sabato 31 agosto 2019

Migrazione e schiavismo - Enrico Palandri


Il linguaggio denso di disprezzo e di normalizzazione del disprezzo per i migranti a cui ci hanno abituato Salvini, Putin e Trump, accompagna la reintroduzione della schiavitù. Gli africani sono presentati innanzitutto come poveracci, abusivi, gente che violenta e ruba. Questa diffidenza non è episodica o superficiale, ma sistemica, serve appunto a rendere inaccessibili i diritti di cui gode la parte più ricca del mondo.
Nel diciottesimo secolo, mente l’Europa elaborava idee di stato e democrazia ancora alla base delle nostre istituzioni, la ricchezza di Inghilterra e Francia, all’avanguardia in tante sfere giuridiche e scientifiche, era in larga misura costruita sul commercio degli schiavi (una famiglia su cinque secondo Taroor era direttamente coinvolta nel trafficarli); anche per noi oggi la ricchezza è legata all’accettare che questi gruppi umani, senza diritti civili o sindacali, trafficati e ricattati dalla precarietà dei loro arrivi in Europa, sopravvissuti a naufragi e accatastati in centri di accoglienza e smistamento, siano semplicemente migranti.

La realtà, come Salvini e la Lega, così vicini agli interessi commerciali del Nord Est sanno bene, è che l’unica speranza di sopravvivere per l’Europa è legata a una massiccia importazione di mano d’opera. Per la grande crisi demografica (e gli europei non ricominceranno a far figli per mandarli in fabbrica) e soprattutto per i limiti del ricollocamento delle industrie in paesi dove la mano d’opera è più economica. Presto o tardi infatti quelle strutture divengono parte della ricchezza nazionale del paese che le ospita, come è oggi clamorosamente evidente con la Cina ma presto e inevitabilmente della Romania e degli altri paesi dove gli italiani hanno costruito strutture industriali.

Da un punto di vista strategico è chiaro che se l’Italia come gli Stati Uniti, la Germania, tutti gli altri paesi industriali dell’occidente, vorranno mantenere dei livelli alti di produzione della ricchezza, sarà importando mano d’opera. La ricchezza al tempo stesso crea diritti per chi ne ha accesso, e primo fra tutti il diritto al controllo della natalità, cui seguono il diritto alla salute, all’educazione dei figli, a consumi che dimostrino la promozione sociale che la ricchezza permette. Ecco perché non si fanno figli o se ne fanno pochi.

A questo punto l’ipocrisia di Salvini, Trump, Putin è evidente: non si è affatto contro l’immigrazione, che è una parola difficile ma non terribile come quella che nasconde al proprio interno: lo schiavismo basato sul razzismo. La mano d’opera viene regolarmente importata, basta vedere chi lavora nelle fabbriche, chi ripara le autostrade o pulisce i nostri uffici, chi lavora in fabbrica o costruisce le case. Ma deve essere una parte della società senza diritti. Le loro religioni, abitudini, lingue e culture devono apparire minori, primitive. Devono essere schiavi.

Questa non è una novità. Forse la soluzione che possiamo augurarci è che, come nel secondo secolo a Roma dove in una decina d’anni gli schiavi riuscivano a diventare cittadini, è che l’emancipazione di chi raggiunge l’Europa o l’America sia efficace e rapida. Per questo è così importante denunciare l’ipocrisia della retorica di Trump e Salvini, che è semplicemente la foglia di fico di chi vuole lo schiavismo. Chissà se Salvini lo sa o se, nell’allegria di spiagge e karaoke in cui ha passato l’estate e che sembra così simile a quella del ventenne che si dichiarava nullafacente, capire che non necessariamente quello che si dice è quello che si pensa è troppo difficile. Per gli interessi che attraverso lui si schermano è chiaro che della migrazione poco sa e poco gli importa, ma sul tenere gli africani in una condizione di minorità ha idee chiarissime.

SE QUESTO È UN UOMO, UN’ALTRA VOLTA ANCORA - Alberto Barbieri




Il male del nostro tempo
“E se potessi racchiudere in un’immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei quest’immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero”. L’uomo è seduto davanti a noi nel posto medico per l’assistenza psicologica, un piccolo modulo di plastica, il caldo è soffocante. Siamo nel deserto, a pochi chilometri da Agadez, nel campo allestito dall’UNHCR per i rifugiati in fuga dalla Libia. L’uomo, sudanese, ha trenta, forse quarant’anni; racconta di come è fuggito dal Darfur, dove il suo villaggio è stato distrutto e parte della sua famiglia sterminata. Il resto delle persone a lui care, un figlio e un fratello, le ha perse nei campi di sequestro libici dove è rimasto quasi un anno; poi la fuga ancora in Algeria perché l’accesso alle coste libiche e all’Europa era bloccato e il respingimento da quel paese, con una marcia forzata nel Sahara nigerino, fino ad Agadez. L’uomo ha perso tutto; le persone, le cose, la sua terra. Racconta la sua storia con un tono di voce regolare, monotono, in un silenzio assoluto in cui anche il respiro di noi medici sembra essersi fermato, sembra che la sua voce debba spezzarsi da un momento all’altro e trasformarsi, se non in pianto, in lacrime. Ma non avviene. Al termine, il suo sguardo appare perduto, i suoi occhi vuoti, il suo corpo scarno e ripiegato su se stesso. Da un angolo della mia memoria riemerge la descrizione di un uomo ad Auschwitz, in Se questo è un uomo di Primo Levi.
Per ogni generazione c’è un momento in cui ogni certezza si sgretola e ciò che è umano sembra svanire. Per la nostra, quel momento è arrivato nel quotidiano incontro con uomini, donne e bambini migranti sopravvissuti alle atrocità commesse nei campi di tortura in Libia e sulle rotte migratorie del XXI secolo. Si dirà che l’accostamento dei campi di sequestro e dei centri di detenzione libici in cui dal 2011 almeno un milione di persone sono state rinchiuse per settimane, mesi o anni, all’Olocausto per eccellenza, ai campi di sterminio hiltleriani, sia del tutto pretestuoso data l’incomparabilità storica e oggettiva delle due vicende. Forse, probabilmente. Lascerò giudicare a chi leggerà queste righe. Mi limiterò ad elencare solo alcune delle volte (purtroppo gli esempi sarebbero assai di più, date le innumerevoli testimonianze di atrocità ascoltate come medico e psicoterapeuta in questi anni) in cui le storie e le evidenze raccolte dagli operatori di Medici per i Diritti Umani direttamente dai sopravvissuti mi hanno richiamato attraverso un prepotente meccanismo di associazione, le parole di Primo Levi. Faccio questo, lo ammetto, per impellente necessità personale, non pretendendo che le associazioni della mia testa abbiano sempre un’indiscutibile forze oggettiva.

Sonderkommandos (squadre speciali)
Così le SS chiamavano, in modo volutamente vago, i gruppi di prigionieri che venivano obbligati ad occuparsi dei forni crematori ad Auschwitz e negli altri lager nazisti.  “Aver concepito ed organizzato le Squadre (sonderkommandos n.d.r) è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti. Non è facile né gradevole scandagliare questo abisso di malvagità, eppure io penso che lo si debba fare, perché ciò che è stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). “Ho lavorato per la polizia libica ma non era proprio un lavoro. Loro mi usavano, io non mi potevo rifiutare. Quando ho provato a rifiutarmi mi hanno picchiato violentemente e hanno minacciato di uccidermi. Il mio compito era quello di recuperare i cadaveri dal mare, i cadaveri dei miei fratelli che morivano durante i naufragi. Li recuperavo e poi dovevo seppellirli. In questi due anni ho contato circa 3.000 corpi. Ho finito per farci l’abitudine. Alla fine non mi emozionavo più, non mi sconvolgevo più. Solo per le donne che erano visibilmente in gravidanza o per i cadaveri dei bambini non sono mai riuscito a farci l’abitudine. (L., 17 anni, dal Gambia, testimonianza raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, ottobre 2017).

