‘La morte dell’Occidente non ci ha privato proprio di
nulla di vivo ed essenziale e la nostalgia è quindi fuori questione.’ (Giorgio
Agamben)
Anche se
quasi nessuno lo vuole ammettere, il nostro “sistema” è obsoleto, e per questo
si sta trasformando in “sistema chiuso”, ovvero totalitario. È altrettanto
evidente che i pochi che continuano a trarre vantaggio materiale dal sistema
capitalistico – il famigerato 0,1% – sono disposti a tutto pur di prolungarne
l’obsoleta esistenza. Alla radice, il capitalismo contemporaneo funziona in
modo molto semplice: si emette debito da una porta e lo si riacquista da
un’altra grazie all’emissione di nuovo debito; un loop all’apparenza
inattaccabile da cui origina la maggior parte dei fenomeni distruttivi con cui
ci troviamo a convivere.
Gli
esecutori del meccanismo sono una classe di funzionari-profittatori il cui
principale tratto psicologico è la psicopatia. Sono talmente devoti al
meccanismo da esserne diventati delle estensioni – come
automi, lavorano indefessamente per il meccanismo, senza rimorso alcuno per la
devastazione di vita umana che dispensa. La dimensione psicopatica (disinibita,
manipolatoria, e criminosamente antisociale) non è però una prerogativa
esclusiva della cricca finanziaria transnazionale, ma si estende a macchia
d’olio sia sulla casta politico-istituzionale (dai vertici dei governi agli
amministratori locali), che sull’apparato cosiddetto intellettuale (esperti,
giornalisti, scrittori, filosofi, artisti, nani e ballerine). In altre parole,
la mediazione politico-culturale della realtà è oggi interamente
mediata dal meccanismo stesso. Chi entra nel sistema non solo deve
aprioristicamente accettarne le regole ma, ipso facto, ne assume lo
specifico carattere psicopatologico. Così, la folle oggettività capitalistica
(il suo spietato congegno riproduttivo) diventa indistinguibile dal soggetto
che lo rappresenta.
Proprio in
virtù del disturbo della personalità che li contraddistingue, i tecnocrati
tendono a sovrastimare la loro capacità di imporre un sistema chiuso e
autosufficiente che possa esorcizzare il tramonto della socializzazione
capitalistica. La tragica farsa pandemica prima, e ora il vento gelido
del warfare permanente, mettono a dura prova la fiducia
incondizionata del cittadino medio nelle care vecchie istituzioni
rappresentative. Se è stato relativamente facile silenziare dubbi e dissenso a
colpi di “lockdown umanitari” e DPCM – grazie ai quali la classe politica più
opportunistica della storia moderna si è rifatta una breve verginità – la
complicità nel genocidio di Gaza e, in contemporanea, l’affannosa costruzione
neomaccartista del “fronte democratico contro il mostro russo”, con annessa
corsa al riarmo, cominciano a minare le certezze della silent majority.
‘Produrre armi come i vaccini!’ tuona ora Ursula von der Leyen
(involontariamente dicendo il vero sulla funzione di entrambi); mentre a
Fantozzi comincia a salire un leggerissimo sospetto.
Nel nuovo
totalitarismo in fieri, la realtà non entra nei giornali o in
televisione. Prende il suo posto l’iperreale teorizzato da Jean Baudrillard,
che non è né reale né finzione, ma il contenitore narrativo che ha sostituito
entrambi. Così la pulizia etnica di Gaza avanza a pieno regime nell’iperreale
di accorati distinguo e telegeniche perorazioni contro tutti gli estremismi,
per poi defluire nelle balle spaziali dell’imminente cyberattacco
nucleare russo, condite in salsa piccante dall’omicidio politico del dissidente
(xenofobo e ultranazionalista) Alexej Navalny. Senza fare un plissé, chi accusa
di complottismo diventa complottista. La centrifuga di informazioni e
intrattenimento induce un’ipnosi collettiva che si rivela più efficace della
tradizionale censura, poiché elimina ex ante la richiesta di
un referente reale, con il suo portato di radicale ambiguità.
