sabato 30 settembre 2017

Tortura in Israele - B’Tselem

Il titolo del libro è Tortura in Israele, senza punti interrogativi.
È stato scritto da due organizzazioni (B’Tselem e HaMoked) per la difesa dei diritti umani, che in quella terra dimenticata da Dio  significa difesa dei diritti umani dei palestinesi.
Editore Zambon, costa 12 euro, 115 pagine di testimonianze, più di cento prigionieri palestinesi hanno rilasciato dichiarazioni giurate a un avvocato di HaMoked su tutto quello che hanno subito in carcere.
È doloroso, istruttivo, necessario leggere le testimonianze dei prigionieri e delle torture da loro subite, ad opera dell’esercito più morale del mondo, come si autodefinisce.
Qualcuno dirà che le testimonianze sono pilotate, che quei palestinesi si sono messi d’accordo. Lo dicevano anche per le vittime di Bolzaneto e della scuola Diaz, lo dicevano per chi lasciava i campi di concentramento, per chi raccontava di Garage Olimpo.
Alla fine del libro c’è una lettera che arriva dal ministero della (in)giustizia israeliano, da leggere per capire la banalità del male, piena di però, di ma, si sentono offesi perché B’Tselem e HaMoked non di sono messi d’accordo con loro prima della pubblicazione del libro.
Cesare Beccaria si rivolterebbe nella tomba se sapesse che dopo di 250 anni dalla pubblicazione del suo libro “Dei delitti e delle pene” in un paese “civile”, nel terzo millennio, si pratica tranquillamente e scientificamente la tortura, e che quasi tutti gli altri paesi sostengono, vezzeggiano, giustificano, coccolano quel paese che si chiama Israele, un faro di democrazia, dicono.
Cesare Beccaria direbbe che democrazia e tortura non possono coesistere, ma solo perché non capirebbe la raffinatezza delle strategie politiche, che si ispirano alla neolingua svelata in “1984”. Ma lui era uomo dell’Illuminismo, non conosceva gli abissi delle magnifiche sorti e progressive.

Buona lettura.

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Piccole patrie

L’egoismo della “piccola patria” - Alberto Negri

L’irredentismo dei nostri giorni è venato da un forte sospetto di egoismo. Il ragionamento di fondo è questo: separati gestiamo i nostri soldi, non versiamo i fondi europei e le tasse allo stato centrale. insomma non paghiamo per gli “altri”, che poi sarebbero quelli che fino a ieri erano nostri concittadini, magari meno ricchi e fortunati. I referendum consultivi promossi in Veneto e Lombardia obbediscono a questa logica. Il separatismo catalano, come quello basco, lo conosco abbastanza bene. Ho vissuto per un po’ di tempo nel cuore della Barcellona franchista quando parlare catalano e ballare la sardana in piazza era una forma di opposizione. Lo facevo anch’io giovane adolescente. Nel febbraio ’92 terminai un lungo reportage nei Paesi baschi per volare subito dopo al referendum per l’indipendenza della Bosnia che aprì le porte all’assedio dei mille giorni di Sarajevo. Ci sono momenti della storia dove sembra che vivere insieme sia impossibile e che separarsi sia l’unica strada possibile. La repressione violenta di queste spinte separatiste rende ancora più difficile fare appello alla razionalità, alla convivenza pacifica e accelera la corsa verso il baratro. E’ anche giusto che oggi popoli come i curdi iracheni facciano questa esperienza, facendo appello a diversità anche vere e reali, basate sulla storia l’identità, la lingua, la tradizione, persino la religione. Ma si deve anche sapere a cosa si va incontro. Fare parte di una “piccola patria” a volte è confortante e riempie la vertigine del vuoto identitario e delle sfide della globalizzazione. Ma passerà il tempo è ci si accorgerà che la piccola patria è troppo piccola, che è fatta da piccoli uomini, che la torta da spartire non è così grande come si pensava e che l’egoismo identitario rende ancora più deboli, vulnerabili e persino tragicamente ridicoli. La piccola patria, così bella e attraente nella nostra immaginazione e nei nostri sogni, da cullare come un rifugio protettivo, può trasformarsi in un incubo. Ma ognuno, naturalmente, pensi e faccia come meglio crede.


