domenica 31 marzo 2019

Fuggono dall'inferno libico: nessuno si azzardi a chiamarli pirati - Gianni Cipriani



Nessuno si azzardi a chiamarli pirati. Nessuno. I pirati assaltano le navi, le saccheggiano, sequestrano l'equipaggio per chiedere i riscatti. Hanno armi, una loro flotta.
I migranti che hanno sequestrato il mercantile turco erano dei disperati fuggiti dai lager libici e che nei lager libici stavano per essere riportati.
Il loro gesto, per quanto estremo, è stato dettato dall'istinto di sopravvivenza.  In un tribunale italiano, in un ipotetico processo, applicando la nostra legge si sarebbe potuto invocare lo 'stato di necessità', ossia quando qualcuno commette un reato ma solo per proteggere la sua vita o quella dei suoi familiari.
In Libia non c'è uno stato degno di questo nome. Ci sono milizie contrapposte, trafficanti, capi tribù che pensano di fare cassa, militari e poliziotti che non si sa da quale parte stiano se non dalla parte di chi paga di più. Una guardia costiera libica inefficiente e nella maggior parte dei casi crudele.
Lo sanno tutti, lo vedono tutti. Lo denunciano da anni tutti.
Ma l'Europa ipocritamente riconosce l'autorità libica in mare e consente che i naufraghi vengano riportati nelle mani di sequestratori e torturatori.
Ma nessuno finga di non sapere cosa è l'inferno libico. Le torture, gli stupri, le morti, gli anni rinchiusi in condizioni disumane in attesa che qualcuno paghi il riscatto.
E qualcuno chiama pirata chi è fuggito da quel l'inferno nel quale governanti senza scrupoli vogliono rimandare uomini, donne e bambini senza più forze e speranza?
Una riflessione seria andrebbe fatta, invece della solita propaganda xenofoba e razzista.
Nessuno si azzardi a chiamarli pirati. Sono disperati in fuga dall'inferno.

Jim Carrey ha pubblicato una vignetta su piazzale Loreto



  
Capita che quando i fascisti e il fascismo rialzano la testa qualcuno ricordi un po’ di storia, magari anche da un’angolatura molto dura, come la morte.
Così Jim Carrey in un post su Twitter ha detto la sua sul fascismo e la solita Alessandra Mussolini (quella che vuole denunciare tutti coloro che danno del criminale al nonno) se l’è presa.
L’attore aveva pubblicato un tweet con una vignetta in cui sono ritratti Benito Mussolini e la compagna Claretta Petacci a Piazzale Loreto, appesi a testa in giù, il 29 aprile 1945.
Nella didascalia accanto al disegno si legge: “Se vi state chiedendo a cosa porta il fascismo, chiedete a Benito Mussolini e alla sua signora Claretta”. La vignetta è stata disegnata dallo stesso artista e la nipote del duce, Alessandra Mussolini, si è sentita chiamata in causa e ha scritto  “You are a bastard”, “sei un bastardo”.
A giudicare da commenti apparsi il popolo del web ha dato ragione a Carrey e criticato la Ducia. Del resto Mussolini è stato e rimane un dittatore, criminale di guerra e criminale in assoluto viste le vittime del fascismo durante il ventennio, oltre alle sue responsabilità politiche e morali nello sterminio degli ebrei.

venerdì 29 marzo 2019

La didattica per competenze: una “Pedagogia capitalista” per addestrare a flessibilità e precarietà? - Anna Angelucci



La ‘didattica per competenze’ non ha alcun fondamento teorico, scientifico, epistemologico. Orienta lo scenario educativo internazionale perché alimentata da una spinta politico-economica tesa all’omologazione globale dei processi formativi funzionale ai processi produttivi del terzo millennio e dunque alla creazione di un nuovo idealtipo di studente, futuro cittadino e lavoratore. Per questo serviva una nuova pedagogia, che non esito a definire capitalista: una pedagogia che si fonda sulla naturalizzazione di questa nuova ontologia imprenditoriale, immanente e contingente. Sdradicate dalla scuola e dalla società, storia, memoria, ermeneutica, interpretazione vengono spazzate via dall’orizzonte mentale delle nuove generazioni. In questa “confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà” non sono più possibili processi di soggettivizzazione che non siano adattivi al mercato del lavoro e, in quanto tali, spietatamente selettivi e mortiferi. Possono le istituzioni politiche, che sull’istruzione si muovono di concerto con organizzazioni economiche internazionali, sostituirsi alla scienza e imporre processi di formazione e di valutazione, modalità di insegnamento/apprendimento, prassi didattiche standardizzate su scala nazionale e sovranazionale, addirittura una nuova teoria della conoscenza? E noi, noi docenti, della scuola e dell’università, possiamo accettare senza reagire l’imposizione autoritaria di un paradigma indimostrato, ma di cui è dimostrata la funzionalità economicistica, l’imposizione di dispositivi ideologici che impongono un regime veritativo che mina alle fondamenta la nostra libertà di insegnamento, la libertà di apprendimento dei nostri studenti, e che, soprattutto, pone una drammatica ipoteca sul mondo?