La vergogna e la colpa
“L’uscir di pena è stato un diletto solo per pochi fortunati, o solo per pochi istanti, o per animi molto semplici; quasi sempre ha coinciso con una fase di angoscia… A mio avviso, il senso di vergogna o di colpa che coincideva con la riacquistata libertà era fortemente composito: conteneva in sé elementi diversi, ed in proporzioni diverse per ogni singolo individuo…Si soffriva per la riacquistata consapevolezza di essere stati menomanti. Non per volontà né per ignavia né per colpa, avevamo tuttavia vissuto per mesi o anni ad un livello animalesco”  (I sommersi e i salvati, Primo Levi).  “Vicino alla città di Ajdabiya siamo stati rapiti da militanti del Daesh (l’autoproclamato Stato Islamico, n.d.r) e per 3 mesi ci hanno tenuto in ostaggio. All’inizio ci maltrattavano con i fucili, con i coltelli, urinavano su di noi, facevano tutto quello che volevano senza pietà. Dormivamo ammassati in un capannone senza mangiare e senza bere. Io sono cristiano, ma quando ho capito che l’unico modo per salvare la mia vita era convertirmi l’ho fatto…” (M.I., dall’Eritrea, 22 anni, testimonianza raccolta a Roma presso la clinica mobile di Medu, novembre 2015). “Da lì, sono stato portato alla prigione di Al-Khums, lontano da Tripoli. C’erano più di 300 persone in ciascuna stanza, non c’era spazio per stendersi e per dormire. Ci davano poca acqua e poco cibo. Ogni giorno alle 13 ci portavano un pezzo di pane e un bicchiere di acqua. Questo era tutto ciò che abbiamo ricevuto per tutti gli 8 mesi in cui sono stato detenuto lì dentro.” (A. D, 20 anni, dal Gambia, testimonianza raccolta presso il CAS di Canicarao, Ragusa, novembre 2014).
“Più realistica è l’autoaccusa, o l’accusa, di aver mancato sotto l’aspetto della solidarietà umana   …quasi tutti si sentono colpevoli di omissione di soccorso…Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed, in specie, di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere di te ? … è una supposizione ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo… (I sommersi e i salvati, Primo Levi). “Il casolare dove eravamo tenuti prigionieri era a pochi chilometri dal mare, ad Al Zawiya. Quella sera le guardie entrarono nello stanzone in cui eravamo ammassati per portare via i cadaveri di alcuni di noi; poi iniziarono a picchiare selvaggiamente alcuni nuovi arrivati che, secondo loro, non obbedivano agli ordini abbastanza velocemente. Io e il mio amico approfittammo del trambusto; la porta era rimasta semi aperta. Iniziammo a correre senza guardare indietro, con tutte le forze che avevamo ancora nelle gambe. Eravamo quasi al sicuro in un campo di ulivi quando una raffica di mitra colpì il mio amico. Cadde a terra. Io mi fermai per un attimo, poi ripresi a correre perché le guardie stavano arrivando. Piango ora come allora. Lo porterò con me fino a che vivrò.” (A., 20 anni, dalla Sierra Leone, testimonianza raccolta al centro Medu Psychè, settembre 2017).
“E c’è una vergogna più vasta, la vergogna del mondo…c’è chi davanti alla colpa altrui, o alla propria, volge le spalle, così da non vederla e non sentirsene toccato … nell’illusione che il non vedere sia un non sapere” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). La vergogna del mondo, certo. Dell’Italia, dell’Europa, della comunità internazionale.  La nostra vergogna che è l’ostinazione a non voler vedere chi sta dall’altra parte del mare, per non sapere, per declinare ogni responsabilità. Oppure il voler credere, al di là di ogni evidenza, che sia tutto finto, sia tutta propaganda perché in realtà “qui da noi arrivano finti rifugiati, giovani palestrati con i cellulari di ultima generazione e le catene d’oro”. Chiunque abbia responsabilità di governo, qualunque cittadino degno di questo nome prima di formulare giudizi e intraprendere azioni dovrebbe riflettere su come i peggiori crimini del mondo contemporaneo siano sempre stati oggetto di incredulità e di ogni tipo di negazionismo; dovrebbe per lo meno porsi il dubbio prima di urlare il proprio verdetto.
Violenza inutile
“Violenza inutile, fine a se stessa, volta unicamente alla creazione di dolore; talora tesa ad uno scopo, ma sempre ridondante, sempre fuor di proporzione rispetto allo scopo medesimo” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). “La Libia è stato un inferno. Io sono maledetta, sono proprio maledetta. A Sabha mi hanno preso e portato in prigione, volevano da me dei soldi. Sono stata in prigione sette mesi: dal settembre 2016 all’aprile 2017. Mi hanno fatto di tutto! Ogni giorno ci prendevano e ci portavano da degli uomini per soddisfare le loro voglie. Mi hanno preso da davanti, da dietro, erano così violenti che dopo avevo difficoltà anche a sedermi. Mi filmavano mentre mi violentavano. Mi urinavano addosso! Un giorno mi hanno costretta ad avere un rapporto con un cane e loro mi hanno filmato. Sono maledetta” (N. S., dalla Costa d’Avorio, 40 anni, testimonianza raccolta presso il CARA di Mineo, giugno 2017). “Le guardie si divertivano a vederci soffrire. Ci portavano il cibo una volta al giorno e mentre ce lo davano ci torturavano con le scosse elettriche. Durante 3 mesi sono stato picchiato ogni giorno. Le guardie venivano, mi facevano togliere la maglietta e mi picchiavano sulla schiena con un bastone, dicevano che senza vestiti faceva più male e loro si divertivano. A volte invece di picchiarmi mi bruciavano, scaldavano un ferro da stiro e me lo appoggiavano addosso”. (G.O., 19 anni, dalla Nigeria, testimonianza raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, agosto 2017). “Vivevamo nel terrore anche perché sembrava che i carcerieri ci facessero del male per puro divertimento o per proprio piacere. A volte la notte arrivavano ubriachi e se qualcuno passava sparavano. A volte lasciavano morire le persone dissanguate.”.  (O., 18 anni, dalla Nigeria, testimonianza raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, 8 settembre 2017).
“Evacuare in pubblico era angoscioso o impossibile: un trauma a cui la nostra civiltà non ci prepara, una ferita profonda inferta alla dignità umana, un attentato osceno e pieno di presagio; ma anche il segnale di una malignità deliberata e gratuita” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). “Il cibo veniva preparato negli stessi contenitori dove ci si lavava e si urinava. Le guardie del centro mescolavano gli escrementi che i bambini facevano nella spazzatura con gli alimenti ed eravamo costretti a mangiare quel cibo anche perché eravamo da giorni o settimane a digiuno.” (M., dalla Costa d’Avorio, 38 anni, testimonianza raccolta presso il CARA di Mineo, agosto 2017).

Kapò 
“(i Kapò, n.d.r.) erano liberi di commettere sui loro sottoposti le peggiori atrocità, a titolo di punizione per qualsiasi loro trasgressione, o anche senza motivo alcuno: fino a tutto il 1943, non era raro che un prigioniero fosse ucciso a botte da un Kapo, senza che questo avesse da temere alcuna sanzione” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). “Preciso che io mi trovavo a Sabha nel ghetto dei nigeriani ed il capo del centro era il nigeriano Rambo. Ho poi saputo che c’erano ghetti per ogni nazionalità, ma tutti facevano parte del grande Ghetto di Alì. Ogni ghetto aveva un capo, spesso della stessa nazionalità dei prigionieri che dipendeva dai padroni libici. Subivamo ogni giorno violenze atroci. Rambo era una presenza fissa. Era presente all’appello e procedeva personalmente a torturare i ragazzi che non pagavano per essere liberati” (W., 20 anni, dalla Nigeria, testimonianza raccolta al centro Medu Psychè, dicembre 2017).

Gli scopi del sistema
“Il lavoro non retribuito, cioè schiavistico, era uno dei tre scopi del sistema concentrazionario (nazista, n.d.r.); gli altri due erano l’eliminazione degli avversari politici e lo sterminio delle cosiddette razze inferiori … il regime concentrazionario sovietico differiva da quello nazista per la mancanza del terzo termine e per il prevalere del primo” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). Estorsione di denaro e lavoro schiavistico, sono i principali scopi dei campi di sequestro e dei centri di detenzione libici. Come nei gulag, la morte è dunque “un sottoprodotto” mentre nei campi di sterminio hitleriani essa ero lo scopo ultimo. “Sono stato rinchiuso in una prigione per 2 anni. Non ci portavano niente da mangiare. Venivano per il cibo un giorno si e uno no e il cibo era solo un piccolissimo pezzo di pane. Durante questi due anni mi hanno picchiato tantissimo, tutti i giorni. E non mi facevano mai alzare, ero costretto a stare sempre seduto. Ho cominciato a non riuscire più a usare bene le gambe. Non riesco più a stendere le gambe, non riesco camminare e nemmeno a stare in piedi. Mentre ero in prigione non potevo muovermi, alla fine. Non sono riuscito nemmeno a salire sulla barca che mi portava in salvo. Un amico ha dovuto prendermi in braccio…Queste persone volevano da me un riscatto ma io non sapevo come pagare. Se sono libero oggi è perché mi hanno dato per spacciato, ero vicinissimo alla morte secondo loro. Per questo mi hanno liberato. Pensavano che da me non avrebbero potuto ottenere nient’altro.” (A., 20 anni, dalla Somalia, testimonianza raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, novembre 2017).
Sebbene non ne sia un aspetto fondante, il movente dell’odio e del disprezzo razziale è comunque rintracciabile anche per molte delle atrocità commesse in Libia. “Il trattamento che viene riservato agli eritrei e ai somali non è lo stesso. Gli eritrei in generale vengono trattati un po’ meglio, i somali invece vengono massacrati. Il cibo e l’acqua non ci sono per nessuno. Però ai somali fanno subire più violenze e crudeltà. Queste cose vengono fatte da Walid e dai suoi uomini che sono moltissimi. Si divertono a vederci soffrire. Di solito vengono la mattina e passano tutta la mattinata a giocare con noi. Ci costringono a farci del male l’uno all’altro. Per esempio se si accorgono che due persone sono moglie e marito chiedono ad uno di picchiare l’altra nel modo più forte possibile. Oppure se una persona sta molto male le guardie vanno lì e dicono “Tu non sei né vivo né morto, ti devi decidere”. E allora lo picchiano violentemente. Così la persona deve scegliere se riuscire ad alzarsi e continuare a vivere o lasciarsi andare e morire.” (G., 18 anni, dall’Eritrea, testimonianza raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, novembre 2017). “Sono stato quattro anni nelle mani di criminali e miliziani libici. Ho dovuto lavorare come schiavo. Ho subito violenze senza fine. Ma la cosa che ancora oggi più mi duole è che mi abbiano impedito di praticare la mia religione. Dicevano che un negro non può essere un vero musulmano.” (S., 31 anni, dalla Guinea, testimonianza raccolta al centro Medu Psychè, novembre 2017).

