Sono passati diciotto anni dal G8 di Genova e mi hanno chiesto che cosa
ricordo. Che cosa ricordo? Ho
risposto che ricordo tutto. E che tutti dovremmo ricordare, perché
in quei giorni del luglio 2001, oltre a tutto il resto, ci hanno portato via
una straordinaria opportunità di crescita civile e di cambiamento politico. È
stato un momento di svolta (non in meglio) per il nostro Paese. Perciò ricordo
tutto.
Ricordo la giornata del 20 luglio trascorsa in
redazione a Bologna mentre in tv passavano le immagini del corteo, degli
scontri, la notizia dell’uccisione di Carlo Giuliani in piazza Alimonda;
ricordo lo stato d’ansia ma anche di curiosità per la partenza dell’indomani
mattina; il treno speciale preso prima dell’alba a Imola; la gente, tanta
gente, sul treno e i dubbi su quello che avremmo trovato, dopo la tragedia di
piazza Alimonda; l’arrivo alla stazione di Quarto, perché le stazioni centrali
erano chiuse; il clima positivo e fiducioso, nonostante il dolore per
l’omicidio di Carlo.
Ricordo la camminata per raggiungere
il centro città, passando per strade vuote, senza auto, in un silenzio
inaspettato; l’arrivo in via
Battisti, alla scuola Diaz-Pascoli, e l’incontro con amici e colleghi al
centro stampa; la discesa verso il corteo, di passaggio per il lungomare; una massa enorme di persone sotto il sole;
l’incontro con Olga, un’amica arrivata da Milano; il corteo che non va avanti né
indietro, per via delle prime azioni del Black Bloc; una ragazza bionda vestita di nero che passa in mezzo
alla gente e raggiunge la testa del corteo, anzi il gruppo che se ne è
distaccato; i fumi in lontananza;
tanta, tanta gente; Enrico Deaglio che a un certo punto incrocio; ricordo la
confusione, i lacrimogeni, la
gente spaventata che comincia ad arretrare e a muoversi verso il mare,
sul nostro fianco sinistro; è la polizia che carica; la confusione che mi fa
perdere contatto con Olga e con l’amico che l’accompagnava; ricordo la paura e la voglia di
togliersi dai guai; la scalinata che imbocco a fatica, nella ressa, per
abbandonare il lungomare; il lungo giro per le vie deserte della città, vagando
senza meta, senza conoscere la città; gli sbarramenti, le improvvisate barricate formate
con i cassonetti dell’immondizia; le strade vuote, le piazze vuote; qualcosa
che bruciadavanti a un sottopassaggio vicino alla stazione
Brignole; un gruppo di agenti
della polizia che avanza lungo una strada battendo i manganelli sugli scudi,
con un rumore sinistro e minaccioso; la marcia indietro per non incrociarli.
Ricordo piazza Alimonda, i fiori, gli
oggetti, i messaggi, la sciarpa della Roma a coprire il sangue lasciato da
Carlo; il piazzale vicino allo stadio pieno di pullman; gli amici che mi
chiamano al telefono preoccupati per quel che vedono in televisione; la ricerca
affannosa di acqua e cibo, con i bar tutti chiusi; i piedi che cominciano a far
male; la gente che sciama per le strade, il corteo che si dev’essere sciolto;
Olga che mi chiama e mi dice che sta ripartendo per Milano; ricordo il ritorno
alla Diaz, al centro stampa, a riprendere lo zaino; il ragazzo che mi indica un
posto in cui dormire, la scuola di fronte, la Diaz-Pertini; gli stand di
piazzale Kennedy dove trovo finalmente da mangiare; ricordo la stanchezza; il ritorno, ormai è
buio, alla Diaz, e tanta gente in via Battisti che parla, che beve,
che si riposa; ricordo la sensazione che una giornata difficile, anche
incomprensibile, è finalmente conclusa.