Sono un’insegnante di lingua e letteratura, dunque permettetemi di partire con una citazione letteraria, tratta dal romanzo di Lewis Carroll “Alice attraverso lo specchio”:
“Non capisco che cosa lei voglia dire con ‘gloria’” disse Alice. Coccobello sorrise sprezzante:
“Naturale che non puoi capirlo finché non te lo spiego. Volevo dire: ‘ecco un argomento che taglia la testa al toro’”
“Ma ‘gloria’ non significa ‘un argomento che taglia la testa al toro’” fece osservare Alice
“Quando io mi servo di una parola” rispose con tono piuttosto sprezzante Coccobello “quella parola significa quello che pare e piace a me, né più né meno”
“Il problema è” insisté Alice “ se lei può dare alla parola dei significati così differenti”
“Il problema è” tagliò corto Coccobello “chi è il PADRONE? Ecco tutto.”
            Mi pare che questo dialogo fotografi piuttosto bene una situazione storicamente ricorrente: i rapporti di potere che si instaurano tra chi possiede – gestendola – e chi utilizza – spesso subendola – la lingua e i suoi significati così come essi si radicano e si diffondono nel senso comune. Tra chi esercita l’egemonia linguistica (coniando nuove parole d’ordine, manomettendo significati consolidati dei termini, trasferendo lemmi da ambiti diversi con valori semantici nuovi) e chi ne è fruitore passivo, perché inconsapevole, perché distratto, perché manipolato dall’informazione o, non di rado, da una ricerca scientifica e da un’accademia condizionate da interessi economici o omologate da spinte culturali, dunque politiche, acriticamente accettate.
            Questo, a mio avviso, è esattamente ciò che è accaduto e sta ancora accadendo con la diffusione nel mondo della scuola, sotto il profilo della riflessione teorica ma anche della gestione, del governo delle pratiche didattiche, del termine ‘competenze’ e della ‘didattica per competenze’: ovvero, la risemantizzazione in chiave pedagogica (e vedremo nel prosieguo del mio ragionamento di quale pedagogia si tratti) di una parola d’importazione, fatta oggetto di una risignificazione eteronoma rispetto al suo significato originale e pervasivamente imposta a milioni tra insegnanti e studenti con una finalità del tutto estranea alla tradizionale dimensione formativa educativa che in Occidente si attribuisce ai processi di insegnamento/apprendimento secondo i modelli dell’eredità classica configurati dal principio socratico e dalla paideia.
            Un cambio di paradigma epocale, dunque, che, voglio dirlo subito, si fonda non solo su un processo top down di progressiva modifica dall’alto delle condizioni e delle prestazioni del nostro lavoro in classe (attraverso le leggi di riforma, le loro norme applicative, le circolari ministeriali, le pressioni dei dirigenti scolastici e dei responsabili dei dipartimenti, finanche dei colleghi più solerti, con l’introduzione coatta dei test di misurazione e dei certificati di valutazione delle competenze, fino all’ultima modifica degli esami di Stato al termine del primo e del secondo ciclo della scuola secondaria che va radicalmente in questa direzione) ma anche e soprattutto attraverso un processo bottom up di capillare e pervasiva diffusione dal basso del termine ‘competenze’ e delle pratiche didattiche, psicologiche e pedagogiche ad esso collegate, teso a indurre una vera e propria autoregolazione delle condotte, degli insegnanti e degli studenti. Un processo di colonizzazione biopolitica che mira ad una spontanea conformazione acritica delle condotte dei comportamenti verso le forme, le pratiche previste dal sistema e dai nuovi paradigmi pedagogici cui, purtroppo, quotidianamente assistiamo in tante, troppe scuole.
            Se è vero, come notava Gramsci, che ogni questione della lingua pone un più ampio problema politico, ovvero un problema di egemonia e dominio sociale, dobbiamo comprendere fino in fondo perché e come il termine ‘competenze’ non sia affatto neutro e non ideologico, da quali ambiti disciplinari extrascolastici giunga, da chi e perché sia stato importato nel mondo della scuola e imposto con una tenacia, un’insistenza e, oserei dire, con una violenza pari, nella nostra storia, solo alle imposizioni culturali e politiche, alle leggi messe in atto nella società e nella scuola dal regime fascista nel ventennio tra le due guerre. Arrivando, e qui mi spingo ancora oltre nella mia provocazione, a intaccare gli anticorpi democratici della nostra Costituzione, che, non a caso, dichiara con forza all’articolo 33 che ‘l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento’. Sottolineo, ‘l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento’.
            Ma è ancora così? Siamo ancora liberi di insegnare quelli che Franco Fortini, in una straordinaria antologia per il biennio degli istituti tecnici del 1969, chiamava ‘gli argomenti umani’? Siamo ancora liberi di procedere, lentamente e gradualmente, con i necessari tempi lunghi, insieme ai nostri studenti, in percorsi di conoscenza condivisi, significativi, formativi sul piano della riflessione, del ragionamento e dell’analisi di noi stessi e del mondo? Siamo ancora liberi di pensare in modo ‘disinteressato’, senza il giogo dell’utilitarismo, della spendibilità, della trasferibilità, del ricatto di un mercato del lavoro che inganna i nostri studenti due volte: quando impone a scuola una formazione al lavoro che spesso è fasulla e che però sempre li depriva del diritto allo studio, e quando nasconde che la repentinità dei suoi cambiamenti richiederebbe, esattamente al contrario di quanto accade, una formazione assai più astratta e speculativa, assai più tarata su quei saperi logici e filosofico-critici che proprio la dimensione teorica delle discipline – letterarie, artistiche e scientifiche – permette di attivare e stimolare.
            Conoscenze ampie, non competenze minimalistiche. Dimensione simbolica, non concretismo. Percorsi di astrazione, non compiti di realtà, dove poi la realtà nel cui recinto si pretende di chiudere i nostri studenti è sempre quella economica, produttivistica e consumistica: è quella che ci vuole tutti ‘soggetti di prestazione’, attraverso le forme di un disciplinamento in cui ciascuno di noi sfrutta sé stesso perché chiamato ad essere imprenditore di sé stesso, trasformandosi in soggetto d’obbedienza.
            Siamo ancora liberi di immaginare una scuola umanistica, nel senso etimologico del termine e quindi senza distinzione tra le due culture, in cui il profitto, in termini culturali e economici, non abbia diritto di cittadinanza, in cui non ci siano contabilità di debiti e crediti, in cui gli studenti prima ancora che come lavoratori, prima ancora che come cittadini, siano considerati persone, una scuola in cui si possa insegnare e imparare a vivere, come diceva Spinoza, “una vita propriamente umana”?
            Perché dico questo? Perché, a mio avviso, lo spostamento forzoso del baricentro delle attività didattiche verso il concetto di ‘competenza’ sta mettendo profondamente in discussione una certa idea di scuola, una buona idea di scuola, ancorché antica o forse proprio perché antica, cancellandola per sempre. E con conseguenze, a mio avviso, devastanti, per ciascuno di noi. Perché la scuola non è un’agenzia educativa, non è un servizio messo a disposizione dalla comunità, è un’istituzione dello Stato e tutti noi, 60 milioni di italiani, ne siamo, ma non come si intende oggi nella neolingua economicistica che domina il discorso pubblico, portatori d’interesse
            Vorrei innanzi tutto sgombrare il campo da una serie di equivoci con cui, volutamente, i fautori delle competenze e della neopedagogia cui alludevo all’inizio del mio ragionamento (e cioè, burocrati, legislatori, pedagogisti, accademici, intellettuali, esperti e varia umanità, addetti istituzionali nazionali e sovranazionali) legittimano le loro posizioni innovative: a scuola si fa una didattica trasmissiva, tutta incentrata sul docente e non sul discente, basata su presupposti superati, quali l’ora di lezione, la lezione frontale, la classe, l’aula. A questo, considerato vecchiume da rottamare (e teniamo presente che la migliore tradizione della rottamazione viene, in Italia, da sinistra ma si sovrappone perfettamente alle finalità anticulturali della destra) contrappongono una serie di misure moderne, spacciate come più efficaci (badate bene, spacciate come più efficaci, altra mistificazione culturale e basterebbe leggere l’ultimo libro di Susan Greenfield “Cambiamento mentale. Come le nuove tecnologie digitali stanno lasciando un’impronta sui nostri cervelli” per assumere un altro punto di vista, questo sì scientificamente fondato): la flipped classroom, il CLIL, la scomposizione del gruppo classe, il DADA, la Lim, lo smartphone e in generale le nuove tecnologie informatiche, il libro digitale autoprodotto, la didattica laboratoriale, il debate, l’insegnante come mediatore, accompagnatore, animatore digitale, attivatore di competenze attraverso appunto esperienze e compiti di realtà che nulla abbiano a che fare con la tradizione culturale, con la memoria storica e col libro.
            E’ qui che si incardina, a mio avviso, l’operazione di mistificazione lessicale, concettuale, culturale e politica che sta minando la scuola italiana fin dalle fondamenta. A dispetto di un mondo che sempre più privilegia istintività, immediatezza, disintermediazione, spontaneità acritica, superficialità (e che ha trovato nei social network la perfetta espressione di questa nuova, pervasiva, dimensione dell’esistenza) la scuola italiana ha mantenuto nel tempo e con tenacia il valore della conoscenza, della cultura, del pensiero, della ricerca, dell’indagine, della speculazione e dell’esplorazione della complessità. Ma in un mondo sempre più piegato alle logiche del mercato e del profitto, di un capitalismo ferocemente estrattivo che dopo aver depredato la natura e le sue risorse attraverso lo sfruttamento della forza lavoro dei corpi umani oggi trova nelle nostre menti, nei nostri sentimenti, nelle nostre attitudini trasformate in big data nuovi pascoli da desertificare, ecco in un mondo così configurato oggi anche la scuola deve piegarsi alle logiche economiche che permeano scelte politiche scellerate. Non è, a onor del vero, una novità assoluta: la scuola ha sempre anche riprodotto l’ordine sociale vigente (basta leggere Bourdieu e Passeron o, in Italia, le ricerche degli anni Settanta sulle vestali della classe media) ma con un margine fondamentale che oggi sembra essere scomparso dall’orizzonte del nostro sguardo: l’accesso ai saperi implicava anche la critica dei saperi, la messa in discussione dell’esistente, la possibilità della scelta ideologica, che è sempre una scelta di campo, per i docenti e per gli studenti. E’ancora praticabile oggi questa scelta di campo? E’ ancora possibile oggi scegliere un proprio metodo tra i tanti? Quali sono i nostri margini?  E quali le condizioni, le implicazioni, le limitazioni? Quali spazi di autonomia ci lascia a scuola il giogo delle competenze, impostoci in questi termini e con tale, diffusa, penetrante, insistenza?
