La crisi
ecologica globale è uno scenario in cui agiscono anche alcune tra le nuove
prospettive critiche che stanno attraversando il dibattito planetario da
decenni, obbliga a costruire nuove dinamiche dell’azione politica e richiede
anche di ridefinire le pratiche in relazione alle possibilità concrete di
costruire nuove forme di socialità. Si sta determinando, in modo sempre più
evidente e su scala planetaria, un conflitto socio-ecologico che ancora non è
definito nelle sue dirette conseguenze, ma che è necessariamente un campo di
azione del pensiero critico. Per poter costruire un mondo radicalmente diverso
bisogna confrontarsi con questo scenario, con la crisi in atto e con le
possibilità concrete di mutamento.
1. Il vivente è una categoria rivoluzionaria
Al centro
della mia riflessione c’è un assunto reso evidente dalla crisi socio-ecologica:
il capitalismo è incompatibile con la perpetuazione del vivente. È
incompatibile anche con la stessa struttura della biosfera, con il suo
funzionamento e i suoi tempi, inoltre il capitalismo nella sua storia ha
costantemente mirato a inglobare e ridefinire il funzionamento della vita.
Dalla base biologica però è riuscito a passare alla sua espressione più generale,
con il termine vivente intendo infatti qualcosa di più ampio: è l’insieme delle
capacità produttive della vita, comprende, ad esempio, anche la capacità di
produrre il pensiero e di definire la realtà, è tutto ciò che è vivo.
Il conflitto
tra capitalismo e vivente è stato il fulcro centrale della storia degli ultimi
secoli, ha prodotto in forme dirette una lunga serie di diversi metodi di
sfruttamento e adesso ci ha portato alla crisi ecologica globale. È una
fondamentale contraddizione interna al capitalismo, l’ennesima potenzialmente
fatale per il sistema. Più di altre contraddizioni può però essere un luogo di
mutamento perché si tratta di una contraddizione particolarmente radicale, in
cui viene direttamente coinvolta anche la sopravvivenza generale della
biosfera. Non si tratta della sussunzione della natura alla sfera della
produzione, ma della progressiva tendenza, che si manifesta dall’inizio della
modernità capitalista, ad inserire l’intera biosfera nei processi di produzione
e di creazione del valore. Il capitalismo fin dalla sua nascita ha la tendenza
ad incorporare gli stessi processi di funzionamento del vivente, la sua più
intima natura e le modalità di riproduzione che ne rappresentano le fondamenta.
Arrivati a questo punto, bisogna però ribaltare il punto di vista sulla
questione, perché il problema riguarda il processo fondamentale che è iniziato
con l’affermazione della modernità capitalista e adesso è giunto alle sue
estreme conseguenze: bisogna considerare il vivente come una categoria
potenzialmente rivoluzionaria.
Ristabilire
il principio che il lavoro di riproduzione, per come è stato definito nel
dibattito femminista, si debba contrapporre allo schema della produzione
capitalista significa anche pensare ad un modo radicalmente differente di far
funzionare le comunità umane in relazione alla biosfera, di ricomporre la
frattura storica che tende a dividerle. Buona parte del dibattito critico
costruito intorno alla questione della crisi ecologica globale è in realtà
direttamente collegata ad una parte del pensiero rivoluzionario. Penso inoltre
che sia evidente quanto già le prime formulazioni teoriche sulla crisi
ecologica abbiano espresso una critica radicale all’ecologia filo-capitalista,
così come al modello di produzione sovietico, ponendosi al di fuori della
storia del modello industriale e dell’idea di crescita che ha caratterizza la
modernità capitalista. Si può sicuramente definire quella critica come una
forma di ambientalismo operaio. Adesso ritengo necessario mantenere il dibattito
sulla crisi ecologica globale nel campo della critica indirizzata alla
costruzione di un mondo diverso, un mondo non capitalista. Non si tratta
semplicemente di discutere sulle conseguenze dell’affermazione del
neoliberalismo; nel caso europeo, l’analisi delle contraddizioni che emerge
sempre più chiaramente all’interno dei conflitti ecologici può trovare, ad
esempio, una forte radice nell’impianto teorico dell’operaismo. Da alcuni nodi
del dibattito dell’operaismo italiano, pesantemente represso anche nelle sue
espressioni di critica ecologica, proviene, tra le altre cose, una seria
indicazione di azione nel campo dell’ecologia politica. Non si tratta neanche
di costruire una relazione tra due questioni separate, per cui l’ecologia
politica di stampo marxista cerca di incorporare nel proprio discorso alcuni
nodi del dibattito operaista. Al contrario è proprio la naturale conseguenza di
un percorso che ha determinato l’allargamento progressivo dei campi di azione e
di lotta, dal soggetto sociale alla generalità del mondo costruito dal
capitale.
