Mi ricordo
sempre tante cose di quei giorni di Genova, che restano come un prima e un dopo
della mia vita, e della vita della mia generazione. Intanto c’era il GSF, il
Genoa Social Forum, che nessuno se lo ricorda, ma c’era e non avevo mai parlato
in pubblico in una cosa così importante. E per me in quel movimento ci passava
la vita, i sogni, tutto, e sentivo – e sento – che quello che avevo da dire io
era infinitamente più importante e più giusto di quello che aveva da dire Bush
al G7.
E poi mi
ricordo quasi come flash, una fotografa carina che mentre parlavo mi faceva un
sacco di primi piani, ma poi non l’ho più vista. E poi alla fine mi ricordo
Nora Cortiñas, la madre di plaza de Mayo, che mi venne ad abbracciare. La mia
relazione era sull’Argentina disperata pre-default. Mancavano pochi mesi, pochi
mesi a tutto, Genova, New York, Buenos Aires, l’Afghanistan. In pochi mesi era
un altro mondo, peggiore. E poi venne Gillo Pontecorvo a farmi i complimenti,
cordiale, e mi dicevo: sto dando la mano a un monumento. E altri, Gianni,
Gianni Minà, che ci conoscevamo, ma non sapevo ancora che casa sua sarebbe
stata rifugio in uno dei periodi più tristi della mia vita. Caro, carissimo
Gianni. C’era pure il francese buffo, che somigliava a Obelix, José Bové.
E poi c’era
la Diaz; che faccio, resto qui a dormire o non resto qui? Oppure accetto
quell’invito di un fidanzato di un’amica che manco ho visto mai, in pieno
centro storico? Alla fine accetto l’invito, che così entro ed esco dalla Zona
Rossa e mi è più comodo. La prima sera mi porta a mangiare il pesto da Maria la
Succida e, anche se dormivo per terra in mezzo alla rumenta, vai a sapere che
non mi abbia salvato la vita. Non ricordo il nome, ma gli sono grato.
E poi il
primo giorno gli abbracci, la manifestazione più bella della mia vita, i
migranti, e poi il centro stampa nel porto antico, del G8 ufficiale. All’epoca
lavoravo per Brecha, il settimanale di Montevideo. Entravo e uscivo
freneticamente dalla Zona Rossa. Centro stampa della Diaz, centro stampa del
porto antico. Due mondi diversi. Da una parte gli anchormen, da CNN in giù; di
là i militanti, Indymedia: “don’t hate the media become the media”. Ed era
tutto estraniante. Fino a un certo punto quello che era fuori era tutto
colorato e quello che era dentro era il Cile di Pinochet. Le strade deserte, le
saracinesche abbassate, i soldati a cavallo.
E poi, il
giorno dopo, anche fuori era diventato tutto in bianco e nero. Ma pieno di
gente, e fumo, e dolore, e una paura bestia, tanto che dopo un po’ mi rifugiavo
dentro quella città proibita, che mi vergogno pure un po’ a dirlo. E mi ricordo
che al porto antico avevo un box tutto mio, cose mai viste all’epoca, con un
computer con tutte le televisioni del mondo collegate. Era lo streaming e per
la prima volta nella storia potevi illuderti di capire di più stando collegato
che andando a vedere. E così capitava di vedere Mentana che lancia il TG5 e
dire grosso modo che i nostri erano tutti terroristi, e non ricordo quali altre
assurdità. E però esci dal box, giri l’angolo e a tre metri gli gridi in
faccia, a Mentana in persona, “ma che diavolo dici” e anche se lui resta a discutere
mezz’ora con te, non lo smuovi di un centimetro dalla versione ufficiale.
E poi c’era
Vittorio Agnoletto – fuori dalla zona rossa ovviamente – che me lo guardavo e
me lo piangevo, una persona che più pacifica non si può, trattata per anni come
un terrorista. Quanto grati bisogna essere a quel piccolo Atlante milanese col
mondo caricato sulle spalle. E poi c’era Carlo, Carlo Giuliani, sapete tutti; e
l’altra ragazza morta che per giorni la gente giurava di averla vista. Però, se
posso dire, la morte di Carlo è stato un fatto irreparabile e ce lo portiamo
tutti nel cuore. Ma l’associazione Genova/Carlo sfasa le cose. Perché a Genova,
nel bene e nel male, nei giorni nei quali Genova era il centro della terra,
sono successe infinite più cose. E poi c’era mamma, mamma mia, che mi aveva
imposto per la prima volta in vita mia di avere un cellulare. A fare i conti so
esattamente che da 18 anni dipendo da un cellulare. Mi chiamava ogni cinque
minuti, povera, che in televisione raccontavano di tutto. Magari chiamasse
ancora.