            La “lunga marcia delle competenze”[1] nella politica scolastica italiana parte da molto lontano, nello spazio, metaforico e geografico, e nel tempo. Il processo di colonizzazione di questo dispositivo normativo parte nel mondo anglosassone dal campo dell’organizzazione del lavoro. In Italia, il costrutto emerge “a partire dagli anni ’70 del secolo scorso soprattutto in due sfere della società – il lavoro e la formazione – e in tre campi scientifici: le scienze del lavoro, dell’organizzazione e del management; le scienze dell’educazione e dell’apprendimento; le scienze linguistiche”.[2] In un volume del 2002, Annamaria Ajello, attuale presidente dell’Invalsi, presentava il concetto di ‘competenza’ “come un cambiamento di prospettiva culturale, con il passaggio del primato delle conoscenze e della dimensione trasmissiva dell’insegnamento, delle mansioni e dei compiti predefiniti (in senso fordista e taylorista) a regimi teorici e d’azione in cui il primato è della sfera del sapere pratico in situazione e dei processi di apprendimento sociale”.[3]
            Liquidato immediatamente l’unico ambito in cui ha senso parlare di competenza, quello linguistico, che è quello che tutti noi a scuola condividiamo e su cui ha senso ragionare anche nelle pratiche didattiche, accanto all’esplorazione delle competenze in ambito psicologico se ne diffonde contemporaneamente lo studio nell’ambito dei sistemi organizzativi e manageriali, investendo potentemente la sfera del lavoro, della sua organizzazione e della sua governance, anche in virtù delle nuove esigenze di figure professionali flessibili, trasferibili e non rigidamente specializzate del mondo globalizzato del terzo millennio. Dall’impresa e dal mondo produttivo è partita dunque la richiesta al mondo dell’istruzione e della formazione di un profondo adeguamento culturale e politico e la gran parte dell’accademia e della ricerca scientifica insieme a tutte le istituzioni nazionali e sovranazionali non si è sottratta (anzi vi ha trovato spazi, progetti di ricerca, rivendicazioni, ruoli, cattedre, ambiti di potere) La prima fondando su presupposti sociocostruttivisti e attivisti questo nuovo filone di ricerca teorica e empirica, peraltro oggi ampiamente superati in molti ambiti delle neuroscienze, le seconde trovando una cornice di riferimento normativo nelle raccomandazioni dell’Unione Europea e nelle indagini OCSE, di cui non è peregrino ricordare il mandato esclusivamente economico (Ocse è l’acronimo di Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).
            Insomma, che il re è nudo è sotto gli occhi di tutti. Il capitalismo contemporaneo, alle soglie di quella che viene definita la quarta rivoluzione industriale o industria 4.0, prima ha chiesto e ottenuto che la scuola diventasse una fetta di mercato come le altre (e, in Italia, questo è stato reso possibile dall’autonomia scolastica che ha trasformato la scuola in un’azienda e il preside nel suo amministratore delegato) poi ha preteso che la scuola concorresse alla realizzazione di un unico sistema sociale, fortemente modellizzato a livello globale attraverso tassonomie prescrittive (cfr. Competenze chiave di cittadinanza europee, 2006; Global Competence Model, 2006; Documento sulle competenze di cittadinanza planetaria dell’Unesco, 2016); insomma che la smettesse di perdere tempo con la cultura, con la filosofia, con la letteratura, con la scienza o con l’arte, e promuovesse competenze (per definizione trasversali e generiche) come “asset competitivi per le organizzazioni e per gli stessi individui nel passaggio attuale all’economia dell’immateriale, del digitale, dell’informazione”.[4]
            Eccoci a noi: la ‘didattica per competenze’ così come la intendono Confindustria, Fondazione Agnelli, tanta università e ricerca, Invalsi e Anp non è altro che questo. Non è il ‘saper fare’ coerente con lo specifico orizzonte disciplinare che ciascuno di noi persegue quotidianamente con i propri studenti. Non è il sapere procedurale che accompagna nelle nostre attività didattiche l’approccio teorico e speculativo, fondamento induttivo o deduttivo di ogni esperienza culturale, laboratoriale e non, cognitiva e metacognitiva. E’, piuttosto, il ‘saper essere’ esecutori acritici, lavoratori addestrati a competenze basiche elementari (quali sono esattamente le 8 competenze chiave di cittadinanza prescritte dall’UE), flessibili e manipolabili, disponibili alla riconversione continua in una condizione estrema di precarietà (questo, e non altro, è il life long learning, una giostra impazzita che obbliga i giovani al business della riqualificazione continua ), lesti in un ‘problem solving’ che esclude la possibilità di rappresentare autonomamente qualunque possibile problematicità e complessità delle situazioni di vita e di lavoro, quello che Rossella Latempa mi ha insegnato a chiamare il ‘problem setting’, il ‘farsi domande’, l’unica cosa significativa e davvero interdisciplinare che possiamo insegnare ai nostri studenti per la vita.
            La ‘didattica per competenze’ ministeriale e burocratica, che traduce in praxis l’ideologia neoliberista – che oggi ha bisogno dello Stato per garantire al mercato la sua libera concorrenza, la sua competitività, il suo irrefrenabile sviluppo – e non prevede quella che con Gramsci chiamiamo “la dura fatica del concetto” da cui, lentamente, nascono i saperi e la critica dei saperi, a partire dai banchi di scuola dove, in primis, quei saperi si formano, si custodiscono e si tramandano. La ‘didattica per competenze’ risponde a un’“economia pedagogica di guerra”[5], come ha recentemente affermato lo psichiatra Michel Benasayag proprio parlando di questi temi, che prevede bambini e adolescenti attrezzati con le ‘competenze’ utili per ‘competere’ in un mondo in cui ognuno è solo e la concorrenza è spietata. Bambini e adolescenti non più ‘educati’ alla convivenza, alla coabitazione, alla condivisione, attraverso percorsi di conoscenza di ampio respiro, bensì individualmente ‘armati’ per compiti specifici: le competenze servono “to perform a specific task”[6] come si conviene ai soldati di una guerra globale, centrata sulla sfida, sull’azione, sulla performance, sul risultato, sul controllo, sul traguardo, sul dominio, sull’affermazione attiva di sé sull’altro. Alla centralità del pensare, viene sostituita la centralità dell’agire. Le competenze sono comportamenti da apprendersi a scuola, sono un insieme di esecuzioni, di prestazioni, sono pratiche, individuali e sociali, tutte orientate al lavoro e all’occupabilità, intesi come finalità fondamentali dell’istruzione. “Le competenze sono disposizioni nell’agire delle persone”.[7] Dunque sono un modo di essere, che deve corrispondere all’individuo del terzo millennio: flessibile, disponibile, fungibile, trasferibile, dematerializzabile (ricordiamo che legge che ha istituito il registro elettronico a scuola si chiama “Dematerializzazione dei rapporti scuola-famiglia”). I riferimenti pedagogici all’attivismo, al cognitivismo, al sociocostruttivismo cui alludevo precedentemente sono totalmente ingannevoli, funzionali a garantire un’accettabile patina di copertura ad un inaccettabile progetto di manipolazione culturale e sociale.
            E’ interessante, a questo punto e per comprendere le ulteriori implicazioni di questo processo di trasformazione epistemologica, leggere quanto sostiene l’ANP, a proposito dei nuovi esami di Stato, appena riformati come previsto dalla legge 107: “Si tratta di un cambiamento radicale che presuppone un diverso approccio didattico e culturale da parte delle scuole e che ANP considera ormai ineludibile. Apprezziamo la nuova visione, volta a superare la rigida e ormai antiquata impostazione delle discipline scolastiche, auspicando che si tratti di un effettivo preludio al complessivo rinnovamento della scuola tradizionale. Il nuovo esame rappresenta l’occasione per misurarsi con quella didattica per competenze verso la quale lo scenario educativo internazionale si orienta da molto tempo, utile ad affrontare un contesto sociale sempre più complesso”. [8]
            La dichiarazione si configura come una professione di fede, l’accettazione di un dogma: nella letteratura internazionale (neurobiologica, psicologica e pedagogica) non esiste alcuna dimostrazione scientifica della necessità di conferire alle “competenze una posizione logicamente sovraordinata rispetto a conoscenze, abilità e atteggiamenti” come chiede la Fondazione Agnelli.[9] E infatti, nella stessa pagina, poche righe dopo, si ammette che “all’assenza di un robusto impianto teorico sopperisce evidentemente l’autorevolezza dell’istituzione”.
            La didattica per competenze non ha alcun fondamento teorico, scientifico, epistemologico. Orienta lo scenario educativo internazionale perché alimentata da una spinta politico-economica tesa all’omologazione globale dei processi formativi funzionale ai processi produttivi del terzo millennio e dunque alla creazione di un nuovo idealtipo di studente, futuro cittadino e lavoratore. Per questo serviva una nuova pedagogia, che non esito a definire capitalista: una pedagogia che si fonda sulla naturalizzazione di questa nuova ontologia imprenditoriale, immanente e contingente.   Sdradicate dalla scuola e dalla società, storia, memoria, ermeneutica, interpretazione vengono spazzate via dall’orizzonte mentale delle nuove generazioni. In questa “confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà”[10] non sono più possibili processi di soggettivizzazione che non siano adattivi al mercato del lavoro e, in quanto tali, spietatamente selettivi e mortiferi.
            Concludo ponendo due domande, che vorrei fossero due interrogative retoriche ma che purtroppo non lo sono: possono le istituzioni politiche, che sull’istruzione si muovono di concerto con organizzazioni economiche internazionali, sostituirsi alla scienza e imporre processi di formazione e di valutazione, modalità di insegnamento/apprendimento, prassi didattiche standardizzate su scala nazionale e sovranazionale, addirittura una nuova teoria della conoscenza? E noi, noi docenti, della scuola e dell’università, possiamo accettare senza reagire l’imposizione autoritaria di un paradigma indimostrato, ma di cui è dimostrata la funzionalità economicistica, l’imposizione di dispositivi ideologici che impongono un regime veritativo che mina alle fondamenta la nostra libertà di insegnamento, la libertà di apprendimento dei nostri studenti, e che, soprattutto, pone una drammatica ipoteca sul mondo?