2. La macchina converte il vivente
«Dalla
riformulazione della questione dell’accumulazione all’attenzione ai processi
attuali come nodo centrale su cui agire. […] il lavoro si presenta come un
organo cosciente […] nella forma dei singoli operai vivi; frantumato, sussunto
sotto il processo complessivo delle macchine» [1].
Per
comprendere il legame forte tra l’operaismo e l’attuale sviluppo teorico
dell’ecologia politica, bisogna necessariamente ripartire da quello che da
Panzieri in poi, con il decisivo apporto di Negri, è diventato il nostro Marx,
quello dei Grundrisse, soprattutto del frammento sulle macchine. Quel passo
deve la propria fortuna anche alla capacità di ribaltare completamente il modo
in cui i testi marxiani sono stati letti per almeno un secolo. Quel dibattito
ha aperto una strada per il superamento della visione monolitica del marxismo e
dei processi rivoluzionari, attraverso la sua proposta di rilettura dei testi
di Marx e della visione della società e della storia che ne emergevano.
Soprattutto ha esaltato l’enorme portata filosofica del pensiero marxiano e la
sua caratteristica di lavoro incompiuto, come devono essere necessariamente
tutti i lavori rivoluzionari. Lo sforzo intellettuale che emerge da quella
rilettura dei Grundrisse è chiaramente qualcosa di ancora più ampio di quanto
contenuto nel Capitale e soprattutto permette di rivedere un progetto generale
di cui la critica dell’economia politica era solo una parte. Personalmente non
sono mai riuscito a vedere il pensiero di Marx come quella struttura monolitica
e inflessibile proposta dai partiti comunisti europei né come un percorso
compiuto che si potesse concretizzare solo in una specifica forma politica.
Come i
sistemi di potere per perpetuarsi devono adattarsi facilmente al mutamento,
così un pensiero rivoluzionario deve essere capace di preconizzare le scelte
del sistema che intende cambiare e agire su piani differenti. Il dibattito
operaista ha consentito finora proprio di liberare dal loro interno quelle
riflessioni sulla rivoluzione che correvano, ad esempio, il rischio costante di
cadere nella tentazione dell’esaltazione della fabbrica, come se non fosse il luogo
della massima alienazione e dello sfruttamento. Lo stesso approccio, comune a
molti dei vecchi partiti comunisti, che ha tentato di far diventare altro, di
far mutare pelle alla grande proposta di liberazione dentro cui ci siamo mossi
sempre, con il passo incerto di chi deve disegnare i propri sentieri. Si tratta
di un lavoro folle e grandioso che continua ad aprire un potenziale
conflittuale enorme e in cui in qualche modo siamo coinvolti su tutti i fronti
nella nostra quotidianità e in cui adesso agiscono consapevolmente migliaia di
esperienze conflittuali a livello planetario.
Il frammento
sulle macchine ha una relazione fortissima con molte altre parti del pensiero
di Marx e ne rivela un’interpretazione precisa, riesce infatti a chiarire parti
complesse e più rigide, come i capitoli XX e XXI del libro II del Capitale,
necessari a comprendere il processo di riproduzione complessiva del sistema.
