianze
regionali. Inoltre, con l’autonomia differenziata le Regioni potranno
trattenere il gettito fiscale, che non sarebbe più redistribuito su base
nazionale, impoverendo ulteriormente il Mezzogiorno.
Secondo. Il Comitato istituito per definire i livelli essenziali delle
prestazioni (Lep) ha ritenuto che non sia necessario assolvere tale compito in
materia di salute, perché esistono già i livelli essenziali di assistenza
(Lea). Una pericolosa scorciatoia, visto che il ddl Calderoli rimane molto vago
sul finanziamento oltreché sulla garanzia dei Lep secondo quanto previsto dalla
Carta costituzionale. Ed è evidente che senza definire, finanziare e garantire
in maniera uniforme i Lep in tutto il territorio nazionale è impossibile
ridurre le diseguaglianze regionali.
Terzo. In sanità il gap tra Nord e Sud è sempre più ampio, al punto da
configurare una vera e propria «frattura strutturale», come dimostrano sia i
dati sugli adempimenti ai Lea sia quelli sulla mobilità sanitaria. Il
monitoraggio 2021 dei Lea documenta infatti che delle 14 Regioni adempienti
solo 3 sono del Sud (Abruzzo, Puglia e Basilicata) e tutte a fondo classifica:
alla maggior parte dei residenti al Sud non sono dunque garantiti nemmeno i
Lea. E queste diseguaglianze alimentano il fenomeno della mobilità sanitaria:
nel 2021 4,25 miliardi scorrono prevalentemente dalle Regioni meridionali verso
Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto, le Regioni che hanno già sottoscritto i pre-accordi
per le maggiori autonomie e che complessivamente raccolgono il 93,3% dei saldi
attivi. Di conseguenza, l’attuazione di maggiori autonomie in sanità nelle
Regioni con le migliori performance sanitarie e maggior capacità di attrazione
inevitabilmente amplificherà le diseguaglianze già esistenti.
Quarto. Le maggiori autonomie già richieste da Emilia-Romagna, Lombardia e
Veneto ne potenzieranno le performance sanitarie e, al tempo stesso,
indeboliranno ulteriormente quelle delle Regioni del Sud, incluse quelle a
statuto speciale. In tal senso risulta ai limiti del grottesco la posizione dei
presidenti delle Regioni meridionali governate dal centrodestra, favorevoli
all’autonomia differenziata. Una posizione autolesionistica che dimostra come
gli accordi di coalizione partitica prevalgano sulla salute delle persone.
Alcuni esempi: la maggiore autonomia in termini di contrattazione del personale
provocherà una fuga dei professionisti sanitari verso le Regioni più ricche, in
grado di offrire condizioni economiche più vantaggiose, impoverendo
ulteriormente quelle del Sud; così come l’autonomia nella determinazione del
numero di borse di studio per scuole di specializzazione e medici di medicina
generale determinerà una dotazione asimmetrica di specialisti e medici di
famiglia. Ancora, le maggiori autonomie sul sistema tariffario, di rimborso,
remunerazione e compartecipazione rischiano di rendere i sistemi sanitari
regionali delle entità con regole proprie, sganciate anche da un monitoraggio
nazionale, agevolando anche l’avanzata del privato.
Quinto. Nonostante gli entusiastici proclami sui vantaggi delle maggiori
autonomie anche per le Regioni del Sud, in sanità è certo che non ne esistono
affatto per una ragione molto semplice. Essendo tutte, Basilicata a parte, in
piano di rientro o addirittura commissariate (Calabria e Molise), non si
trovano nelle condizioni di poter avanzare la richiesta, visto che i piani di
rientro di fatto «paralizzano» dal punto di vista organizzativo i sistemi
sanitari regionali.
Sesto. Il Pnrr, sottoscritto dall’Italia e per il quale abbiamo indebitato
le future generazioni, persegue il riequilibrio territoriale e il rilancio del
Sud come priorità trasversale a tutte le missioni. Ovvero, l’intero impianto
normativo del ddl Calderoli contrasta il fine ultimo del Pnrr, che dovrebbe
costituire un’occasione per il rilanciare il Mezzogiorno, accompagnando il
processo di convergenza tra Sud e Centro-Nord quale obiettivo di crescita
economica, come più volte ribadito nelle raccomandazioni della Commissione
europea.
Ecco perché è fondamentale espungere la tutela della salute dalle materie
su cui le Regioni possono richiedere maggiori autonomie. Se così non fosse,
saremmo di fronte a una legittimazione normativa della «frattura strutturale»
Nord-Sud che comprometterebbe l’uguaglianza dei cittadini nell’esercizio del
diritto costituzionale alla tutela della salute, rendendo le Regioni
meridionali sempre più «clienti» dei servizi prodotti dalle Regioni del Nord e
assestando il colpo di grazia al Servizio sanitario nazionale. Un disastro
sanitario, economico e sociale senza precedenti, che viene oscurato dallo
«scambio di favori» tra i fautori dell’autonomia differenziata e quelli del
presidenzialismo.
https://sbilanciamoci.info/cgil-e-uil-in-piazza-per-la-sanita-torniamo-alle-usl-basta-aziende/
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