Anna Angelucci
Intervento al convegno nazionale “A scuola di competenze: verso un nuovo modello didattico. Quale?”
Gilda degli insegnanti di Vicenza e associazione docenti Articolo 33
Vicenza, 18 marzo 2019
[1] Prendo in prestito il titolo di un capitolo del libro “Le competenze. Una mappa per orientarsi” della Fondazione Agnelli, a cura di L. Benadusi e S. Molina, pubblicato da Il Mulino nel 2018
[2] L. Benadusi, S. Molina, op. cit., p. 11
[3] L. Benadusi, S. Molina, op. cit., p. 14
[4] L. Benadusi, S. Molina, op. cit., p. 31
[5] la Repubblica, 21 gennaio 2019
[6] L. Benadusi, S. Molina, op. cit., p. 38
[7] L. Benadusi, S. Molina, op. cit., p. 44
[8] https://www.anp.it/il-miur-pubblica-le-materie-della-seconda-prova-per-lesame-di-stato/
[9] L. Benadusi, S. Molina, op. cit., p. 18
[10] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia nella società industriale avanzata, Einaudi, 1968, p. 21


mercoledì 27 marzo 2019

La lobby israeliana e i democratici pro-Israele della Camera hanno cercato di scomunicare Ilan Omar. Hanno fallito - Richard Silverstein