L’iper-mediazione
del mondo, in altri termini, ambisce a costituirsi come unico mondo di
riferimento. Gli eventi narrati dai media corporativi non vengono più
pensati come altro dalla narrazione, perché, nel
capovolgimento iperreale, è la narrazione stessa che pensa il soggetto. Così
l’informazione massmediatica s’impone come infinito spettacolo autoreferenziale
che mira a sterilizzare ogni pensiero critico. Il dibattito ufficiale su Gaza o
Ucraina, per esempio, si trasforma in dibattito sul dibattito stesso, gestito
da schemi binari confezionati a monte (democrazia/terrorismo, ecc.). Questa
tendenza a liquidare il referente dev’essere intesa in senso
etimologico come tendenza a renderlo liquido. Essa si è imposta,
storicamente, come conseguenza di un processo di virtualizzazione economica
basato sulla sostituzione della profittabilità del lavoro salariato
(valorizzazione reale) con la profittabilità simulata del capitale speculativo.
Viviamo in
un mondo in cui i listini dei mercati azionari di Giappone e Regno Unito
raggiungono i massimi storici in concomitanza con l’entrata in recessione
ufficiale delle loro economie; mentre gli Stati Uniti salvano le apparenze
grazie a un debito monstre protetto dall’egemonia monetaria del dollaro quale
riserva globale. Al netto dell’inevitabile tonfo o drastica correzione prossimi
venturi, il grande party (con pochi invitati) dei mercati è frutto di giochi di
prestigio degni del mago Otelma. È su questo falsopiano che dovremmo collocare
l’attuale euforia bellica. Il collasso delle società del lavoro occidentali fa
sì che la produzione militare per “impegni di sicurezza a lungo termine” sia
ormai supporto imprescindibile di PIL sempre più mosci. Il 64% dei 60.7
miliardi di dollari destinati all’Ucraina nell’ultimo pacchetto di aiuti, per
esempio, verranno assorbiti dall’industria militare USA. La fonte non è la TASS
ma il Wall Street Journal, che sottolinea inoltre
come dall’inizio del conflitto russo-ucraino la produzione industriale
statunitense nel settore della difesa sia aumentata del 17,5%.
Ma,
soprattutto, l’eccitazione tecno-militar-industriale continua a soffiare nelle
vele di un settore finanziario palesemente ipertrofico, gonfiato a dismisura
dell’AI mania dell’ultima ora – la frenesia speculativa nel campo
dell’intelligenza artificiale. L’attuale bolla dell’S&P 500 (indice che
traccia l’andamento delle azioni di 500 tra le più grandi società quotate nelle
borse statunitensi) è frutto dalla sopravvalutazione isterica di un pugno di
potentati tech, le cosiddette Magnificent Seven (Alphabet,
Amazon, Apple, Meta, Microsoft, Nvidia e Tesla; oggi peraltro ridotte a
“magnifiche due”, Nvidia e Meta). Questo forte squilibrio ricorda da vicino la
bolla tecnologica di fine secolo scorso, quando l’entusiasmo legato all’avvento
di internet portò alla sopravvalutazione di Microsoft, Cisco, Amazon, eBay,
Qualcomm ecc. Se è vero che queste aziende salvarono la pelle, moltissime
start-up furono spazzate via dall’esplosione della bolla dot.com. In breve, il
mondo clamorosamente sollevato dalla leva dell’intelligenza artificiale (poco
intelligente perché poco artificiale, diceva Baudrillard) farebbe meglio a
prepararsi a un botto altrettanto clamoroso.