Umano e disumano
Non erano di “una sostanza umana perversa, diversa dalla nostra (i sadici, gli psicopatici c’erano anche fra loro, ma erano pochi): semplicemente “erano piuttosto bruti ottusi che demoni sottili. Erano stati educati alla violenza: la violenza correva nelle loro vene, era normale, ovvia.” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). Auschwitz ritornerà? Era una delle domande più frequenti che veniva rivolta a Primo Levi e agli altri superstiti dell’Olocausto. I lager libici mostrano qui forse l’aspetto più inquietante: anche senza la letifera ideologia nazista, pezzi di quel mostro possono ritornare in altre epoche e con altri uomini. Il lettore avrà notato che le testimonianze riportate in queste righe si arrestano al dicembre del 2017. I lager libici sono ancora lì, intatte macchine di dolore e di morte. Semplicemente i migranti che dalla Libia riescono a raggiungere l’Italia e l’Europa sono oggi enormemente meno. Come ha scritto Levi “le verità scomode hanno un difficile cammino”.
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Dal 2014 Medici per i Diritti Umani gestisce in Italia, Egitto e Niger programmi medico-psicologici di supporto a migranti e rifugiati sopravvissuti a tortura e violenza intenzionale. La web map Esodi raccoglie migliaia di testimonianze raccolte sulle rotte migratorie dall’Africa sub-sahariana all’Europa.


Morto un Salvini se ne fa un altro? - Marco Revelli



Verrebbe persino da provarne pietà, se non fosse per tutto il male che ha fatto e tutto l’odio che ha sparso. Il pomeriggio del 20 di agosto nell’aula del Senato è stato per Matteo Salvini una via crucis dai cui dolori nessun rosario ha potuto alleviarlo. Nei quaranta minuti della durissima, fredda e implacabile requisitoria di Giuseppe Conte dalla tribuna del Governo e nei venti della sua sgangherata replica dai banchi della Lega – un’ora esatta, in tutto – l’immagine del Capitano si è sfaldata come un presepe di sabbia, lasciando dietro di sé uno sguardo ebete, smarrito, di chi stenta a rendersi conto dell’urto che lo ha travolto, un volto gonfio e sfatto per mancanza di sonno e di idee, e infine un gruppo di sodali allo sbando portati sull’orlo di una crisi di nervi da un uomo solo al comando che si è buttato nell’abisso.
“Pugile suonato”, “pallone sgonfiato”, “cane bastonato”, “Beach leader spiaggiato” imperversano i social. E poi “Capitan Schettino”, “Capitan Mitraglia (a salve)”, persino “pistola” (“quando un pistola incontra un uomo con il fucile – ha scritto Travaglio parafrasando Clint Eastwood – il pistola è un uomo morto”). Mentre sulle prime pagine dei grandi giornali si affonda il coltello: “L’ultimo Bacione” (Repubblica), “Irresponsabile, ignorante e codardo” (Il Fatto), “Le sberle di Conte a Salvini” (Il Resto del Carlino)…
Nemmeno la dignità che in genere ci si riserva per i gran finali si è concesso Matteo Salvini, tentando, a conclusione del suo miserando intervento, di cancellare le tracce del proprio operato per attribuire ai colloqui “da mesi in atto” tra Di Maio e Renzi la vera causa della crisi che tutti noi, praticamente a telecamere aperte, abbiamo visto aperta invece da lui in persona, senza intermediari né mezze parole. E ordinando allo scudiero Centinaio di ritirare fuori tempo massimo la sfiducia al governo che lui stesso, dieci giorni prima, aveva dichiarato morto, come se quell’espediente postumo potesse estinguerne la colpa. Il tutto dopo aver aperto il discorso con la fatidica frase: “rifarei tutto quello che ho fatto”…
Da tempo aspettavamo che, secondo le ferree leggi dei tragici greci, alla Hybris del truce potente seguisse l’inevitabile Nemesis voluta dagli dei. E potremmo dire che questa è venuta con particolare prontezza, persino bruciando i tempi della normale maturazione drammaturgica (per Berlusconi c’erano voluti quasi vent’anni, per Renzi mille giorni…). E tuttavia aspetterei a festeggiare, nonostante l’impazienza del coro a proclamare il “Giustizia è fatta” e ad attaccare il “Te Deum”. Per almeno due ragioni.
Intanto perché se ieri Salvini è morto in Senato, non è detto che non possa rinascere nel Paese domani. Se tra i legni e i broccati ben pettinati dell’aula di Palazzo Madama è potuto apparire per quel nulla che è, non altrettanto vale per quella specie di suburra in cui si è trasformata la parte più bassa e disgregata della società italiana, dove la sgrammaticatura (linguistica e politica) paga, la millanteria premia e la povertà mentale può apparire concretezza o, quantomeno, condivisione di destino. E attenzione! Quella parte “bassa e disgregata” non è affatto un’area ristretta e residuale, periferica e minoritaria come poteva esser considerata un tempo, è un bacino che si è esteso e intorbidito negli ultimi anni, man mano che si erodeva e disgregava l’intera struttura della società sotto la forza distruttiva di una crisi economica e sociale che è risalita per li rami dalle antiche classi lavoratrici (massacrate dalla precarizzazione e dalla concorrenza sul mercato del lavoro globale) al vecchio e nuovo ceto medio. Forse non abbiamo dedicato alla cosa la necessaria attenzione: ma i successivi “salti in avanti” del consenso per Salvini e la sua Lega in quest’anno di governo giallo-verde coincidono quasi perfettamente con le sue esibizioni di maggior “scorrettezza” e di più ostentata disumanità: la guerra dichiarata alle Ong che salvano, a cominciare dal caso dell’Aquarius (una settimana prima del diniego di sbarco per i 629 salvati dalla nave di Medici senza frontiere, cioè all’inizio di giugno del 2018, la Lega era quotata al 23%, alla fine del mese era balzata al 28%), il salto di qualità con la Diciotti (il sequestro dei suoi 190 naufraghi è incominciato il 20 di agosto, in quello stesso mese il consenso per la Lega è passato dal 29% al 32%, sorpassando i 5 Stelle), l’ossessiva politica dei “porti chiusi”, la solidarietà militante con i giustizieri di se stessi (il gommista di Monte San Savino, il tabaccaio di Ivrea), la tolleranza benevola con i responsabili di atti di razzismo o di xenofobia. Simmetricamente dovrebbe farci pensare che non ha spostato di un millimetro la curva del consenso per Salvini lo scandalo Rubligate, anzi questa ha continuato a salire (era al 35,7 alla fine di giugno, è passata al 37,7 alla metà di luglio), così come non hanno pesato i 49 milioni di Euro fatti sparire…La lunga lista di scorrettezze istituzionali, abusi di potere, sconfinamenti, ignoranza o trasgressione delle regole presentata da Giuseppe Conte al suo Ministro fedifrago hanno colpito la ristretta cerchia degli addetti ai lavori e dei cronisti parlamentari, gli ammalati di politica come noi, ma all’Italia del Papeete e delle grigliate di Ferragosto non ne è arrivato neppure un refolo di vento, figurarsi la tempesta che servirebbe per spazzar via quell’ammasso di voti rancorosi che chiede riti barbarici e sacrifici umani… Se si votasse oggi, o tra due mesi (il che è lo stesso) quel consenso greve resterebbe probabilmente inchiodato su percentuali non molto minori di quelle di prima della crisi. Senza passare per una fase, non breve, comunque non brevissima, di decompressione o di decontaminazione – una qualche tregua di Dio in cui al Capitan Fracassa di ieri sia tolto il piedistallo ministeriale – difficilmente si intaccherebbe il capitale di cieco consenso accumulato in questi mesi di uso spregiudicato dei propri gradi dorati di ministro di polizia.
Una buona parte del successo di Matteo Salvini in questo anno abbondante di permanenza al Viminale è legata al Viminale stesso. A quello straordinario megafono mediatico che è la carica di Ministro di Polizia: l’uomo della forza, quello che può chiudere i porti e mettere a tacere le coscienze con una firma. La sua immagine si è dilatata a dismisura, fino a ridurre nell’ombra il resto della squadra di governo, perché era lui, in qualche modo, il Governo: il governo delle cose, non delle carte, quello che poteva sdoganare i peggiori sentimenti perché istituzionalmente custode della Legge e dell’Ordine, che con un gesto o un fonogramma poteva provocare la sofferenza e minacciare la morte di centinaia di esseri umani, il che, nella visione primordiale delle cose, è il solo, autentico segno del potere.