Quei passaggi ci dicono che il capitalismo riesce a produrre il proprio mondo e
che il mondo è diventato la fabbrica di sé stesso; è uno dei principi che hanno
guidato la composizione di un’area che si è data uno statuto politico molto
forte e che ha saputo mettere in discussione la supposta radicalità del
pensiero socialista europeo. Gli spazi di vita sono interni ad un sistema che
ha bisogno di convertire a spazio di accumulazione ogni aspetto e luogo del
vivente.
La
città-fabbrica è lo stesso spazio in cui agiscono Lefebvre e Gorz, è lo spazio
in cui è nata l’ecologia politica di stampo marxista, prima che si ponesse il
problema della crisi ecologica globale. Il mondo prodotto dal capitale è lo
spazio in cui deve agire adesso un pensiero della trasformazione costruito
sulle dinamiche del vivente. Di fronte all’avanzare del processo di distruzione
non c’è però possibile via d’uscita, non si può evitare di riconsiderare le
cose anche in vista delle modalità con cui si inasprisce la crisi e con cui il
sistema si articola nelle sue forme di controllo. Non c’è altra via d’uscita
perché la soluzione deve per forza essere radicale e fornire alternative di
vita e deve farlo per tutto il vivente. La proposta che emerge adesso si trova
esattamente dove doveva essere: nel solco dell’esperienza aperta dalla critica
operaia al capitale.
Come ha
chiarito il dibattito sul capitalismo cognitivo, il frammento sulle macchine
rende esplicito il fatto che il problema non risiede nella struttura fisica
della macchina, ma nel suo funzionamento, nelle modalità attraverso cui
realizza una trasformazione che determina un cambiamento nella vita dei
lavoratori, nel modo in cui la macchina è un mezzo per trasformare il lavoro
vivo. Ciò perché a fondamento del sistema c’è la capacità del capitalismo di
tramutare il vivente in valore e il valore in prezzo. Lungo tutto il testo di
quel frammento, che è chiaramente parte di un progetto più ampio, l’autore
riesce a chiarire in modo risolutivo che sarà necessario aprire un campo
preciso di azione politica e ci dice che ancora è necessario andare avanti,
proseguire nello sforzo di ampliamento del campo di conflitto.
3. Ricostituire il processo di vita reale
«In questa
trasformazione non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il
tempo che egli lavora, ma l’appropriazione della sua produttività generale, la
sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua
esistenza di corpo sociale – in una parola, è lo sviluppo dell’individuo
sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e
della ricchezza. Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la
ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova
base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande
industria stessa»[2].
Il tempo di lavoro è un’altra
questione che si colloca a fondamento di una riflessione sulla liberazione
delle potenzialità del vivente. Si tratta di un problema perfettamente interno
allo stesso dibattito perché non si può scindere la riflessione sul tempo di
lavoro dalla ricerca della compatibilità ambientale. La totalizzazione del
tempo di produzione ha coinvolto progressivamente la biosfera, si tratta di uno
dei processi costitutivi del capitalismo cioè della tendenza a portare
all’interno dei processi di produzione di valore la biosfera, ad usarla
liberamente come riserva a cui attingere, a convertirne le basi e i tempi
riproduttivi.
La stessa
frattura metabolica, un elemento centrale della separazione con quella che Marx
definisce natura, che rappresenta un tema importante dall’area marxista
dell’ecologia politica, in realtà risulta un processo interno a questa
tendenza, non l’origine del problema. Si realizza proprio nella relazione di
lavoro e nell’uso delle macchine, ma soprattutto nella creazione di un modo per
convertire anche i tempi della biosfera in tempi di produzione e di creare
valore da quel furto di tempo. Il tempo di produzione e il tempo di lavoro non
sono compatibili con i tempi di retroazione ambientale, i ritmi della biosfera
non possono coincidere con l’accelerazione del capitalismo, che arriva, ad
esempio, a produrre gli animali destinati alla macellazione riducendo i tempi
della loro fase di crescita o a distruggere intere aree del pianeta per
l’estrazione mineraria in poche ore.