Teniamo
presente che il rischio oggi è infinitamente più alto rispetto a venticinque
anni fa. Nel frattempo, infatti, siamo entrati a tutti gli effetti in un
contesto globale che è ostaggio della creazione di liquidità dal nulla (e
relativi capri espiatori), finalizzata a rifinanziare la massa di debito in
essere su cui si reggono deficit statali e bolle speculative popolate da
miriadi di aziende zombie. Un crollo dell’azionario di circa l’80%, come quello
del dot.com a fine 2000, equivarrebbe ora a una raffica di esplosioni atomiche,
metaforiche e non solo. Perché la psicopatia bellica targata USA-NATO-UE è, in
ultima istanza, un’estensione della psicopatia finanziaria: la conseguenza
reale di un rischio speculativo ormai fuori controllo. Bombe e cannoni sono il
cerbero messo a guardia di un capitalismo che nella sua accezione tradizionale,
cui ancora tendiamo ingenuamente a far fede (il fantastico mondo del lavoro,
del consumo, della crescita, e del progresso), è morto e giace sepolto da
almeno un paio di decenni.
Ecco allora
che l’obiettivo non dichiarato degli USA (e vassalli) è mantenere l’egemonia
militare sia in quanto spina dorsale di quella monetaria (dollaro come riserva
globale) che a protezione di un ammasso di debito tossico già virtualmente
insostenibile. In questo senso non stupisce affatto che il primo ministro
estone, Kaja Kallas, invochi per l’UE la medesima strategia monetaria attuata
durante il Covid: l’emissione di 100 miliardi in eurobond (rispetto ai 750
mobilitati per il Coronabond) al fine di rilanciare l’industria militare
europea in attesa delle invasioni barbariche. Fare debito per fronteggiare
“emergenze apocalittiche,” debitamente impacchettate dai media, è il modello
economico da ultima spiaggia del capitalismo di crisi. Il limite interno
(collasso del modo di produzione) viene subdolamente denegato attraverso la sua
proiezione esterna, incarnata da provvidenziali nemici assetati di sangue
democratico. Il war bond, insomma, fa da baluardo fiscale a un
“mondo” in piena fase implosiva.
La corsa al
finanziamento per il riarmo è iniziata un po’ ovunque. In Gran Bretagna il
generale Patrick Sanders, capo dell’esercito di Sua Maestà, invoca un
massiccio reclutamento di cittadini da mandare al fronte
(ovviamente russo), mentre il nuovo ministro della Difesa, Grant Schapps, non
prova neppure a dissimulare l’opportunismo economico legato all’impegno militare:
‘L’era
dei dividendi di pace è finita. Tra cinque anni potremmo trovarci davanti a
numerosi teatri di guerra in Russia, Cina, Iran e Corea del Nord. […] Per prima
cosa, dobbiamo rendere la nostra industria più resiliente affinché ci permetta
di riarmarci, rifornirci e innovare più rapidamente dei nostri nemici. Qui
c’è un’enorme opportunità per l’industria britannica. Il Regno Unito è da
tempo sinonimo di tecnologie pionieristiche. Abbiamo dato al mondo il radar, il
motore a reazione e il world wide web. Non abbiamo perso quella scintilla
creativa. Al contrario, oggi il Regno Unito è una delle sole tre economie tecnologiche
da mille miliardi di dollari. Ma immaginate cosa potremmo fare se riuscissimo a
sfruttare meglio quell’ispirazione, ingegnosità e creatività latenti, per la
difesa della nostra nazione?’
Istruiti a
puntino come ai tempi del Covid, i tecnocrati EU leggono dallo stesso copione.
Come i bambini all’asilo ripetono all’unisono la filastrocca del ‘prepariamoci
alla guerra.’ Se Germania, Polonia e paesi baltici hanno alacremente accelerato
la propaganda bellica, persino in Austria (paese fuori dalla NATO)
e Svezia (tradizionalmente neutrale) la
politica vuole mettere l’elmetto ai cittadini. E per non sentirsi da meno, il
ministro Guido Crosetto fa sapere che occorre predisporre un
esercito di 10mila riservisti.