Ricordo i sacchi a pelo, gli zaini, le persone nella palestra della scuola
Diaz-Pertini che parlottano; quelli che già dormono, per terra; il
mio zaino nell’angolo a sinistra; il
sonno che arriva presto; ricordo i rumori che mi svegliano; l’ingresso
degli agenti, di corsa, urlando; le persone con le mani alzate che dicono,
nemmeno urlando semmai implorando “no violence”; gli agenti che corrono, urlano e picchiano, a calci e colpi di
manganelli tutti quelli che si trovano di fronte; ricordo gli agenti che
arrivano nella mia direzione; due
di loro che prendono a calci in faccia la ragazza seduta vicino a me; ricordo i
due agenti che mi prendono a manganellate; i colpi spaventosi che mi
arrivano sulle braccia, fortissimi, mentre mi riparo la testa; le braccia
sanguinanti, deformate, gonfiori che sembrano palline da ping pong sotto la
pelle; ricordo il sangue che scorre sugli avambracci e sotto le ginocchia; il dolore che mi impedisce di muovermi;
gli agenti che picchiano altre persone; le grida di paura e di dolore; i
pianti; l’agente con la camicia
bianca che torna verso di me e mi riempie di botte sulla schiena, mentre
sono adagiato a terra e tento di proteggermi la nuca; ricordo gli agenti che ci
minacciano; la gente che piange;
io che mi sposto strisciando alla parete di fronte, per eseguire l’ordine di
radunarsi su quel lato; ricordo la gente che piange e dice mamma mamma; il
ragazzo in crisi epilettica; la ragazza che mi consiglia di togliermi la maglia
per tamponare una ferita sul braccio; io che non riesco a togliermi la maglia
per il dolore al torace; ricordo il tempo che non passa; l’infermiere che arriva a mani nude e non sa da dove
cominciare; il medico che separa i feriti più gravi dagli altri; le barelle che
cominciano a caricare e portare via i feriti; il medico che dice di me: questo ha tutte e due le braccia rotte;
ricordo l’infermiere che mi stecca le braccia con i cartoni rigidi di due
quadernoni; ricordo la barella che mi porta fuori; l’agente con la camicia
bianca che chiede all’infermiera dei guanti di lattice per non sporcarsi le
mani con il sangue altrui; la gente al cancello che urla; gli agenti che fanno
cordone; l’elicottero assordante
sopra le nostre teste.
Ricordo l’ambulanza che mi porta in ospedale; le mie prime telefonate agli amici; il
corridoio del pronto soccorso pieno di lettini; i medici che mi tolgono gli
abiti e scoprono le ferite, gli ematomi; le radiografie; i punti che mi
ricuciono le ferite; ricordo l’arrivo all’alba nella camera d’ospedale; i poliziotti che mi aspettano e mi dicono che
sono in stato d’arresto ma non sanno dirmi perché; ricordo la
disperazione; i poliziotti che parlano con me e sembrano stupiti; le batterie
del telefono che si scaricano; i colleghi che vengono a trovarmi, anche se non
potrebbero; i medici che mi visitano; le ore che non passano; il Corriere della
Sera che racconta la mia storia e dice che sarò portato in carcere; ricordo gli
agenti che mi sorvegliano anche in bagno; io che supplico i medici di non mandarmi in carcere; Arnaldo
che viene portato nella mia camera; lui che conciona, con un braccio e una
gamba rotti, sulla grande partecipazione ai cortei; gli agenti che ridono; il
poliziotto di Bologna che conosce il mio collega che fa la nera; ricordo i magistrati che arrivano a
interrogarmi; le strane domande che mi fanno: ha visto delle bombe
molotov sopra un tavolo all’ingresso della scuola?; ricordo il terrore d’essere
portato in carcere; l’agente che
porta l’ordine di scarcerazione; i poliziotti che lasciano la camera; la
signora che in piena notte è ancora sveglia e mi presta un caricabatterie;
ricordo la telefonata per dire che mi hanno liberato; gli amici che da Milano
vengono a prendermi per riportarmi a casa.
Di Genova 2001 ricordo tutto perché Genova stava cambiando molto,
se non tutto. E molti altri, forse tutti quelli che si trovarono a Genova in
quei giorni potrebbero raccontare quel che fecero, quel che videro, quel che
subirono fino nei minimi dettagli, tale fu il trauma personale e collettivo.
Un movimento competente e creativo fu fermato,
anche se non distrutto, in quella calda estate del 2001. Non era troppo tempo
fa ed è giusto ricordare tutto perché vorrebbero farci credere che siamo alla
fine della storia, che la navigazione di piccolo cabotaggio è l’unica
possibilità che abbiamo. È bene ricordare tutto, fino nei minimi dettagli,
anche la parte più dolorosa di quei giorni, perché viviamo nel Paese della
menzogna e dell’oblio e invece il futuro ha bisogno di poggiare sul meglio
avvenuto in passato, pur senza dimenticare il peggio. Un movimento popolare è stato soffocato nel
sangue e questo non si può perdonare, perché il Paese è stato spinto
alla rassegnazione e alla mediocrità e la violenza delle istituzioni è stata
proposta – e da molti accettata – come una soluzione. Ma dobbiamo ricordare
ogni minuto che meno di vent’anni fa si è pensato di fare insieme, in tanti,
con intelligenza, superando le frontiere, qualcosa di importante per il bene
comune. È accaduto e quindi accadrà
di nuovo. Dobbiamo
ricordare tutto perché non è vero che la storia è finita.
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