Ci pensino bene quelli – e non sono pochi – che guardano con una certa indifferenza, o magari anche con simpatia, alla possibilità del “voto subito”. Che pensano che in fondo, dato che con le europee gli equilibri nel paese sono cambiati, è bene adeguare il parlamento a quel nuovo assetto. O che si fregano le mani all’idea che gli odiati 5 Stelle siano finalmente dimezzati, ridotti a un terzo, cancellati. O magari che si illudono che il “gatto di Schrödinger”, chiuso nella scatola confezionatagli dal suo ex premier, sia defunto. Ci pensino davvero bene, perché il “voto subito” significherebbe non solo dar ragione, postuma, al Salvini che ha voluto e aperto la crisi di governo (riabilitare Capitan Schettino elevandolo al rango dell’eroe De Falco), ma anche aprirgli un’autostrada verso la conquista di una maggioranza (in ticket con la Meloni) che schiaccerebbe ogni residua resistenza di legalità costituzionale. Ci pensi bene soprattutto Zingaretti, magari controllando in qualche modo la voglia matta che ha di liberarsi finalmente della zavorra renziana, perché se per togliersi quello sfizio consegnasse il Paese alla peggior destra della nostra storia repubblicana, nessuno glielo potrebbe mai perdonare.
Naturalmente può darsi che tutto questo non basti. Che una drastica astensione dal potere non produca il dimagrimento sperato, e che la possibilità di gestire dalle piazze anziché dal Palazzo il drammatico passaggio di una manovra economica che non sarà di certo popolare (anche se indispensabile a evitare il default) permetterebbe allo sconfitto nel duello istituzionale un’ulteriore abbuffata di voti e simpatie “popolari”. Una ragione in più non per “votare subito” ma per tentare di mettere insieme una coalizione di governo di “sicurezza costituzionale”, capace di durare almeno fino all’inizio del 2022 (quando si eleggerà il nuovo Presidente della repubblica) e di fare una riforma elettorale in senso proporzionale puro che allontani il rischio che una maggioranza nero-verde di tipo weimariano possa manomettere la Costituzione senza neppur bisogno di un referendum confermativo e ridisegnare a propria immagine la composizione della Corte.
Questa non è – con tutta evidenza – una normale crisi di governo. E’ una crisi di sistema. Una situazione di disgregazione istituzionale e sociale in cui nessuna forza in campo appare più credibile non solo alle altre ma neppure a se stessa. In cui, come si dice, nessuno si fida più di nessuno. E ognuno dei player in campo è uno e bino, diviso al suo interno in frazioni e in fazioni diffidenti e gelose. Una di quelle condizioni in cui filosofi e teologi consigliano il ricorso al “principio di prudenza” più che a quello di prestazione.

venerdì 30 agosto 2019

La crociera dei bambini, onda su onda

C’era una volta l’uomo nero, ai bambini si diceva (si dice ancora?) di fare da bravi se no arrivava l’uomo nero.
Si sa che in Africa si spaventano i bambini minacciando l’arrivo dell’uomo bianco.
Adesso sappiamo che l’uomo bianco più spaventoso (per i bambini salvati dalle acque) porta la barba, ha studiato teologia alla Papeete Beach University, ma il rosario lo impugna come se fosse un racchettone da spiaggia.
D’altronde ha fatto solo il primo modulo, di quella facoltà, su come usare il crocefisso.
Chissà le smorfie che farà quando gli leggeranno (se fa parte del programma) che il Padre della Chiesa Agostino da Ippona era africano, è arrivato in Italia in barcone, è stato a Roma, e anche a Milano.

Tutti noi speriamo che quei bambini incontreranno uomini bianchi che vorranno loro bene.


MIGRANTI – Derek Walcott



L’onda della marea dei rifugiati, non un semplice passo di oche selvatiche,
gli scali di carbone nei vagoni merci, le facce smunte,
e in particolare lo sguardo fisso dei bambini come succede ai corpi dei morti
dentro le fosse di calce, o come fa il pacciame luccicante che si disfa
sotto i piedi in autunno nel fango, mentre il fumo di un cipresso
segnala Sachsenhausen,)
e quelli che non stanno sopra un treno, che non hanno muli o cavalli,
quelli che hanno messo la sedia a dondolo e la macchina per cucire
sul carretto a mano perchè da tempo le bestie hanno lasciato
i loro campi al galoppo per tornare alla mitologia del perdono,
alle campane di pietra sui ciottoli della domenica e al cono
della guglia del campanile aranciato che buca le nubi sopra i tigli,
quelli che appoggiano la mano stanca sulla sponda del carro
come sul fianco del mulo, le donne con la faccia di selce
e gli zigomi di vetro, con gli occhi velati di ghiaccio che hanno
il colore degli stagni dove posano le anitre, e per le quali
c’è un solo cielo e una sola stagione nel corso di un anno
ed è quando il corvo come un ombrello rotto sbatte le ali,
si sono tutti ridotti alla comune e incredibile lingua
della memoria, e questa gente che non ha una casa e nemmeno
una provincia parla delle fonti limpide e parla delle mele,
e del suono del latte in estate dentro le zangole
piene,
e tu da dove vieni, da quale regione, io conosco
quel lago e anche le locande, la birra che si beve,
e quelle sono le montagne dove riponevo la mia fede,
ma adesso sulla carta, che è simile a un mostro, altro non si vede
che una rotta che ci porta verso il Nulla, anche se sul retro
c’è la veduta di un posto che si chiama la Valle del Perdono,
dove il solo governo è quello dell’albero dei pomi e le forze
schierate dell’esercito sono gli striscioni di orzo
all’interno di umili tenute, e questa è la visione
che a poco a poco si restringe dentro le pupille
di chi muore e di chi si abbandona in un fosso,
rigido e con la fronte che diventa fredda come le pietre
che ci hanno bucato le scarpe e grigia come le nuvole
che quando il sole si leva, si trasformano subito in cenere
sopra  i pioppi e sopra le palme, nell’ingannevole aurora
di questo nuovo secolo che è il vostro.

(traduzione di Luigi Sampietro)


giovedì 29 agosto 2019

suona Roby Lakatos col suo gruppo



Le chiacchiere di Biarritz e le bombe di Israele - Alberto Negri




Gli ingredienti per la rappresentazione di Macron c’erano tutti: Biarritz ha fornito la scenografia vacanziera e il palco del napoleonico Hotel du Palais per la messa in scena dei Grandi della Terra. Soprattutto si doveva soddisfare il primo attore, Donald Trump, un «pericoloso e petulante narcisista» come lo definisce sul Financial Times il suo ex consigliere Anthony Scaramucci: una star bizzosa, da trattare con i guanti.
In primo piano nel canovaccio francese il disastro mondiale dell’Amazzonia, le disuguaglianze economiche e sociali, l’Iran, la Cina, le guerre commerciali. Ma niente di questi temi così seri doveva prendere un tono drammatico, come era avvenuto al summit dell’anno scorso in Canada, ma virare verso la pochade ottocentesca, un intreccio caratterizzato da equivoci e doppi sensi da interpretare. E così è stato: il regista Macron ha puntualmente sorpreso il pubblico con i colpi di scena di al Sisi e Zarif senza mai scivolare in una tediosa, e pericolosa, serietà.
Questa del G-7 doveva restare una commedia brillante, un puro divertimento senza neppure l’ombra inquietante di una vera notizia. Un’elegante fake news per distrarre il pubblico internazionale dalla prossima e temuta recessione economica.
Ci sono le chiacchiere e poi c’è la realtà, al G-7 come in qualunque consesso umano. Il vertice di Biarritz non è stato esattamente come lo descrivono le cronache. Con il colpo di teatro dell’arrivo del ministro degli Esteri iraniano Macron ha annunciato alle tv che era stata raggiunta un’intesa per inviare un messaggio comune a Teheran. Trump poco dopo lo ha smentito, anche se ha aggiunto di non avere niente da obiettare agli sforzi francesi di mediazione. «Siamo aperti al negoziato _ è la posizione ufficiale Usa _ ma non ci sono le condizioni per avviarlo». Stop.
In realtà Trump ha lasciato fare a Macron le sue evoluzioni mentre Israele bombardava in quattro Paesi del Medio Oriente facendo la sua guerra all’Iran. Gli israeliani hanno colpito in Iraq le milizie sciite affiliate a Teheran, poi ha cercato di bersagliare gli Hezbollah filo-iraniani a Beirut, preso di mira i Pasdaran degli ayatollah in Siria e bombardato Gaza. In poche parole mentre a Biarritz si faceva finta di discutere, il maggior alleato Usa nella regione faceva parlare le armi. Nei campi di battaglia se ne fregano del G-7.
Per il presidente americano questi vertici internazionali sono di una noia assoluta, l’unica cosa che poteva interessarlo era riammettere Putin espulso nel 2014 per l’annessione della Crimea ma gli europei si oppongono e la questione è stata per il momento archiviata.
La stessa cosa vale per i dazi, una guerra commerciale che sta trascinando al ribasso l’intera economia mondiale. Trump non solo vuole imporli ai cinesi ma anche agli europei: è consapevole che questo può portare a una vasta crisi economica mondiale ma è disposto a pagarne il prezzo, almeno fino al punto che questo non incida sulla sua rielezione, visto che ormai è entrato in piena campagna elettorale.
Anche la Brexit nella pochade di Biarritz è apparsa meno drammatica ma persino il prossimo amicone di Trump, il premier Boris Johnson, ha ribadito che il libero commercio è un pilastro della politica britannica da 200 anni. Per ora il patto transatlantico non si vede e Trump, per non perdere troppo tempo, ha vestito per un momento anche i panni del piazzista vendendo il suo grano ai giapponesi. Tokyo ha specificato che acquisterà solo le quote di grano Usa che non saranno vendute in Cina.
Quanto all’Italia questo G-7 era soltanto una passerella per il premier dimissionario Giuseppe Conte che, contrariamente alla Lega di Salvini, sostenendo la candidatura della tedesca Ursula von der Leyen alla presidenza della commissione europea, si è guadagnato l’appoggio dell’establishment dell’Unione, secondo il copione dettato dal presidente Mattarella.
Conte è apparso così sicuro da dichiarare che «dopo un anno di governo è in grado di indicare le soluzioni per risolvere i problemi del Paese». Neppure Andreotti aveva mai detto una cosa simile dopo mezzo secolo ai vertici della repubblica.