La crociata
antirussa ci proietta dunque in un’epoca caratterizzata da crescente
indebitamento militare per il monopolio sulla violenza nei teatri di guerra
che, proprio perché legati alla deriva economico-finanziaria, non devono mai
venir meno (come disse Julian Assange nel 2011 in riferimento alla
guerra in Afghanistan, ‘l’obiettivo è una guerra senza fine, non una guerra di
successo’). Ciò comporta decadenza socioeconomica e culturale, intensificazione
del controllo dell’informazione, repressione del dissenso, e manipolazione
coercitiva delle plebi impoverite. Plebi, per giunta, costrette a sorbirsi
l’esibizione cabarettistica di un ex comico ora “leader della resistenza” che
gira mezzo mondo mendicando armi e denaro per spedire al macello una generazione
di compatrioti. Ma saremmo degli illusi, oltre che degli idioti, a credere di
poter comodamente assistere alla tragicomica messinscena del “nobile impegno
militare” come se fosse una serie Netflix, magari lavandoci la coscienza con
qualche generico slogan pacifista. Perché più il modello del capitalismo
finanziario vacilla, più chi continua a spremerlo non esiterà a sacrificare
sotto “bombe giuste” non solo i “dannati della terra e i forzati della fame” di
cui scriveva Franz Fanon (popolazioni, come quella palestinese, da tempo
relegate a condizione di subumana miseria e sopruso); ma anche i placidi
abitanti del mondo di sopra, di cui i potenti hanno una considerazione pari a
quella di una mandria di bovini pascolanti con lo smartphone a un dito dal
naso.
Per chi
insiste a rovistare tra i bidoni di spazzatura in cui è stata esiliata la
realtà, unire i puntini diventa un giochetto da ragazzi. L’“all’armi!”
permanente (contro Virus, Putin, Hamas, Houti, Iran, alieni, e tutti i cattivi
a venire) funziona da disperato oltreché criminale parafulmine per una logica
economica fallimentare in balia della propria degenerazione finanziaria; che a
sua volta dipende da incessanti somministrazioni di credito partorito dai
computer delle Banche Centrali. La drammaturgia emergenziale dev’essere
continuamente rilanciata, pena l’esplosione del pallone aerostatico su cui
viaggia la logora e sempre più incivile civiltà del profitto. Perché la
profittabilità del casinò finanziario, che ha sostituito la profittabilità del
lavoro di massa, è in perenne debito d’ossigeno – e questo è il punto
dirimente. Chi ancora non ha rinunciato a pensare sa che l’allarme, quello
vero, è suonato da tempo.
Finito il
metadone monetario garantito dalla psico-pandemia, i nodi stanno nuovamente
arrivando al pettine. Gli equilibrismi di politica monetaria (relativi ai tassi
di interesse) dei banchieri centrali rischiano un tragicomico flop, specie se,
come sembra, a metà marzo verrà meno il combinato di reverse repo della
Fed (che drena liquidità e funge da indicatore primario delle riserve bancarie
complessive) e il BTFP (Bank Term Funding Program, programma di prestiti
emergenziali creato dalla banca centrale USA nel marzo 2023 per far fronte alla
crisi bancaria innescata dal fallimento di Silicon Valley Bank). Come nel
settembre 2019, a rischiare il bagno di sangue sarebbero in primis i mercati
del debito. Qui è d’obbligo far notare che i prestiti delle banche tradizionali
allo shadow banking system (il sistema finanziario ombra, poco
regolamentato e frequentato da fondi pensione, assicurazioni, hedge funds,
asset manager, ecc.) ha recentemente superato la soglia record del trilione di dollari. Le società “a leva finanziaria”,
destinatarie dei prestiti, li investono sotto forma di credito a soggetti
sempre più rischiosi. Questo aumento del leverage nel sistema
ombra, già al centro della crisi del 2008, è, evidentemente, indice di crescente
volatilità sistemica. Secondo i dati del Financial Stability Board (Autorità
di Vigilanza USA) a oggi gli attivi dello shadow banking sono
pari a 218 trilioni di dollari, circa il 50% degli asset
finanziari globali. Si tratta principalmente di cartolarizzazioni ad alta leva
finanziaria e pronti contro termine (repo). Come anticipato, l’essenza
dell’odierno sistema finanziario è proprio la catena di debito strutturato in
altro debito: una fuga in avanti di speculazioni a base debitoria prive di
sottostante reale. La fragilità di questo meccanismo è intrinseca, perché basta
l’insolvenza di un player per far crollare l’intera piramide, innescando poi un
contagio su larga scala. Per questo motivo il castello di carta (costruito su
una pozza di benzina) è perennemente assetato di liquidità. Ecco allora che la
profezia viene facile: in un contesto già dominato da un QT (riduzione del
bilancio della banca centrale) sostanzialmente fasullo, perché reso possibile
da programmi emergenziali a termine come il BTFT, la Fed (e consorelle) avrà
presto bisogno di nuove grandi emergenze per tagliare i tassi d’interesse e
iniettare liquidità fresca di conio nel sistema che le gravita attorno.