Per quanti non ricordano la propria storia medievale, durante l’Inquisizione spagnola i monarchi cattolici freschi di trionfo adottarono tecniche di tortura per estirpare dai resti superstiti del vecchio regime falsi convertiti al cristianesimo. Questo comprendeva sia ebrei che musulmani torturati sulla ruota – nota anche come auto-da-fé – quando erano sospettati di osservare rituali o tradizioni ebraiche e musulmane nel segreto delle loro case. In questa età moderna sarebbe bello (ma ingenuo) pensare superata la fase in cui si possano utilizzare torture mentali e fisiche per strappare confessioni di colpa alle vittime. A quanto pare, l’Inquisizione e la sua macchina sono ancora in uso nel Congresso degli Stati Uniti.
Le elezioni del Congresso del 2018 hanno segnato uno spartiacque, eleggendo una nuova classe progressista.
Tra le figure più importanti ci sono  Rashid Tlaib, Ilhan Omar e Alexandria Ocasio Cortez, donne che hanno sfidato il sistema, i rappresentanti storici e la macchina democratica per conquistare grandi vittorie su piattaforme veramente progressiste. Particolarmente chiaro è stato il loro programma per il Medio Oriente, dunque scioccante: si sono opposte agli aiuti degli Stati Uniti a Israele, hanno sostenuto il BDS e la soluzione a uno stato (Alexandria Ocasio Cortez non si è espressa esplicitamente su questi temi, ma presumibilmente condivide le opinioni di molte delle sue colleghe).
Chiunque conosca la lobby di Israele già sapeva che qualcosa di brutto sarebbe accaduto,  non si sapeva solo quando. Ma non c’è voluto molto. Tlaib e soprattutto Omar sono state esplicite su Israele-Palestina sin dalla loro elezione. E le loro vedute, marcatamente pro-palestinesi, si sono rapidamente trasformate in grano per il mulino dell’antisemitismo agitato dalla lobby e dai suoi portatori d’acqua al Congresso.
In primo luogo, naturalmente, c’è stato il famoso tweet “Benjamins” in cui Omar osservava che i membri del Congresso erano obbedienti alla lobby a causa delle centinaia di milioni che raccoglie e distribuisce ai fedeli candidati pro-Israele. Ma chissà perché, osservare che la lobby traeva il suo potere dai soldi, si è trasformato in aperto antisemitismo.
E’ istruttivo come questo sia successo: c’è, naturalmente, un antico tropo antisemita per cui gli ebrei sono ricchi e usano la loro ricchezza per controllare i settori finanziario, bancario, dell’intrattenimento e dei media, ecc. Ovviamente, tutto questo non ha nulla a che fare con la corretta affermazione che la lobby raccoglie un enorme profitto e lo distribuisce ai suoi candidati preferiti. Una persona ragionevole può vedere la differenza tra questi due concetti.
Ma la lobby punta a buttare fumo negli occhi. Si vede attaccata da una chiara dichiarazione e con qualche gioco di prestigio si da fare per trasformarla in una classica accusa di antisemitismo, quando in realtà non esiste assolutamente alcun nesso.
Ora la lobby lo ha fatto di nuovo, dopo che Omar aveva tenuto un discorso in una libreria di Washington DC in cui criticava quelli del Congresso e della lobby che hanno una fedeltà verso uno stato straniero: “Voglio parlare dell’influenza politica in questo paese che considera sia un bene per le persone spingere alla fedeltà verso un paese straniero”.
Con ciò, naturalmente intendeva gruppi come Aipac e i loro sponsor del Congresso, che prendono i loro ordini di marcia direttamente da Israele, o che concepiscono in toto la loro agenda con Israele e tutelano i suoi interessi. A questo punto possono anche credere che gli interessi degli Stati Uniti e di Israele siano gli stessi e così non pensano di stare tradendo gli interessi degli Stati Uniti. Ma chiunque creda che gli interessi di una delle più grandi potenze della terra siano gli stessi di quelli di un piccolo stato teocratico mediorientale è terribilmente ingenuo, se non peggio.
Dopo la dichiarazione di Omar, la lobby è entrata in modalità Defcon*.
L’attacco è stato lanciato da Eliot Engel, un veterano della macchina democratica di New York, che ha attaccato la deputata somalo-americana:
“[È] inaccettabile e profondamente offensivo mettere in discussione la lealtà dei propri concittadini americani a causa delle loro opinioni politiche, incluso il supporto alle relazioni USA-Israele.
“I suoi commenti sono stati oltraggiosi e profondamente offensivi, e le chiedo di ritrattarli, scusarsi e impegnarsi su questioni politiche senza ricorrere ad attacchi che non trovano posto nella Commissione per gli affari esteri o alla Camera dei rappresentanti”, ha detto.
Gli ebrei pro-israeliani come Eliot Engel sono particolarmente ferrati nelle implicazioni della doppia lealtà. Cioè che ebrei pro-israeliani sono più fedeli a Israele che all’America. Una frase storica particolarmente appropriata che connota la doppia lealtà è il termine “Israel Firster”. Non è stata inventata da un antisemita o da un suprematista bianco. Ma piuttosto dal decano degli storici ebrei americani, Abe Sachar, il primo presidente della Brandeis University. E usava il termine precisamente per deridere quelle stesse figure che  ora stanno attaccando Omar: una potente lobby e i suoi apologeti che hanno messo Israele prima di tutto. Questo è un passaggio dell’Annuario ebraico americano del 1961:
“Gli ebrei americani hanno continuato ad opporsi alla pretesa di Israele che una vera vita ebraica sia possibile solo in Israele. Abram L. Sachar, presidente della Brandeis University, alla convention biennale del JWB [Jewish Welfare Board], il 2 aprile 1960 ha dichiarato che tra gli ebrei non c’è spazio “per Israel Firster il cui sciovinismo e arroganza non trovano nulla di adeguato o vitale in nessun luogo che sia al di fuori di Israele.”
Il titolo del NY Times sul discorso riportava che Sachar aveva deriso il “dogma di Israele”. Se gli ebrei americani possono polemizzare sul significato e il primato di Israele nella vita ebraica, perché dovremmo negare agli arabi americani lo stesso diritto, considerando che le loro sorelle e fratelli palestinesi sono sotto il tallone dell’occupazione israeliana?
Non sarebbe così negativo se Israele fosse una nazione laica e democratica come gli Stati Uniti e la maggior parte delle democrazie occidentali; ci sarebbe almeno una confluenza di interessi e valori.
Ma Israele non è più una democrazia. E’ diventato invece una teocrazia, gestita da estremisti fondamentalisti inclini a una guerra santa contro il mondo musulmano. Gli interessi di Israele stanno più che mai divergendo da quelli dell’Occidente democratico. E questa spaccatura non può che continuare ad allargarsi fintanto che Israele sempre più sprofonderà nell’omicidio di massa, nell’occupazione e nell’oppressione.
Gli interessi di Israele e quelli americani non sono più gli stessi. Neanche lontanamente. Quel sottile spiraglio che i presidenti si vantavano non esistesse quando si trattava di interessi israeliani e statunitensi, ora è un portone completamente spalancato.
A quanto pare, il Congresso non ha ancora letto il memorandum. È sprofondato in vecchi modi e abitudini, l’odore dei biglietti verdi rimane troppo allettante per resistere. Ma i vecchi modi stanno morendo. Le vittorie elettorali che ho sopra citato sono dimostrazione più solida di una donazione di Sheldon Adelson da 100 milioni di dollari.
Ecco perché l’esercitazione antincendio antisemita convocata dalla dirigenza del Congresso democratico all’inizio è stata così esasperante. Si è deciso di portare alla gogna Omar e frustarla approvando una risoluzione di denuncia di antisemitismo da parte dei propri membri. Questo ha dato la rappresentazione di un Partito Democratico che mangia i suoi giovani. Nancy Pelosi, pungolata da Engel, Nita Lowey e altri membri pro-Israele, ha presentato una risoluzione senza senso che avrebbe costretto i membri a giurare fedeltà per non incorrere come Omar in una sculacciata pubblica. Il testo finale non ha fatto mai diretto riferimento a Omar, ma il messaggio era chiaro: taci sull’argomento o il gruppo parlamentare del Partito esigerà un forte pegno.