mercoledì 28 agosto 2019

Mal di mare – Giovanni Gusai



Sul retro, il cancello basso resta sempre aperto. Il chiavistello non ha lucchetto. Così lui lo fa scorrere e torna a casa. Il cane non abbaia, non ringhia, non dubita. Gli si affianca docile. Strofina la testa sulla coscia di lui. Una mano gli scompiglia il pelo nero. In quel reciproco riconoscersi sgorgano le prime lacrime. Si è imbarcato trentasette giorni fa. Mai avrebbe pensato di poter diventare bandito, come suo bisnonno un secolo fa. Ma lui è bandito d’acqua, senza foreste in cui bivaccare né cespugli come ripostigli. Solo mare aperto, senza ombra, senza rifugi. Il giardino è muto, affacciato sul mare e pregno d’umido e sale. Come le ossa di lui, le mani, la pelle bruciata, gli zigomi scavati dalle lacrime. Tutto è scuro, a parte le apparizioni fugaci della luna oltre le nuvole. Zoppica fino alla veranda. Buio lo segue.
Lei dorme sul lato opposto della villetta. Tiene il cellulare sul comodino, le finestre aperte e le zanzariere abbassate, la luce del corridoio accesa. Sogna agitata. Spalanca gli occhi quando sente Buio grattare sulla porta. Quella sulla veranda, sul giardino, verso il mare. Nessuno passa da lì. Solo lui sa del cancello basso. Perciò trasecola, scatta in piedi confondendo le immagini del sogno con le forme della camera, incespica dentro le ciabatte e cauta, lieve, scivola fino all’ingresso. Dalla finestra si insinua la brezza leggera e salmastra dei posti di mare. Lei trema e si stringe nelle spalle, dà un’occhiata alla stanza della bambina e posa l’orecchio sulla porta.
– Buio. – Sussurra piano. – Dimmi che sei con lui.
La bestia drizza le orecchie, fissa perplesso lo sguardo liquido del padrone, disfatto di pianto, e raspa sul legno esterno.
Allora lei si porta una mano alla bocca per soffocare il grido, ora è sveglia davvero, e viva. Armeggia con la serratura, e quando apre lui dà un’ultima carezza a Buio e la casa lo inghiotte. Lei richiude, gli si butta al collo e strizza le palpebre come se facendole cedere la felicità potesse scappare via. Nell’abbraccio lui ha l’odore del sangue rappreso, del vomito, della salsedine e della benzina. Puzza come chi è scampato all’inferno, e non riesce a ricambiare la stretta. Anzi geme e tossisce per il dolore delle braccia ossute di lei sulle costole livide. Ma non dice niente. Non la spaventa, non la inganna, non la ignora. Si crogiola nel dolore della stretta, che è così vero e così intero da cancellare il male del mese appena trascorso. Lei trattiene i conati, sopporta l’umidità fredda della cerata sul suo corpo tiepido, resiste sulla punta dei piedi appesa al suo uomo, che è un eroe e un folle. Quando alla fine si separano, nella penombra della cucina illuminata solo dalla luce gialla dell’andito, lei si scosta di un passo e si trova di fronte il volto di lui. Il ricordo che ne aveva è stuprato dai lividi, dalle percosse, dai denti spezzati, dalle ecchimosi, dalle labbra spaccate. La forza agile è sfumata in una postura storta, incurvata dalle botte e dalla fatica della fuga.
– Amore. – Dice, senza forza. – Cosa ti hanno fatto?
Lui la accarezza e la consola. – Sono a casa. Vieni. – La prende per mano. – Dorme? – Fa un cenno.
Lei lo segue e sa, guardandolo, che non riacquisterà mai la postura della quale si era innamorata.
La bambina sta supina, le braccia morbide verso l’alto, con le mani chiuse a pugno.
– È grande.
Lei fa sì con la testa.
– Chiede sempre di me?
– Sempre.
– Andiamo. Non voglio svegliarla.
Dopo la doccia, sdraiato accanto a lei, comincia a raccontare. Senza guardarsi. Soltanto, lui la prende per mano e più va avanti più la stretta cede.
– È andato tutto bene fino al ventinovesimo giorno. Siamo riusciti a fare tre recuperi, andata e ritorno con la barca. Senegal, Nigeria, Gambia. Sono stato fortunato a finire con quell’equipaggio: navigatore e cuoco eccellenti, due marinai, un medico e io. Abbiamo superato il carico più di una volta. Ma la regola è quella: più possibile, più in fretta possibile. La Compagnia ha organizzato una rete infallibile di contatti sulla costa. Ormai ci sono porti sicuri ovunque, in cale e spiagge insospettabili. Una volta curati e sfamati basta lasciarli in mani fidate, e sono liberi. Non voglio raccontarti cosa ho visto. Non si può immaginare. Avevamo paura di dormire per non fare gli incubi.
– Cosa vuoi raccontarmi?
– Il trentesimo giorno siamo dovuti scappare. Qualcuno ha tradito. La Compagnia paga bene ma le guardie pure meglio, e hanno la legge dalla loro. Ci attendevano in un porticciolo che credevamo sicuro, e lì malmenati e umiliati. Solo io e il cuoco siamo riusciti a fuggire. Ma erano altre guardie, e altro mare, sul lato opposto dell’isola. Possiamo stare tranquilli, non verranno a cercarci e da qui a poco le cose cambieranno. La Compagnia resiste alla grande. Rovescerà le cose.
– E tu li aiuterai ancora?
Il soffitto non ha risposte. Allora lui chiude gli occhi, e vede il corpicino bianco di sua figlia fra le cataste di corpi neri, in mezzo a una burrasca. Grida e sveglia tutti di soprassalto.