E poi un
sacco di altre brutte cose che non mi va di ripetere. Ma l’ultima sera, a cena
al porto antico, c’era perfino un’atmosfera un po’ più tranquilla e io, e i
molti infiltrati dei nostri, Pio d’Emilia ricordo e tanti altri, un’altra
bottiglia per favore; credo pagasse Berlusconi. È andata. Uno ancora non capiva
i contorni della sconfitta, che forse avrebbe cominciato a essere davvero
chiara solo dopo l’11 settembre, ma è andata. Andata un corno. Non faccio in
tempo a stendermi per terra tra la rumenta della casa nei carrugi, che, il
modem attaccato a non so cosa, scoppia come una bomba. Hanno assaltato la Diaz!
Resisto circa un’ora illudendomi non fosse nulla. Devo dormire, ma come si fa?
E poi
allora, prendo le mie cose, sapendo di non tornare. La zona rossa di notte non
si poteva attraversare; e aveva la forma di una specie di cono lunghissimo.
Genova è lunga in senso Ponente/Levante. Quella notte lo era anche in senso
Nord/Sud. Dovevo costeggiare quella specie di città fortificata. Camminai due
ore e mezzo per arrivare alla Diaz. Albeggiava. Dentro avevano sgomberato,
spaccato teste, ossa, massacrato, portato a Bolzaneto e la “macelleria
messicana” che seguì. Ci penso e ancora mi viene la pelle d’oca.
E poi ci
sono cose che ora non ricordo, per esempio come entrai nella scuola – a vedere
– ma anche cose fondamentali. Una più di tutte, a parte un termosifone con una
macchia di sangue così grossa da convincermi avessero ammazzato qualcuno anche
lì, che ci penso e ancora mi scoppia il cuore. La cosa importante, che vorrei
che si ricordasse, è questa: era ancora un’epoca analogica, anche se in
transizione. Il GSF aveva fatto convogliare alla Diaz le prove delle violenze
della forza pubblica di quei giorni, un massacro avvenuto sotto migliaia e
migliaia di occhi. Proprio era stato fatto un appello perché gli avvocati
potessero lavorare. Ebbene lì in un angolo c’erano letteralmente centinaia di
rullini fotografici aperti, esposti, buttati lì perché le prove delle violenze
che contenevano dovevano ed erano state distrutte.
Non smetterò
mai di dire che quei rollini furono il principale motivo della mattanza della
Diaz; la polizia del Ministro degli Interni Fini, che dirigeva le operazioni,
doveva distruggere il più possibile le prove delle violazioni di diritti umani
che aveva commesso, e che nel giro di poche ore si sarebbero diffuse in tutti i
giornali del mondo. Solo pochi anni dopo avremmo avuto tutti telefoni e
fotocamere digitali. Ma allora, per distruggere quelle prove, concrete, la
Polizia si macchiò ancora di più le mani. Magari alla Diaz distrussero anche le
foto che la fotografa carina mi faceva mentre parlavo al Genoa Social Forum.
Trovai ancora la forza per andare alla conferenza stampa in Questura e da lì,
un paio di giorni dopo, che se fossi finito a Bolzaneto sarebbe stato un guaio
grosso, volare a Santiago. Che imbarazzo! C’erano le famose due molotov e un giubbotto
di un poliziotto con un graffietto. I corpi del reato. Le prove che all’interno
ci fossero i black bloc. Balle. Criminali balle dette dallo Stato contro i
migliori dei suoi cittadini. Io scrissi nei miei articoli per Brecha – lo
facemmo in tanti – una cosa come: “tutto sto casino per due molotov”.
Avevo torto,
perché anche le due molotov le avevano messe loro. È dimostrato. Ci sono le
condanne. Le aveva messe la Polizia di Bush, Berlusconi e dell’FMI per
giustificare di fronte alla stampa (un watch dog docilissimo) il massacro della
Diaz, Bolzaneto, tutto il resto e passare dalla parte della ragione. Avevo
torto sulle molotov – fui ingenuo – ma avevamo ragione su tutto il resto: sul
neoliberismo reale, sulle privatizzazioni, sul Nord e sul Sud del mondo, sulla
fine del lavoro, sul cambio climatico, sulla necessità di rispettare il pianeta
per salvare noi stessi, sulle guerre, sui diritti dei migranti, parte
integrante di quel movimento. A Genova in quei giorni si combatté una battaglia
di valore planetario. Ci massacrarono e la perdemmo. Diciott’anni dopo è tutto
peggiorato, ma avevamo ragione noi.
Nessun commento:
Posta un commento