A suo merito, Omar si è piegata ma non spezzata. Dopo il suo primo contrasto si è scusata e ha cancellato il tweet “offensivo”. Ma si è alzata in piedi di fronte al nuovo furioso assalto di Engel. Ha dato il meglio su tutto quello che ha ricevuto. E non ha né chiesto né dato tregua. Questa, è quella che si dice una combattente.
Progressisti democratici non hanno accolto questi attacchi senza reagire. In un incontro del caucus democratico due giorni fa, membri dei comitati del Congressional Black and Progressive con rabbia hanno alzato la voce contro il tentativo di incastrare una di loro. Alla speaker hanno detto senza mezzi termini che non potevano tollerare e rimanere lì a guardare mentre lei la faceva bersaglio di infamie. Pelosi, a quanto riportato, ha concluso velocemente. Abituata ai vecchi modi in cui la lobby impostava l’agenda per le questioni relative ad Israele con i membri che si adeguavano, quando la più giovane irrequieta generazione si è scrollata di dosso queste catene, Pelosi non ha più saputo che fare.
Così un membro pro-Israele della Camera si è seduto con un membro del Caucus nero e insieme hanno redatto quella che viene definita la risoluzione dell'”acquaio di cucina” che denuncia tutto: dalla supremazia bianca all’affare Dreyfus, all’internamento giapponese. Il testo è fortemente sbilanciato verso i membri ebrei pro-Israele della Camera e offre una versione dettagliata, e distorta, della storia e della sofferenza degli ebrei.
Nonostante il contenuto della risoluzione, ciò che è chiaro è che Ilhan Omar e i suoi sostenitori nella Camera e nel resto del paese hanno ottenuto una vittoria importante. Come ha riferito Splinter:
“È facile immaginare che, dieci o anche cinque anni fa, la recente controversia sui commenti di Ilhan Omar sull’AIPAC e l’impareggiabile influenza di Israele nella politica americana avrebbe suonato la campana a morto per la sua carriera. E in effetti, quando alti parlamentari del suo stesso partito l’hanno apertamente attaccata fino al punto che la dirigenza democratica della Camera aveva pianificato una risoluzione che condannava l’antisemitismo, indirizzata a lei, sembrava che sarebbe andata di nuovo in scena la stessa storia .
Ma poi è successo qualcosa di completamente diverso. Molti a sinistra hanno espresso il loro forte appoggio per la dichiarazione di Omar, che, nonostante fosse rivolta a tutti i parlamentari, era stata caratterizzata come antisemita dai democratici filoisraeliani, e anche dal GOP (Partito Repubblicano) …
Non è isterico affermare che tutta questa controversia sembra aver stravolto la politica americana.”
Non è chiaro quale sarà la ricaduta di questo episodio. Il suo caucus arriverà ad accettare e comprendere le opinioni di Omar su questo argomento? Continueranno a sparare colpi per lei e la considereranno perseguitata? La lobby nel 2020 condurrà un’offensiva totale contro di lei e contro i progressisti che l’hanno sostenuta? Se lo fa, suggerisco che la migliore risposta sarebbe mandare al diavolo le primarie di Engel, Lowey e altri. I leader di Aipac hanno già minacciato le primarie di Omar. Diamo loro un assaggio della loro stessa medicina. Come notato sopra da Splinter: in passato, coloro che sfidarono la lobby persero le successive elezioni perché la lobby scatenò il suo potere contro di loro. Ma adesso le cose sono diverse. C’è, a frapporsi, una forza che controbilancia. È la forza dei progressisti democratici, ebrei e non ebrei, che non prendono più ordini di marcia dai bianchi, maschi, plutocrati della lobby.
Antisemitismo: cosa è e cosa non è
Per coloro che hanno bisogno di una infarinatura sull’antisemitismo, parliamo di ciò che è e di ciò che non è. E’ l’odio verso gli ebrei in quanto ebrei. Non dovrebbe essere confuso con Israele. Non c’è niente di sbagliato nel criticare Israele. Niente di male nel sostenere che Israele deve essere una democrazia che garantisca pari diritti a tutti i cittadini, ebrei e non ebrei. Non c’è niente di sbagliato nemmeno nel sostenere una soluzione a uno stato, dal momento che questo non distruggerà Israele, ma piuttosto lo trasformerà. Potrebbero esserci alcuni che confondono Israele con gli ebrei e che esprimono antisemitismo attaccando Israele come un sostituto degli ebrei. Ma tale confusione è spesso alimentata da una deliberata commistione sionista tra i due.
Ilhan Omar non odia gli ebrei né odia Israele. Non ha mai detto o scritto una cosa del genere. Attaccare una delle più potenti lobby degli Stati Uniti non è antisemita. Anche il sostegno al BDS non è antisemita. Questo movimento nonviolento che sostiene la causa della giustizia per i palestinesi non nutre animosità verso gli ebrei. E le sue tre richieste per diritto al ritorno, pieni diritti democratici per i palestinesi in Israele e la fine dell’occupazione non hanno nulla a che fare con gli ebrei di per sé. E le implicite critiche del BDS allo status quo israeliano non costituiscono antisemitismo. Quanti affermano qualcosa di diverso non sanno nulla del ruolo del vero antisemitismo nella storia ebraica, e stanno cantando da un libro di preghiere scritto per loro dalla lobby. Se si seguono i commenti pubblici degli storici ebrei, sia israeliani che americani, quasi nessuno concorda con queste false interpretazioni della storia ebraica espresse dalla lobby.
Anche se gli stegosauri di lobby come Aipac e ADL hanno lanciato agguerriti attacchi frontali, molti ebrei si sono alzati accanto a Omar. C’è un sito web Jews with Ilhan website che ospita una petizione firmata da 2.400 ebrei. Gruppi come Jewish Voice for Peace If Not Now hanno levato le loro voci a sostegno.
Anche membri progressisti del caucus democratico della Camera hanno fatto marcia indietro, protestando contro la corsa frettolosa al giudizio contro Omar:
“Mercoledì una riunione dei democratici della Camera si è trasformata in polemica quando alcuni nuovi membri che hanno contribuito ad ottenere la maggioranza alla Camera hanno affrontato i leader per una risoluzione che implicitamente rimproverava la rappresentante Ilhan Omar del Minnesota per i suoi commenti su Israele.
Nell’incontro settimanale a porte chiuse del partito, i democratici hanno protestato sul modo in cui la speaker Nancy Pelosi e altri leader hanno cercato questa settimana di pubblicare in tutta fretta una risoluzione in risposta all’ultima osservazione di Omar su Israele …
Secondo altri funzionari che hanno parlato in condizione di anonimato … alcuni democratici hanno abbracciato Omar durante la riunione.
C’era chiaro dissenso tra i democratici sulla necessità o meno di una risoluzione che condannasse l’antisemitismo, dato che l’Assemblea aveva già votato su una misura simile.
“Non sono sicura che si debba continuare a farlo ogni volta”, ha detto la rappresentante Primayla Jayapal, co-presidente del Congressional Progressive Caucus.”
Alexandria Ocasio Cortez ha offerto il suo sostegno. Il New York Times, in una cronaca benevola, ha notato la spaccatura generazionale tra una generazione più giovane di insorti come Omar e colleghi veterani più anziani che si sono avvicinati alla politica in una generazione precedente, quando Aipac aveva il controllo assoluto su questi temi.
Commentatori dei media come Mehdi Hassan, Jeremy Scahill e Ben Ehrenreich si sono lamentati del fatto che Omar è stata “gaslighted”** e “buttata sotto l’autobus”. Un nuovo hashtag #istandwithilhan ha dilagato nei feed di Twitter.

