Una sera di dicembre del 2018, in Siria, dopo una lunga giornata passata a
Raqqa distrutta dalla guerra e dai bombardamenti, mi sono ritrovato a piangere
da solo. Non piango mai di fronte ai morti, alle violenze, alla distruzione
attraversata, negli ultimi venti anni, dai Balcani al Medio Oriente.
Mi era giunta da Caserta la notizia che la mia amatissima zia Rosalba era
morta. E io, che con lei e con le mie cugine sono cresciuto, ho trovato quel
messaggio più doloroso di ogni altra sciagura attraversata quei giorni. Ho
pensato soprattutto alle tantissime risate che mi ero fatto con mia zia e alla
distanza che rendeva irraggiungibile il suo funerale e l’abbraccio alle sue
figlie. E ho pensato al dolore, sempre muto, di chi fa il nostro mestiere. Non
dissi niente a nessuno quella sera e il giorno dopo ero al lavoro al campo
profughi di Al Hol, uno degli inferni disponibili nel mondo contemporaneo.
Rosalba d’Andria era nata alla fine della seconda guerra mondiale, il suo
nome era pieno di speranza per la
nuova alba che il tempo portava. Per tutta la vita Rosalba ha insegnato
con passione ed è stata una grande sostenitrice delle Ong. Ero su un fronte di
guerra e pensavo a lei, al mio lavoro e alla distanza che ci separava, ma anche
alla sua solidarietà – e a quella di tante altre persone come lei – che ci
univa. Pensavo alla necessità di esserci, in quei luoghi, là dove si sta
decostruendo, pezzo dopo pezzo, il nostro mondo contemporaneo. Al Kosovo, dove fu inventata la guerra
umanitaria, all’Iraq, dove fu lanciata l’aggressione a tavolino a un intero
popolo, mentendo all’Onu e cominciando a delegittimarne il ruolo per
sempre. Fino alla Siria, paese stupendo, martoriato da 8 anni di guerra civile
e da decenni di dittatura.
Ecco, la necessità di esserci e di tendere una mano a chi ha subito guerra
e violenza. Così ci siamo messi ad aggiustare i buchi della guerra, con qualche
di generazione di idealisti, nati dopo la seconda guerra mondiale. Nelle scuole
di Mosul bombardate per liberare l’area dall’Isis o nei campi delle persone in
fuga dalle persecuzioni. Tutte vittime.
Arrivo in un paesino sperduto intorno a Mosul, lungo il fiume Tigri. Sono
cinquanta gradi. Qui qualcuno ha aderito all’Isis, altri sono fuggiti e sono
stati perseguitati dai miliziani dello Stato Islamico. Il nostro referente in
loco ha avuto familiari uccisi e la casa distrutta, l’Isis lo odiava perché non
si era piegato al loro potere ed era un uomo rispettato in paese. E’ tornato a
casa dopo la guerra sapendo che alcuni dei suoi persecutori sono ora anche tra
i suoi vicini di casa. Ha cominciato a chiamare gli amici e i conoscenti in
tutto l’Iraq per chieder loro di venire qui a ricostruire: riparate scuole,
costruite centri giovanili, fate un campo di calcetto. Diamo forma al futuro delle generazioni
cresciute durante la guerra e nella miseria.
L’ingegnere cristiano, perseguitato anche lui, di Un ponte per…
si è dato da fare per costruire strutture accoglienti, belle. Una scuola ha i
bagni così nuovi che li tengono sempre chiusi perché il villaggio rurale dove
sorge non li ha mai avuti. E poi ci sono gli accessi per i disabili e le
strutture che li possono accogliere. In quelle zone ce ne sono tanti ma sono
nascosti nelle case, curati solo dall’affetto e dalla fatica dei familiari.
Anche l’ingegnere ha avuto la casa saccheggiata dall’Isis ma non ha alcun
timore a lavorare in uno dei luoghi che era tra le roccaforti dei miliziani. Sa che le scuole in cui tappiamo i
buchi delle granate e dove si ricostruisce la vita sociale e civile sono tra i
pochi luoghi dove si potrà seminare pace in questo momento.
Paul Ricoeur diceva che per lavorare sulla riconciliazione, e quindi anche
sulle lacerazioni della guerra, sono necessari una lettura comune della storia, degli scambi culturali tra le parti e il
perdono. Un percorso in cui vittime e carnefici riconoscano ruoli e
responsabilità reciproche, se ce ne sono, e provino a dialogare tra loro.
Ecco, noi operatori umanitari che siamo ospiti in paesi di guerra possiamo
facilitare due degli aspetti ma possiamo aiutare molto sugli scambi culturali.
Possiamo creare luoghi come i centri giovanili, o le scuole riabilitate ed
accoglienti dove le persone, i minori soprattutto, riescono a trovare un loro
spazio di dialogo e incontro. Non
è facile farlo dove la retorica della guerra è costante e vince sempre. Però
nei centri giovanili arriva, ad esempio, uno come Luca Chiavinato, un musicista
senza frontiere, che mette su un’orchestra di giovani talenti iracheni. E poi
li aiuta a sognare o li porta a suonare in Italia, costruendo un altro solido
ponte fatto di arte, musica e solidarietà. Anche qui un buco del tempo, nella
crescita dei giovani iracheni, si prova a colmarlo. Non solo con la calce che
ricostruisce le scuole ma anche con la poesia che loro meritano dopo anni di
abominio. Oppure con le preghiere laiche della loro musica, che riesce subito a
toccare i cuori di chi li ascolta.
I buchi delle menti sono quelli più duri da
aggiustare. Nutrirsi di odio per
anni e crescere generazioni nella violenza vuol dire seminare tempesta. I
figli dell’Isis, chiusi dai 9 anni in su nelle prigioni di Mosul, sono lì che
ci guardano spaventati e inorriditi. Avrebbero bisogno di una mano tesa e non
di una punizione perpetua. Così come le speranze dei 40.000 giovani che si sono
iscritti all’Università di Mosul, ai quali va offerta una speranza e non solo
un breve parcheggio. Provano a farlo le mani tese delle Ong, le stesse che stanno
ora nel Mediterraneo a salvare vite di persone che, va sempre ricordato,
altrimenti morirebbero affogate.
Ecco, noi proviamo spesso, tra mille insuccessi e profonde storture,
a coltivare l’utopia di colmare
queste distanze e aggiustare questi buchi.Lo facciamo senza bisogno di
alcuna ricompensa. Semplicemente perché i genitori e i nonni, usciti dalla
guerra, ci hanno insegnato che è giusto così. Che la solidarietà è un valore
oltre che un dovere e perché continuiamo ostinatamente a coltivare un’idea di comunità
in cui le persone possano vivere insieme.
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