È
interessante osservare come le istituzioni governative occidentali, anche
quando aspramente criticate per scarsa propensione deontologica, vengano
raffigurate dai media come in un quadro dell’alto medioevo: senza contesto.
Esistono eo ipso, in una sorta di cornice metafisica
autoreferenziale che le immunizza dal rapporto con la realtà. Se singolarmente
i politici possono essere esposti al pubblico ludibrio, l’istituzione in quanto
tale (teoricamente preposta allo svolgimento di compiti di interesse pubblico)
è intoccabile, essendo manifestazione del vertice assoluto nella scala dei
“migliori mondi possibili”. Eppure, oggi basta collegare i proverbiali due
neuroni per capire che il carattere quasi sacrale conferito all’istituzione
liberal-democratica ha come unico scopo offuscare la sua totale dipendenza dai
movimenti sussultori del capitale finanziario.
La classe
media occidentale è prigioniera del proprio passato, convinta che il
capitalismo social-liberal-democratico del dopoguerra sia un modello di
organizzazione sociale non solo fondamentalmente giusto, ma anche eterno e
inscalfibile. Questa illusione ottica, che ha fin qui comportato una fiducia
pressoché incondizionata nelle istituzioni (anche quando aspramente criticate),
è comprensibile: la classe media occidentale, o aspirante tale (piccola
borghesia, proletariato socialdemocratico, ecc.), è stata per qualche decennio
oggetto delle più amorevoli attenzioni del grande capitale organizzato attorno
al lavoro e al consumo di massa. I capitali privati hanno plasmato e insieme
sfruttato un mondo del lavoro fabbricato sullo “standard ideale” (medio, appunto)
del consumatore gratificato dal sogno dell’arrampicata sociale, che si è illuso
di essere ontologicamente rilevante ma che in realtà è stato comprato da
quattro lire peraltro insanguinate (perché il boom del dopoguerra fu figlio
della “distruzione creativa” di due guerre mondiali). Ma il punto è che quel
mondo – o, se si preferisce, l’illusione di quel mondo – è durato una trentina
d’anni (e solo per l’Occidente), che sono il battito d’ali di un colibrì
rispetto alla storia secolare di un modo di produzione che, per dirla con Marx,
‘viene al mondo grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni
poro’.
La nebbia di
guerra in cui ora ci siamo nuovamente persi nasconde alla vista il reale
oggetto del contendere: non il nemico da combattere ma la dipendenza tossica
dal pusher che mantiene in vita artificiale l’illusione madre di tutta la
modernità: l’illusione, cioè, che il capitale (l’ossessione per il profitto
come irragionevole “ragione di vita”) ingeneri spontaneamente un legame sociale
civilizzatore. La civiltà cui mi riferisco è la stessa che oggi giustifica lo
sterminio dei palestinesi; sterminio tanto più atroce quanto più conforme alla
matrice razzistica di un “modello di sviluppo” che ha costruito i suoi nobili
valori sulla distruzione di chi non vi si conforma – in specie, la figura del
povero, che da sempre testimonia, con la sua dolorosa diversità, il fallimento
della stessa socializzazione capitalistica. Le nostre nobili istituzioni sono
quelle che, agendo come psicotici sicari per conto del grande capitale,
partecipano allo sterminio degli “animali umani” palestinesi. È ancora
possibile averne fiducia?
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