Ma chi sono gli italiani? - Max Mauro


Qualche tempo fa, un po’ scherzando, ho spiegato a un amico nero inglese la probabile origine del mio cognome.
Mauro è uno di quei cognomi, assieme a Rossi, Bianchi e pochi altri, che sono storicamente distribuiti in quasi tutta la penisola. La maggioranza dei cognomi italiani invece ha una connotazione regionale e i loro possessori sono localizzabili in specifiche aree. Fin da piccolo sono stato incuriosito dall’origine semantica e geografica dei cognomi. Raccoglievo le figurine dei calciatori presenti e passati, vedendo nomi come Zoff, Franzot, Bearzot, Burgnich, Buffon e mi chiedevo: perché in Friuli ci sono tutti questi cognomi che finiscono con una consonante? E perché il mio no? Questo “giochetto” mi portò a ragionare sui significati dei cognomi e sulle traiettorie che hanno portato alla loro formalizzazione, avvenuta in gran parte in epoca medievale.
Alla voce “Mauro” il dizionario Treccani attribuisce due significati correlati:
1. a. In età romana, denominazione di una parte degli indigeni dell’Africa settentrionale, in particolare di quelli che costituirono l’antico regno di Mauritania, corrispondente all’odierno Marocco e a una parte dell’Algeria. b. Nel medioevo il termine indicò, genericamente, i musulmani; in seguito, i musulmani cacciati dalla Spagna e rifugiatisi in Marocco, Algeria e Tunisia.
Dunque “Mauro” era storicamente qualcuno con la pelle scura, come quella degli abitanti della Mauritania, i mori; per di più musulmano. La cosa non può sorprendere, perché la penisola è stata, anche grazie alla sua ampia esposizione al mare, sempre terra di incontri, spostamenti, migrazioni. Fra i miei antenati c’era qualcuno con la pelle più scura di altri e magari di religione non-cristiana.
Questa complessità, che con i concetti moderni definiremmo multietnica e multiculturale, è tangibile particolarmente nelle cosiddette zone di confine (ma confine da cosa? confine con chi?), non solo nei cognomi ma anche nei toponimi. Per esempio, il villaggio del Medio Friuli in cui sono cresciuto dall’età di 5 anni, il luogo d’origine di mio padre, si chiama Gradisca di Sedegliano. In Friuli vi sono diversi toponimi simili e diverse località con l’affisso “Grad”, e hanno tutti la stessa origine slava: “gradišče” (luogo fortificato).
Come molti altri paesi (inclusi i vari Gorizzo, Goricizza ecc nello stesso Medio Friuli) il mio ha un’origine slava: erano località fondate da coloni slavi invitati dai Patriarchi di Aquileia a ripopolare la fertile pianura friulana dopo una delle varie distruttive discese verso l’Italia dei popoli nordici. C’è di che riflettere considerando i sentimenti anti-slavi presenti in questa regione, alimentati prima da Mussolini (il razzismo fascista si è manifestato inizialmente come razzismo anti-slavo) e continuati nella nuova Repubblica, nell’ambito della Guerra Fredda. Come si può avere in astio lo “slavo” se i nostri stessi paesi sono stati fondati da slavi?
Seguendo questo piccolo tour onomastico-geografico, le mie origini risultano nere e slave (forse pure musulmane). Eppure io ho un passaporto italiano e la pigmentazione della mia pelle mi rende agli occhi di molti (i più?) passabilmente, credibilmente “italiano”, e quindi europeo. Perché? Perché queste categorie appaiono essere – secondo la logica razzista che non ha più pudore a paventarsi, da San Pietroburgo a Vienna passando per Londra e Roma – esclusive? Non dovrebbe essere normale essere italiano e nero, musulmano e italiano, italiano-sloveno, tedesco-italiano-albanese allo stesso tempo?
L’identità, come ogni cultura, è un percorso fluido e assorbente anche quando non vogliamo ammetterlo, anche quando facciamo di tutto per negarlo. Pur se isolati in mezzo ai monti, la nostra realtà e la transculturalità, il divenire incompiuto e incompiente di molteplici incontri. Dalla loro affermazione nel 19° secolo, gli Stati-nazione hanno fatto di tutto per marginalizzare e cancellare questa condizione, formando con mezzi autoritari popolazioni apparentemente omogenee (“Fatta l’Italia, facciamo gli Italiani”) funzionali al progetto capitalista, all’illusivo sogno capitalista.
Prima di provare a chiudere il ragionamento, chiedo a chi legge ancora un attimo di pazienza se rivolgo nuovamente l’attenzione alla mia biografia. Voglio fornire ulteriori spunti di riflessione sull’insensatezza della “bianchezza” e della “nerezza” come definizioni di culture, ma sulla persistenza della loro funzione di ingranaggi sociali. In altre parole, si tratta di mettere a fuoco – in termini un po’ semplificanti, lo ammetto – il razzismo culturale che dal secondo dopoguerra ha soppiantato quello biologico nei discorsi pubblici e che sta avendo crescente nuova diffusione in Europa, da nord a sud, da est a ovest.
Nel 2006 mi trovavo a Caracas, lavorando come giornalista. Ero nella zona del centro storico della città e dovevo recarmi per un’intervista nelle zone ad est, quelle dove risiede la parte ricca dei residenti, composta in stragrande maggioranza da bianchi di origine europea, immigrati soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Chiamai a gesti un taxi che si fermò in uno stridore di gomme. Il tassista mi fece salire e, dopo avermi chiesto dove andare, partì a grande velocità infilandosi nel vorticoso traffico urbano. Poco dopo, voltandosi in corsa, mi fece una domanda che probabilmente sentiva urgente: «Donde vienes? Eres judío?».
L’idea che potessi passare per ebreo (judío) non mi era mai sovvenuta. In quella parte di città non si vedevano molti bianchi europei. A piedi, poi, erano una rarità, da qui forse l’impeto dell’autista nell’inquadrare la mia origine, che poteva per qualche ragione apparirgli “esotica”. Per quanto spiazzante fosse per me in quel momento la domanda-supposizione del tassista caraqueño, appena due anni più tardi, nell’estate del 2008, mi venne posta più o negli stessi termini a Città del Capo, Sud Africa, dove mi trovavo per una ricerca sugli immigrati di origine italiana. A una fermata dell’autobus un uomo nero seduto in terra mi chiese dei soldi e senza attendere la mia riposta alzò lo sguardo verso di me e disse in modo interrogativo: «You Jew?» (sei ebreo?).
Cosa sono quindi io? Cosa vuol dire attribuirsi una “identità nazionale”, al di là della fortunosa sorte di essere in possesso di un passaporto del Nord del mondo? Io sono quello che gli altri vogliono vedere. Quel che percepiscono ed elaborano attraverso categorie e informazioni che hanno assimilato nel corso delle loro vite. Sono quello che gli altri sono disponibili a vedere di me.
Questa semplice deduzione assume una dimensione più complessa, con implicazioni più profonde e gravi, nel caso di chi venga percepito come “straniero” oggi in Italia, o in Europa. Si tratta soprattutto di persone con la carnagione più scura (ma di quanto? rispetto a quale supposto “standard”? Forse la pubblicità della pasta Barilla o di una marca di birra regionale in Germania possono darcene un’idea).
Si tratta, in fondo, della linea del colore, di cui parlava l’intellettuale afroamericano W. E. B. Du Bois nei primi decenni del novecento. Era quella linea che aveva fatto sì che i popoli europei avessero creato per sé stessi un mondo dove più di tre quarti della popolazione erano trattati da inferiori, popoli da colonizzare, da sottomettere, sfruttare, e per diversi secoli, nel caso degli africani, da comprare, vendere e da lasciar morire o uccidere quando non servivano più. Era quella linea che definiva, nella visione dello psichiatra Frantz Fanon – francese originario della Martinica – lo sguardo del bianco che crea il nero, una supposta alterità, e creando il nero crea anche se stesso.
Questo percorso storico non è sepolto, non è passato, ma anzi continua a produrre effetti, a ribollire e diffondere semi venefici nelle forme più diverse. «When Brexit comes you will be gone» (Quando arriva Brexit te ne dovrai andare) si è sentita dire, in mezzo a epiteti razzisti più violenti, una ragazza nera a Londra, la città in cui è nata. E’ solo una piccola storia di razzismo quotidiano, una come tante anche in Gran Bretagna, ma è finita sui giornali perché avvenuta in un luogo pubblico, in un’agenzia per scommesse, di fronte a testimoni. In questo caso l’autore è stato condannato a 12 mesi di lavori sociali e una multa di 600 sterline.
Le cronache italiane sono purtroppo ricolme di episodi simili, che spesso rimangono impuniti. Si tratta non solo di abusi verbali, di insulti razzisti ma di assalti fisici, come quelli avvenuti a lavoratori africani in provincia di Foggia, colpiti da sassi lanciati da auto in corsa, all’alba, mentre in bicicletta si recavano a lavorare nei campi. Si tratta anche di omicidi, come quelli di Samb Modou e Diop Mor, a Firenze per mano di un “intellettuale” neonazista (Gianluca Casseri) o tentati omicidi come quelli di Macerata, per mano di un fervente sostenitore di Matteo Salvini, un militante della Lega ed ex candidato alle elezioni comunali.
Nell’immaginario dominante, il “nero” incarna il diverso, l’altro, lo straniero, ed è irrilevante se si tratta di cittadini italiani o di altri paesi europei. La razzializzazione dell’immigrato (il processo per cui le persone vengono accumunate in base a delle categorie stabilite da altri, per tenerle in una posizione subordinata) si somma alla razzializzazione della linea del colore. E’ il presupposto del discorso razzista.
Il clima creatosi in Italia, una vera macchina di desideri distruttivi, di odio epidermico alimentato dalla destra populista e apertamente razzista («Prima gli italiani!») ha spinto un giornalista di Avvenire, Matteo Fraschini Koffi, a scrivere un articolo dal titolo emblematico: Io, italiano disorientato, denuncio. Ho la pelle nera e ho paura.
E’ in questo clima, che ha un profilo transnazionale, soprattutto in occidente – pur con distinzioni e diverse espressioni a seconda dei Paesi – è necessario individuare narrazioni alternative, contronarrazioni da opporre al discorso sovranista, che non è altro che un goffo travestimento dei fascismi di sempre. Una di queste è lo smontare dialetticamente l’idea dello stato-nazione, dell’identità nazionale esclusiva ed escludente. Fare questo in ogni occasione, con chiunque, di persona o sulle reti digitali (i tanto popolari e potenti “social”).
E’ un compito di tutti, per cercare di liberare il genere umano da quella che James Baldwin definì nel suo ultimo libro (The evidence of things not seen, 1985) «la soffocante idea dell’identità nazionale e la tirannia delle dispute territoriali». Credere nell’umanità, oggi più di sempre, è credere nell’identità fluida e transculturale, al di là degli Stati nazionali e dei nazionalismi vecchi e nuovi.

Lavoratori call center come gli schiavi: 128 persone pagate 3,78 euro l’ora



Una situazione di caporalato paragonabile alle fabbriche del primo Novecento. È quella che si sono trovati davanti gli uomini dell’Ispettorato del lavoro di Cagliari-Oristano durante un controllo, accompagnati dai carabinieri, nelle sedi di due società del capoluogo che svolgono attività di call center per conto di un’importante società nazionale fornitrice di energia elettrica.
Nei giorni scorsi, dopo un lungo lavoro di indagine, alle due società è stato notificato un verbale di accertamento con cui si contesta “l’utilizzo illegittimo di contratti di collaborazione coordinata e continuativa che in realtà mascheravano veri e propri rapporti di lavoro subordinato relativi a 128 persone e gestiti secondo condizioni e modalità talmente irrispettose dei diritti minimi dei lavoratori da renderli paragonabili a quelli in essere in Europa ai primi del Novecento”. Così in una nota diffusa dallo stesso Ispettorato e firmata dal capo territoriale, Eugenio Annicchiarico.
L’Ispettorato sta adesso valutando “l’ipotesi di una denuncia alla Procura della Repubblica per il reato di caporalato, previsto dall’articolo 603 bis del Codice di procedura penale”, è scritto ancora nel comunicato. Complessivamente sono già state comminate sanzioni amministrative a carico delle due società per le irregolarità su tutti i 128 lavoratori. Il valore delle sanzioni ammonta a 109.333,68 euro, “con un recupero di contributi omessi o evasi da versare nelle casse dell’Inps e pari a 497.851 euro”. Quindi il totale supera i 607mila euro.
Stando ai calcoli fatti dall’Ispettorato i dipendenti dei due call center venivano pagati 3,78 euro per ogni ora di lavoro, una miseria assoluta, “con addebito in detrazione delle ore di assenza o di mancato lavoro”. Ancora: ai 128 contrattualizzati nella forma considerata illegittima, veniva imposto “uno stringente potere direttivo che si manifestava attraverso minuziose indicazioni sulla gestione della telefonata e nonché l’utilizzo di specifiche frasi da dire ai clienti, con conseguenti rimproveri verbali nei confronti degli operatori che si discostavano”. Dalle verifiche è poi risultato che gli orari di lavoro erano “rigidi e immodificabili“.
E poi “l’esercizio del potere disciplinare che poteva giungere fino all’allontanamento dei lavoratori, i quali erano privi di ogni forma di tutela. A loro veniva pure chiesto di firmare lettere di dimissioni in bianco all’atto dell’assunzione”. Peraltro “alla scadenza dei contratti molti lavoratori non erano stati retribuiti integralmente. Erano inoltre previsti dei bonus, i quali, di fatto, non venivano mai corrisposti. È stato anche accertato che, per quasi un anno, le due società non avevano nemmeno provveduto a trasmettere all’Inps le denunce contributive mensili”.
Nel corso delle lunghe indagini portate avanti dall’Ispettorato di Cagliari-Oristano, è emerso inoltre che “una delle persone apparentemente assunta come dipendente di fatto operava con i poteri organizzativi, gestionali e disciplinari tipici del titolare di una attività di impresa. Le testimonianze circostanziate e concordanti dei lavoratori – si legge ancora nel comunicato – hanno fatto emergere come tale socia occulta decidesse, in completa autonomia e senza alcun superiore gerarchico, le assunzioni e le cessazioni dei dipendenti, i turni e gli orari di lavoro, le modalità di pagamento delle retribuzioni. Effettuava altresì i colloqui con gli aspiranti collaboratori e esercitava un potere disciplinare che si è spinto fino al licenziamento in tronco di alcuni lavoratori, sulla base di decisioni personali, pretestuose e immotivate. Le numerose testimonianze raccontano di come la donna effettuasse continui richiami disciplinari verbali nei confronti dei collaboratori, con l’utilizzo di frasi irrispettose e umilianti“.
Di qui, appunto, il quadro che fa ipotizzare condizioni da capolarato, tipiche dei primi del Novecento, come ha scritto il dirigente. “Ulteriore elemento dissimulatorio dell’effettivo rapporto tra la socia occulta e le due società – si legge alla fine della nota – è stato rinvenuto nell’importo del suo compenso, notevolmente più elevato rispetto a quello di tutti gli altri collaboratori”. Dall’Ispettorato non rivelano particolari sui due call center di Cagliari finiti nel mirino.