La capacità
di riproduzione comprende anche la capacità di creazione dell’informazione come
risultato dell’azione del vivente. I sistemi biologici funzionano seguendo uno
schema di produzione dell’informazione, quello stesso schema di cui la
produzione capitalista è riuscita ad appropriarsi[3].
Il vivente produce informazioni, anzi è l’unica struttura in grado di
trasformare in informazione i principi fisici di funzionamento del mondo. Lo stadio
finale del capitalismo è dunque l’appropriazione delle capacità creative del
vivente, da quelle riproduttive a quelle cognitive, è questo il motivo per cui
la liberazione dal lavoro capitalista riguarda tutto il complesso del vivente.
4. Bloccare l’accumulazione e uscire dai processi di
valorizzazione capitalista
«La natura
non costruisce macchine, non costruisce locomotive, ferrovie, telegrafi
elettrici, filatoi automatici, ecc.. Essi sono prodotti dell’industria umana:
materiale naturale, trasformato in organi della volontà umana sulla natura o
della sua esplicazione nella natura. Sono organi del cervello umano creati
dalla mano umana; capacità scientifica oggettivata. Lo sviluppo del capitale
fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è
diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo
vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del General
Intellect, e rimodellate in conformità ad esso; fino a quale grado le forze
produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come
organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale»[4].
La
contraddizione insanabile tra il capitale e il vivente, espressa già all’inizio
della grande critica al capitalismo, si esprime quindi compiutamente nella
collocazione del lavoro vivo all’interno del valore. Il campo di azione è però
adesso chiaramente la modalità con cui si può impedire la conversione del
vivente in capitale, il principio generale di funzionamento del sistema. Quel
campo resta ancora il lavoro umano, nella sua azione produttrice generale e
nelle modalità con cui rappresenta ancora la forza determinante del general
intellect. Nel quadro della crisi ecologica questo ci pone un enorme problema
di carattere politico: liberarsi dal lavoro deve comportare una liberazione dei
processi vitali, deve necessariamente includere la possibilità di costruire una
relazione con il vivente liberata dai processi di valorizzazione. Nonostante ci
siano moltissime esperienze di lotta che da decenni si muovono su questo
terreno, è evidente che ancora siamo lontani dall’aver elaborato una chiara
linea di azione, anche se la grande novità è che abbiamo ricominciato ad
elaborare forme di prefigurazione della società futura, idee e proposte su come
il nostro mondo può concretamente funzionare al di fuori del sistema
capitalista. Il processo che comporta l’appropriazione progressiva del vivente
in tutti i suoi aspetti va chiaramente fermato; quale possa essere il risultato
di una trasformazione così profonda, che porterebbe alla strana forma di un
mondo devalorizzato, è ancora da definire. Liberarsi dal valore di scambio è un
progetto politico molto più complesso di quanto sembri anche sul piano pratico
e comporta la capacità di proporre un mondo altro, radicalmente diverso, in cui
non esista più il corrispettivo della vendita del tempo e della determinazione
del valore in termini di prestazione di lavoro. Ricondurre il vivente al centro
di un progetto rivoluzionario rimane però un passaggio essenziale per poter
costruire un reale percorso di liberazione.
Note
[1]K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia
politica, Milano, La Nuova Italia, 1968, p. 399. Per comodità ho utilizzato
l’edizione italiana del 1968 curata da Enzo Grillo, sebbene proprio su quel
frammento siano state poste diverse questioni di traduzione.
[2]K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia
politica, cit., p. 401.
[3]Dal Gobbo A. e Torre S., (2019). Natura Valore Lavoro. Logiche di
sfruttamento, politiche del vivente. Etica & Politica / Ethics
& Politics, XXI, 2019, 1, pp. 165-171.
[4]K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia
politica, cit., p. 402.
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