È una macchia vergognosa sul Partito Democratico, che di fronte a minacce di morte e calunnie come quella montata dal GOP (Partito Repubblicano) della West Virginia, in cui l’immagine di Omar è stata piazzata su una foto dell’attacco dell’11 settembre al World Trade Center, non è  venuto in sua difesa a parte pochi membri. Non membri ebrei, non Pelosi, e sicuramente non repubblicani. Forse quando dovesse arrivare un Jared Loughner a scaricare una pistola Glock nel suo cervello considerandola una terrorista musulmana, allora si ravvederanno? Sarà troppo tardi.
Nei giorni scorsi ho twittato senza pietà l’equivalente di “Where’s Bernie” per dare la sveglia a lui e al suo consulente per la politica estera, Matt Duss. Il leader progressista e candidato presidenziale – che  in passato si era espresso sull’islamofobia quando uno dei suoi sostenitori politici venne linciato nelle sale del Congresso – era assente ingiustificato. Diss  glorificato senza merito in una storia di copertina di Nation proprio in quei giorni, non si trovava da nessuna parte. Ma poi, ecco che il giorno prima del voto odierno, Bernie si è scosso dal torpore e, infine, ha parlato in difesa di Omar. E’ arrivato in ritardo alla festa, ma almeno è arrivato.
Questo problema non è limitato agli Stati Uniti. La lobby israeliana nel Regno Unito ha adottato le stesse cattive abitudini nell’attaccare per immaginario antisemitismo il leader del Partito Laburista Jeremy Corbyn. Nove parlamentari hanno spaccato il partito, definito dalla maggior parte di loro come antisemita, per formare un “Gruppo indipendente”. Qui come nel Congresso degli Stati Uniti, non c’è nessuna epidemia di antisemitismo. C’è una lobby disperata che vuole conservare il suo potere ed è alla ricerca di nemici contro cui radunare le truppe.
Sfortunatamente, la lobby in entrambi i paesi si è buttata con la destra, rispettivamente GOP e Tories. Questo comporta che i nemici vanno trovati nella sinistra politica. Laburisti e Democratici si sveglino. La lobby vuole estirpare entrambi questi partiti per assicurarsi che i loro rivali pro-Israele (GOP e Tories) guadagnino o mantengano potere. Non si fermeranno a rovesciare una singola Omar o un Corbyn. Vogliono distruggere il vostro partito. A meno che, naturalmente, non riescano a estirparlo e trasformarlo in un clone pro-israeliano del suo rivale. È questo che vuole la speaker Pelosi?

(Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org

*ciascuno di una serie di cinque livelli progressivi di allarme usata dalle forze armate degli Stati Uniti.
** Il gaslighting è una forma di violenza psicologica nella quale vengono presentate alla vittima false informazioni con l’intento di farla dubitare della sua stessa memoria e percezione. Può anche essere semplicemente il negare da parte di chi ha commesso qualcosa che gli episodi siano mai accaduti, o potrebbe essere la messa in scena di eventi bizzarri con l’intento di disorientare la vittima. (Wikipedia)


Bussetti va al convegno sulla famiglia di Verona - Matteo Saudino

Noi vi abbiamo invaso - Alessandro Ghebreigziabiher



Noi vi abbiamo invaso.
Sì, è vero, è così.
È inutile negarlo: vi abbiamo invaso.
In innumerevoli vesti, lo abbiamo fatto.
Come l’attentatore e l’eroe, il primo armato di taniche di benzina e l’altro di un cellulare, con il quale chiamare i carabinieri, all’occorrenza.
E al riparo di siffatte, popolari maschere, rese tali dal clamore dei giornali, ecco le sole caratterizzazioni che servono al racconto previsto:l’immigrato cattivo e quello buono.
Ma anche il terrorista islamico e il cittadino modello, malgrado quest’ultimo, a norma di legge, sia ancora niente più che uno straniero.
Conta poco sapere che per il primo tanto la cosiddetta matrice terroristica quanto quella islamica siano escluse. Da cui, se poco conta, perché farsi ulteriori domande?
Perché quel che ora resta indelebile, e tale dovrà rimanere all’indomani, è ciò che noi altri in tempi assai sospetti abbiamo fatto.
Vi abbiamo invaso, ricordate?
E allora, non dimentichiamo le origini, non sia mai: il senegalese e l’egiziano.
Perché la nostra pelle parla per noi, e dovremmo urlare a squarciagola per sovrastarne il frastuono alimentato nel tempo, senza per questo arrivare a sequestrare un autobus per ottenere tanto.
Anche perché non si farebbe altro che aumentare il baccano nel quale siamo precipitati, volenti o nolenti.
Eppure, in frangenti tragici come questi, ecco che emergono distinzioni che dovrebbero sempre e comunque fare la differenza, se perdonate la banale ripetizione.
Perfino laddove la vita stessa sia in gioco, o forse proprio in quegli istanti, si può vivere il ruolo assegnato dalla regole sociali in modo opposto.
L’autista lo studente prendono strade divergenti. E capita più spesso di quel che ci immaginiamo.
Colui che con il suo scuolabus dovrebbe accompagnare i più giovani verso il luogo che auspicabilmente li aiuterà a crescere, all’improvviso, prende la direzione contraria e punta verso il burrone oltre il quale sprofonda la sua stessa folle tristezza.
Al contempo, a fronteggiare l’altro, come a completare una sorta di allegorica equazione, l’alunno si toglie il consueto grembiule d’ordinanza e fa leva sulla vera ricchezza che contraddistingue tutte le popolazioni a cui sovente viene associato dalle nostre parti, e che nei secoli dei secoli è una delle prerogative principali che ci rende umani.
Leggi pure come il tenace, commovente e insopprimibile desiderio di sopravvivere.
Entrambi spesso dimentichiamo chi dovremmo essere, in questo viaggio. Succede tutti i giorni, ovunque, a chiunque. E, da un istante all’altro, diventiamo ciò che siamo.
È così che qualcosa trapela, dopo che il fumo dei titoli acchiappa click e degli strali attira like via social network si dirada.
È questa la via tramite la quale diventiamo anche dei nomi, oltre che il resto.
Ousseynou Ramy.
Ciò malgrado, qualora aggiungessimo pure le immagini dei nostri volti, l’inevitabile sottinteso sarebbe inviolato.

Noi vi abbiamo invaso. E nulla di quanto detto finora potrebbe intaccare tale concetto, scolpito nella comune memoria di un paese intero come le impronte delle star del cinema di Hollywood. Rese celebri tramite il ricordo delle mani e il nome, dove nel nostro caso, al posto delle prime, ci sono i volti dalla carnagione resa colpevole per definizione.
Perché è proprio così che lo abbiamo fatto.
È indubbio, è successo, sta accadendo anche ora, in questo preciso istante, e non finirà certo oggi.
Non serve ignorarlo. Anzi, è addirittura sbagliato, farlo.
È una storia che va ascoltata e raccontata, ma fino in fondo, una volta per tutte.
Poiché noi vi abbiamo invaso, certo.
È solo che non siamo stati davvero noi, capite?
Di sicuro non l’uomo e il ragazzino, quello che siamo lì fuori, al di là di questo schermo, uno in prigione e l’altro per fortuna a casa dei suoi cari.
A penetrare con violenza e odio nelle vostre vite sono state solo parole, montagne di parole, infami e disumane parole.
Sono le parole che di norma ci rappresentano, ad aggredirci tutti.
Ora sapete chi dovreste espellere, contro chi dovreste alzare muri e chi davvero mette a rischio la vostra e la nostra pace.
Per buona sorte, noi e voi siamo ben altro e molto di più di un insieme di lettere.
Forse, non sarebbe male ogni tanto incontrarci di persona…

martedì 26 marzo 2019

a cosa serve il numero chiuso?


In Sardegna nei prossimi sei anni potrebbero mancare 1154 medici (1)
In Molise si richiamano a lavorare i medici in pensione (2)
In Italia i medici che potrebbero andare in pensione nei prossimi tre anni sono 23000 (3)
E intanto migliaia di medici (e infermiere/i) abbandonano l’Italia per andare e lavorare in Europa, e non solo (4)
Il rettore dell’università di Ferrara propone l’abolizione de numero chiuso (5)

Anche Salvini è d’accordo, contro il numero chiuso, strano, ma anche un orologio rotto segna due volte al giorno l’ora giusta, diceva Groucho Marx; il ministro non sempre dice cazzate, ma fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, le priorità sono altre; a proposito di mare, i porti devono restare chiusi, Riace viene chiuso, i centri di accoglienza per i migranti vengono chiusi, c’è, nel governo molto interesse per le case chiuse (6)
Sul numero chiuso i governi non decidono di cambiare, e quindi sostengono il numero chiuso.

Il numero chiuso è un imbroglio, un dogma, solo ideologia,  è diventato un tabù, lo si associa al concetto di meritocrazia, altro imbroglio, e allora tutti si inchinano davanti alle parole dell’imperatore, per quanto possano essere castronerie (7).

C’è bisogno di un certo numero di medici, e infermieri, ogni anno.
Ma se questo bisogno non riesce a essere soddisfatto, possibile che nessuno dei gestori della cosa pubblica, e della sanità, abbia pensato all’abolizione del numero chiuso o di un raddoppio dei posti della lotteria del numero chiuso?
Dicono, se accogliamo più studentesse e studenti cala la qualità.
Certo, se le strutture restano le stesse, sia nelle facoltà che nei corsi di specializzazione, si impara male.
Se un ristoratore ha molti clienti e pochi tavoli, fa sedere le persone strette strette? Se non è deficiente comprerà qualche tavolo in più, se serve prenderà qualche cameriere e personale di cucina in più.
Anche chi ha un bar in spiaggia lo capisce.
Allo stesso modo le facoltà di medicina dovrebbero aumentare aule e professori, mancano i soldi, si dirà. Si trovano per la tav, per il reddito di cittadinanza, per pagare l’abbonamento Twitter a Salvini, per aspettare 80 anni per la restituzione di 49 milioni rubati dal partito più amato dagli italiani (8) ,e per mille altre cose.

Oppure mettiamo un ristoratore al MIUR.

Ps: succede anche cose strane, meglio, non strane, sono la normalità, in questo piccolo mondo antico che fa schifo, gestito da corrotti, incapaci o peggio.
A chi conviene il dissanguamento della sanità pubblica?
Come in tutti i delitti seguire l’odore dei soldi aiuta.
E la puzza fa vomitare.
“…Qui da noi, nel sassarese intendo, si chiude una struttura di eccellenza, leggi Policlinico Sassarese (ma potremmo citare altre realtà locali che erano dei veri gioielli del territorio), e se ne apre miracolosamente un'altra, sempre privata, ad Olbia sulla quale brilla il Santo Sigillo del Vaticano (Deus bò s'appada in sos bratzòs suos pro bòs traghettare in su chelu celeste...) e del Qatar insieme. Amorevolmente e fraternamente uniti dall' amore per la Sanità Privata a spese di quella Pubblica. Il Popolo bue può aspettare e, a questo punto, può benissimo mettersi in macchina e recarsi, per alcune visite specialistiche convenzionate, ad Olbia che potrà sostituire, con merito e titolo questa volta, il Villaggio di Sassari come Città Capoluogo nonché come punto di riferimento certo per l' intera economia del territorio…“