martedì 27 agosto 2019

Tanto amore per Marilyn

Dino Buzzati - All'alba

Un genio che poco prima dell’alba girava rastrellando l’estrema landa per raccogliere le anime appena giunte e avviarle alla grande porta, avvistò da lontano qualcosa di chiaro proprio ai piedi della muraglia che recinge la città dei morti.
Avvicinatosi, trovò una giovane e bellissima donna nuda apparentemente addormentata.
Si inginocchiò a toccarla.
Non era spirito, era tenera e tiepida carne.
Allora, prendendole un polso, la scosse per ridestarla. Con un gemito lei si stirò languidamente e balbettò come ubriaca:
– Oh lasciatemi dormire.
Il genio con molti riguardi appoggiò la testa sul petto della creatura.
Sì, il cuore batteva ancora, ma lentamente; e il ritmo si faceva sempre più fioco e spaziato.
– Su, svegliati – le ordinò. – Non sei malata, non sei ferita, sei giovane, sei meravigliosamente bella. Non ho mai visto nessuna bella come te.
Su, muoviti, corri, torna indietro. Il mondo è tuo.
Ci deve essere uno sbaglio. Assolutamente non puoi restare qui.
Con la voce ancora impastata di sonno lei disse:
– Basta, quante volte me le sono sentite ripetere queste storie. Lasciatemi dormire.
Intanto, da varie direzioni erano giunte alcune anime, saranno state una dozzina.
Incuriosite, si erano fatte intorno ed ascoltavano.
Finché una di esse avvertì:
– Non vorrei sbagliarmi, ma questa è Marilina Monroe.
– Chi? – fece il genio
– Marilina Monroe, la conoscerai, spero.
– Io, veramente – disse il genio imbarazzato
– io non saprei… io lavoro sempre da queste parti… saranno trent’anni che manco dal mondo.
Commenti intanto si intrecciavano fra le anime che formavano ormai, coi nuovi arrivati, una piccola folla.
E lo strano era questo: ciascuno di quei morti aveva, ovviamente, i suoi pensieri e i suoi rimpianti, eppure lo spettacolo di quella ragazza nuda, così rosa e pura, faceva loro dimenticare i guai.
– Ma è ancora viva – dicevano – …è sana, è ricca, è famosa, ha tutto quello che vuole nella vita, non può stare qui con noi, deve esserci un equivoco, bisogna fare qualche cosa.
Tu, genio, perché non ti sbrighi? Perché non la riporti indietro?
E il genio, sebbene un po’ confuso perché non aveva mai tenuto fra le braccia una giovane donna nuda soprattutto di tanta bellezza, sollevò da terra Marilina e librandosi a fior di terra la portò via in direzione dell’orizzonte, dove la landa dei trapassati si perde nella nebbia e di là comincia il mondo dei vivi.
Il genio, per quanto genio, era alquanto mingherlino.
Dove trovava le forze per sostenere di peso un simile fusto?
Semplice: fin dal primo istante se ne era perdutamente innamorato.
E poiché l’amore vuole la gioia altrui anziché la propria, il genio non si curava di sé, voleva soltanto salvare quell’incantevole corpo: se Marilina avesse continuato a dormire fino a che il cuore non si fosse fermato, di Marilina non sarebbe rimasta che l’anima, la quale ha ben poche attrattive sensuali, e il resto, nel giro di pochi giorni si sarebbe trasformato in cenere.
Fra le braccia del genio Marilina dormiva, ma di tanto in tanto, come in trance, rispondeva alle sue pressanti interrogazioni. Cosicché il genio poté conoscerne l’indirizzo, riportarla a casa sua e deporla sul letto, dove la bella continuò imperterrita a dormire.
Nella camera la luce era accesa.
Guardandosi intorno, il genio, benché poco pratico del mondo, vedendo tutte quelle boccette, quei flaconi, e tubetti di medicinali, indovinò cosa era accaduto e fu preso dall’orgasmo.
Marilina si era avvelenata e, se non interveniva un medico, non c’era più niente da fare.
Ma, più importante ancora del medico, era persuadere la ragazza che sulla terra dopotutto si sta bene, e uccidersi è una solenne bestialità. Nel suo caso poi!
– Marilina! – esclamò il genio facendo la voce grossa – Vuoi svegliarti o no? Adesso comincio a perdere la pazienza.
– Ma si può sapere chi sei? – chiese indispettita Marilina, alzando la testa dal cuscino.
– Non ha importanza chi sono – disse il genio – quello che conta è che tu chiami subito un medico perché se non ti fanno una bella lavanda gastrica qui mi hai l’aria di andartene dritta all’altro mondo.
– E se proprio questo fosse la mia intenzione?
– Ma va! Una creatura come te! Uomini e donne si scannano addirittura per ottenere un decimo, un centesimo di quello che tu hai. E tu vorresti andartene abbandonando tutto?
– Precisamente. Sono stufa.
– Intanto – disse il genio, forse un po’ troppo didascalico – quello che tu hai tentato di fare non è onesto. Tu, uccidendoti defrauderesti gli uomini di uno dei loro più cari sogni, che poi adesso è straordinariamente di moda.
Il sogno della gloria, da cui derivano tutte le altre soddisfazioni della vita, la ricchezza, l’amore, il lusso, la potenza, perfino la salute.
Gli uomini ti hanno messo su questo tuo favoloso piedistallo perché tu ci rimanga e ti lasci adorare. Se te ne vai, tu vieni meno ai patti. E poi…poi si può sapere cosa ti manca?
A quanto ho sentito dire, sei perfino intelligente.
– Su, da bravo, signor genio – piagnucolò Marilina, la testa cascandole da una parte e dall’altra per il sonno – adesso vattene e lasciami dormire. Tu sapessi come sono stanca.
– Bene – insistette l’altro – ti faccio una proposta che mi sembra ragionevole.
Io adesso ti porterò a fare un piccolo viaggio nel futuro. Vedrai cosa ti aspetta.
Vedrai che vale la pena vivere.
– E quanto tempo ci vuole?
– Niente, frazioni di secondo. È una delle poche cose che noi geni sappiamo fare decentemente.
– E dopo?
– Dopo farai quello che vuoi. Dopo, giuro che ti lascerò in pace.
Così, Marilina indossò una vestaglia, si attaccò con una mano al genio e via, attraverso la notte della California che stava per finire, via con la velocità di un satellite, e di sotto, a una distanza che via via aumentava, sfilavano i lumi delle città, le masse nere dei boschi, le fosforescenti anse dei fiumi.
E poi l’oceano nero che si perdeva nell’occidente.
D’improvviso discesero a tuffo.
Il genio la condusse sul bordo di un finestrone e la invitò a guardare dentro.
Era una grande e sontuosa sala di spettacoli e stavano proiettando un film a colori.
Sullo schermo Marilina vide Marilina che singhiozzava in modo meraviglioso. Era la scena finale di un dramma o qualcosa del genere.
Sì udì una bella frase musicale, l’immagine sullo schermo si dissolse e si accese la luce.
Gli spettatori avevano tutti gli occhi lucidi e con comiche manovre si affrettavano a nascondere i fazzoletti. Quindi esplose un applauso che sembrava una cateratta.
– Hai visto? – disse il genio. – Questo ti aspetta fra quattro anni.
– E il resto?
– Il resto come?
– Il resto. Voglio dire la mia vita. Continuerà come adesso? Sempre sola?
– No, no, ti risposerai.
– Sempre sola, però.
– Su da brava, facciamo un saltino avanti, adesso ti farò vedere il 1972.
Fecero un altro volo, si appollaiarono al finestrone di un altro palazzo.
E dentro c’era un magnifico salone pieno di gente ben vestita, vi si stava svolgendo un ricevimento e a un tratto tutti si misero a battere le mani ed ecco sul palco avanzare ancora lei, Marilina, un po’ meno fresca ma sempre bellissima.
E un signore importante le consegnava una statuetta d’oro.
– Ammetterai – disse il genio – che queste sono belle soddisfazioni.
– Ma la mia vita? – chiedeva lei – Continuerà come prima? Io sarò sempre sola?
– No – spiegò il genio.
– Vedi quel magnifico giovanotto che in questo istante sta abbracciando Marilina? Ti piace? Scommetterei di sì. Quello è il tuo quinto marito. Del resto, come vuoi essere sola se migliaia di uomini si innamorano giornalmente di te? Io stesso, ti devo confessare…
– Oh povero il mio genio – fece Marilina con un amaro sorriso – come si vede che tu ne capisci poco della nostra vita. Essere amati non serve. Per non essere soli c’è un solo segreto: bisogna essere capaci di amare.
– E tu?
– Io… Io… – le parole le fecero un nodo alla gola. Non disse altro ma scuoteva malinconicamente la testolina, e due lacrime le rigarono le guance.
– No, no, io ti devo salvare – fece rabbiosamente il genio, e la trasse via, galoppando su per il futuro.
E dovunque incontravano Marilina trionfante, anche se ormai un poco appassita.
Adesso non celebravano più la sua bocca e i suoi seni, adesso la proclamavano la più grande attrice vivente.
E dovunque c’erano feste, ricevimenti, castelli, ville, panfili. Ma quando Marilina faceva atto di voler entrare nelle sue future dimore per vedere che cosa c’era dentro, il genio la trascinava via perché sapeva benissimo che dentro c’erano maggiordomi, camerieri, cameriere, fiori, cani di razza e tutto ciò che si può desiderare al mondo, ma di bambini non ce n’era neppure uno e in una bellissima camera azzurra al primo piano, accanto alla camera di lei, si trovava ogni volta una culla, ma la culla era sempre deserta.
E finalmente, in una villa che sembrava una reggia, trovarono Marilina già vecchia, una graziosissima vecchietta che era nel suo genere un amore, ma negli occhi era facile leggere una squallida e arida solitudine, nonostante le meraviglie e gli onori che la contornavano.
– Hai visto? – fece a questo punto Marilina – hai visto, amico mio, che non ne vale la pena?
Lui non ebbe il coraggio di insistere.
Tenendola per mano, ridiscese le vertiginose scale del futuro, in un batter d’occhi la portò nella sua stanza, dove Marilina, toltasi la vestaglia, si gettò sul letto con l’evidente intenzione di riprendere il fatale sonno interrotto.
Ma il genio, che assisteva, faceva una faccia così addolorata che Marilina ne ebbe pietà, e sorrise.
Sì, soltanto per lui avrebbe fatto il sacrificio, avrebbe rinunciato alla partenza, avrebbe ricominciato la vita.
Lentamente, perché il torpore la stava di nuovo invadendo, tese una mano verso la cornetta del telefono.
Fu colto però dalla pietà anche il genio. Il quale fece un affettuoso cenno di saluto con la destra «Dio sia con te, povera ragazza».
E svanì come un fantasma, mentre dalle finestre entravano le prime luci dell’alba. Marilina lo vide sparire.
Restò là, immobile, con la mano sul telefono e si lasciò portare via, scivolando, nei gorghi neri del sonno.