La piccola patria che Madrid vuole spegnere - Massimo Fini

Nel 1975, a Helsinki, 35 Stati del mondo, fra cui la Spagna, sancirono il diritto all’’autodeterminazione dei popoli’. Se questi accordi non sono solo delle astratte enunciazioni di principio destinate a non avere alcuna applicazione la Catalogna ha il pieno diritto di fare il suo referendum di indipendenza dalla Spagna.
L’intervento di Madrid per impedire il referendum che dovrebbe svolgersi il primo ottobre è brutale, violento e nella memoria dei catalani che hanno l’età per averla ha ricordato i metodi del regime franchista. Arresti di funzionari del governo catalano anche di altissimo livello come il braccio destro del vice presidente catalano, Josep Maria Jové, minaccia di arrestare lo stesso presidente della Catalogna, Carles Puigdemont, sequestro delle schede elettorali, chiusura dei seggi. Ma i catalani non demordono: hanno fatto stampare un milione di nuove schede, hanno aperto nuovi seggi che però la polizia di Madrid ha circondato impedendone l’accesso. Molto dipende ora dall’atteggiamento della polizia catalana (Mossos d’Esquadra) il cui comandante Trapero si è rifiutato, almeno per ora, di sottomettersi alla Guardia Civil spagnola. Nel momento in cui scriviamo le manifestazioni degli indipendentisti sono state pacifiche, nella forma prevalentemente dei sit-in ma se si dovesse arrivare a uno scontro fra le due polizie si aprirebbe la strada in Spagna a una sanguinosa guerra civile, non diversa se non nelle proporzioni da quella che attraversò il Paese alla fine degli anni Trenta e che contrappose i nazionalisti di Francisco Franco ai repubblicani.
Nulla è immutabile nella vita degli uomini e delle loro organizzazioni. La Storia, e il Tempo che scorre con essa, non si ferma checché ne abbiano pensato tutti gli storicismi, da Hegel a Marx fino a quel epigono imbecille di Fukuyama. Nuovi Stati si formano, altri si disgregano, altri ancora scompaiono. Se così non fosse tutto il ‘mondo nuovo’ che si aprì agli occhi degli europei al tempo di Magellano sarebbe rimasto, per diktat del Papato, che allora aveva una grande influenza, diviso in due zone, l’una spagnola, l’altra portoghese. Ma così non è andata.
Fermiamoci però a tempi più vicini a noi. Dopo il collasso dell’Urss le ex Repubbliche sovietiche sono diventate degli Stati a tutti gli effetti (Estonia, Lituania, Lettonia, Georgia, Turkmenistan, Azerbaigian, Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan, Armenia, Ucraina per nominarne solo alcuni), la Jugoslavia è scomparsa dalle mappe geografiche dividendosi in Slovenia, Croazia, Bosnia, Macedonia, Montenegro, Kosovo, la Slovacchia si è staccata dalla Cechia, la Germania si è riunificata. A parte la Bosnia e in particolare il Kosovo dove c’è stato un pesante intervento militare degli americani per staccarlo, a loro uso e consumo, dalla madre patria serba, tutte queste separazioni, o riunificazioni, sono avvenute in modo sostanzialmente pacifico. A volte erano così naturali che non c’è nemmeno stato il bisogno di ricorrere a un referendum.
Attualmente bollono in pentola, oltre a quello catalano, l’indipendentismo basco, scozzese, corso e, se vogliamo, anche l’autonomismo Lombardo-Veneto.
Questi indipendentismi hanno raramente vere ragioni politiche ed economiche. Nascono piuttosto da pulsioni esistenziali. Sono il tentativo di recuperare le proprie radici, un’identità perduta, di sfuggire in qualche modo a quella standardizzazione e a quella omologazione che la globalizzazione ha esasperato. E più si stringe il cerchio della globalizzazione, più entreranno in azione le controspinte indipendentiste.
E’ il sogno delle ‘piccole patrie’ che è venuto prepotentemente alla ribalta, o perlomeno alla coscienza dell’opinione pubblica italiana, ai tempi della prima Lega.
Alla luce degli accordi di Helsinki è un ‘sogno’, anzi un diritto, del tutto legittimo e, a parte le violente resistenze di Madrid, non si capisce perché l’Onu, l’Unione europea, Angela Merkel e altri soggetti politici si oppongano all’indipendentismo catalano senza avere alcun diritto di mettervi il becco.
Non facciamo altro che parlare di democrazia, del potere sovrano del popolo ma quando la volontà popolare si manifesta nella sua forma più limpida che è quella della democrazia diretta, e non della democrazia rappresentativa, troviamo qualsiasi pretesto per aggirarla e annullarla. ‘Populismo’ è l’aggettivo più usato per svilire e bollare qualsiasi tentativo che si opponga al sistema e al dominio di ‘lorsignori’, politici, economici, finanziari, di tutto il mondo. E allora diciamolo una volta per tutte: la democrazia non esiste, è un imbroglio, una Fata Morgana che svanisce appena mette in pericolo il dominio dei Signori della Terra.