Dino Buzzati, "All'alba", per il Corriere della Sera, 7 agosto 1962

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Oración por Marilyn Monroe - Ernesto Cardenal

Señor
recibe a esta muchacha conocida en toda la Tierra con el nombre de Marilyn Monroe,
aunque ése no era su verdadero nombre
(pero Tú conoces su verdadero nombre, el de la huerfanita violada a los 9 años
y la empleadita de tienda que a los 16 se había querido matar)
y que ahora se presenta ante Ti sin ningún maquillaje
sin su Agente de Prensa
sin fotógrafos y sin firmar autógrafos
sola como un astronauta frente a la noche espacial.
Ella soñó cuando niña que estaba desnuda en una iglesia (según cuenta el Times)
ante una multitud postrada, con las cabezas en el suelo
y tenía que caminar en puntillas para no pisar las cabezas.
Tú conoces nuestros sueños mejor que los psiquiatras.
Iglesia, casa, cueva, son la seguridad del seno materno
pero también algo más que eso...
Las cabezas son los admiradores, es claro
(la masa de cabezas en la oscuridad bajo el chorro de luz).
Pero el templo no son los estudios de la 20th Century-Fox.
El templo —de mármol y oro— es el templo de su cuerpo
en el que está el hijo de Hombre con un látigo en la mano
expulsando a los mercaderes de la 20th Century-Fox
que hicieron de Tu casa de oración una cueva de ladrones.
Señor
en este mundo contaminado de pecados y de radiactividad,
Tú no culparás tan sólo a una empleadita de tienda
que como toda empleadita de tienda soñó con ser estrella de cine.
Y su sueño fue realidad (pero como la realidad del tecnicolor).
Ella no hizo sino actuar según el script que le dimos,
el de nuestras propias vidas, y era un script absurdo.
Perdónala, Señor, y perdónanos a nosotros
por nuestra 20th Century
por esa Colosal Super-Producción en la que todos hemos trabajado.
Ella tenía hambre de amor y le ofrecimos tranquilizantes.
Para la tristeza de no ser santos
se le recomendó el Psicoanálisis.
Recuerda Señor su creciente pavor a la cámara
y el odio al maquillaje insistiendo en maquillarse en cada escena
y cómo se fue haciendo mayor el horror
y mayor la impuntualidad a los estudios.
Como toda empleadita de tienda
soñó ser estrella de cine.
Y su vida fue irreal como un sueño que un psiquiatra interpreta y archiva.
Sus romances fueron un beso con los ojos cerrados
que cuando se abren los ojos
se descubre que fue bajo reflectores
¡y se apagan los reflectores!
Y desmontan las dos paredes del aposento (era un set cinematográfico)
mientras el Director se aleja con su libreta
porque la escena ya fue tomada.
O como un viaje en yate, un beso en Singapur, un baile en Río
la recepción en la mansión del Duque y la Duquesa de Windsor
vistos en la salita del apartamento miserable.
La película terminó sin el beso final.
La hallaron muerta en su cama con la mano en el teléfono.
Y los detectives no supieron a quién iba a llamar.
Fue
como alguien que ha marcado el número de la única voz amiga
y oye tan solo la voz de un disco que le dice: WRONG NUMBER
O como alguien que herido por los gangsters
alarga la mano a un teléfono desconectado.
Señor:
quienquiera que haya sido el que ella iba a llamar
y no llamó (y tal vez no era nadie
o era Alguien cuyo número no está en el Directorio de los Ángeles)
¡contesta Tú al teléfono!
Preghiera per Marilyn Monroe
Signore
accogli questa ragazza conosciuta in tutta la terra con il nome di Marilyn Monroe
anche se questo non era il suo vero nome
(ma Tu conosci il suo vero nome, quello dell’orfanella violentata a 9 anni
e la piccola commessa che a 16 aveva voluto ammazzarsi)
e che adesso si presenta davanti a Te senza nessun maquillage
senza il suo Addetto Stampa
senza fotografi e senza firmare autografi
sola come un astronauta davanti alla notte spaziale
Essa sognò da bambina che si trovava nuda in una chiesa
(secondo quel che racconta il Time)
davanti a una folla prostrata, con le teste sul pavimento
e doveva camminare in punta di piedi per non pestare le teste.
Tu conosci i nostri sogni meglio degli psichiatri.
Chiesa, casa, antro, sono la sicurezza del seno materno
ma anche qualcosa più di ciò…
Le teste sono gli ammiratori, è chiaro
(la massa di teste al buio sotto il fiotto di luce).
Ma il tempio non sono gli studi della 20th Century Fox.
Il tempio – in marmo e oro – è il tempio del suo corpo
in cui sta il Figlio dell’Uomo con una frusta in mano
a cacciare i mercanti della 20th Century Fox
che hanno fatto della Tua casa di preghiera un covo di ladri.
Signore
in questo mondo contaminato di peccati e di radioattività
Tu non incolperai soltanto una piccola commessa.
Che come ogni piccola commessa sognò di essere una stella del cinema.
E il suo sogno divenne realtà (ma come la realtà del tecnicolor)
Essa non fece altro che agire secondo il copione che le demmo
– Quello delle nostre stesse vite – Ed era un copione assurdo.
Perdonala Signore e perdona noi
per la nostra 20th Century
per questa Colossale Super-Produzionenella quale tutti abbiamo lavorato.
Essa aveva fame di amore e le abbiamo offerto tranquillanti.
Per la tristezza di non essere santi
le venne raccomandata la Psicoanalisi.
Ricorda Signore la sua paura crescente della macchina da presa
e l’odio per il maquillage – mentre insisteva a truccarsi ad ogni scena –
e come divenne più grande l’orrore
e più grave la mancanza di puntualità negli studi.
Come ogni piccola commessa
sognò di essere una stella del cinema.
E la sua vita fu irreale come un sogno che uno psichiatra interpreta e archivia.
Le sue storie d’amore furono un bacio con gli occhi chiusi
che quando si aprono gli occhi
si scopre che è stato sotto i riflettori
e spengono i riflettori!
e smontano le due pareti della stanza (era un set cinematografico)
mentre il Regista si allontana col suo quaderno
perché la scena è ormai stata girata.
O come un viaggio in yacht, un bacio a Singapore, un ballo a Rio
il ricevimento nella dimora del Duca e della Duchessa di Windsor
visti nella stanzetta dell’appartamento miserabile.
Il film terminò senza il bacio finale.
La trovarono morta sul letto con una mano sul telefono.
E i detectives non seppero chi stava per chiamare.
Fu
come uno che ha fatto il numero dell’unica voce amica
e sente solo la voce di un disco che gli dice: WRONG NUMBER.
O come uno che ferito dai gangsters
allunga la mano verso un telefono staccato.
Signore
chiunque fosse quello che stava per chiamare
e non chiamò (e forse non era nessuno
o era Qualcuno il cui numero non sta nella Guida Telefonica di Los Angeles)
rispondi Tu al telefono!
(Traduzione di Antonio Melis)
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