Il continente delle piccole patrie - Marco Bascetta

Nel più prossimo futuro dell’Unione europea, la questione delle autonomie, o delle indipendenze, sembra destinata a occupare una posizione centrale e decisamente complicata. Nel senso che non riguarderà più solamente il rapporto tra le regioni che rivendicano l’autonomia e lo stato nazionale da cui aspirano a separarsi, ma porrà problemi politici di carattere generale tali da investire l’assetto stesso dell’Unione. La quale, nei suoi trattati e nelle sue politiche, ha completamente eluso la questione, adottando implicitamente quella posizione che nel diritto internazionale è raccomandata come principio di «non ingerenza». Insomma, soprattutto dopo l’esito delle elezioni catalane e spagnole, le indipendenze non potranno più restare affare esclusivo dei catalani, dei baschi, degli scozzesi o dei corsi, ma lo diventano di tutti gli europei e dell’idea di democrazia che vorranno affermare.
Oligarchie regionali
Converrà, tuttavia, definire chiaramente una premessa. Chi non ama, come chi scrive, gli stati nazionali, non può certo vedere di buon occhio la loro moltiplicazione. Ciò che è accaduto dopo il 1989 non ha fatto che confermare questa decisa avversione. Dalla ex Jugoslavia allo sfaldamento dell’Unione sovietica abbiamo assistito al proliferare di piccole patrie a vocazione ultranazionalista, al dilagare di conflitti sanguinosi su base etnica o identitaria con frequente ricorso a quella che Hobsbawm e Range chiamarono «l’invenzione della tradizione». Gli interessi egemonici occidentali e quelli delle oligarchie regionali hanno in larga misura governato e manipolato questi processi sotto la bandiera, da sempre equivoca, dell’«autodeterminazione dei popoli». Un’espressione che ha sovente sovrapposto alla realtà sociale e culturale dei territori, alle aspirazioni delle classi subalterne, il tornaconto di un ceto dominante alla ricerca della maggiore espansione possibile della propria sfera di potere. Per fare un esempio d’attualità, Arturo Mas, già contestatissimo presidente della Catalogna, è una delle espressioni più evidenti di questa forma di usurpazione da parte delle oligarchie regionali. L’aspirazione all’indipendenza ha sempre cercato di occultare, di neutralizzare, il conflitto di classe che la attraversa annegandolo nella palude indistinta del nascente «interesse nazionale». È la ragione per cui è sempre saggio diffidarne. Seppure non si deve dimenticare che per i catalani o per i baschi la controparte è stata, per lunghi e dolorosi anni, il centralismo fascista della Spagna di Franco. Insomma, la rivendicazione di indipendenza non può essere mai valutata in termini astratti, ma deve sempre essere misurata con il suo contenuto reale di democrazia, con la qualità sociale che la sostanzia.
Se ai nostri confini orientali si è consumata una tragedia, e in Spagna si prepara una difficile partita politica, in Italia è stata messa in scena una farsa per babbei, quella dell’indipendenza dell’inesistente Padania. Falsa come gli spadoni e gli elmi cornuti, le cerimonie celtiche e la moneta padana di cui i leghisti straparlavano intorno al 2011 e che qualche amministratore locale si mise addirittura a stampare. Il razzismo no, quello era vero, e pronto a transitare armi e bagagli in una destra ultranazionalista che stravede per il Front National di Marine Le Pen e la sua demagogia antieuropeista. Come sempre gli esiti chiariscono le premesse, l’anatomia dell’uomo spiega quella della scimmia. E l’antieuropeismo della Lega rivela la virulenta vocazione nazionalista che ne attraversa tutta la storia accompagnandola infine dalle parti di Casa Pound.
Narrazioni identitarie
Il rapporto con l’Europa, questo è dunque il primo punto sul quale misurare la qualità politica delle autonomie. Gli indipendentisti catalani, baschi, galiziani, corsi o scozzesi non sono antieuropei. Semmai guardano all’Unione come a una chance. Il partito nazionale scozzese ha esplicitamente dichiarato che l’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, il cosiddetto Brexit, rappresenterebbe un motivo in più per separarsi non dall’Europa ma dal Regno Unito. Per molti il commiato dallo stato nazionale si accompagna dunque a un desiderio di piena integrazione nell’Unione europea. Ma anche su questo punto bisogna fare attenzione: il filoeuropeismo può avere un carattere del tutto strumentale. Il riconoscimento da parte di una Europa sostanzialmente fondata sugli stati nazionali e sulla salvaguardia delle loro prerogative può funzionare da puro e semplice principio di legittimazione di nuove sovranità nazionali tracotanti e pronte a puntare i piedi come l’Ungheria di Victor Orban. Un certificato in bianco di nuova sovranità.
È quello che è accaduto nelle cosiddette «democrazie postcomuniste». Da quelle parti l’affiliazione europea è servita a coprire le peggiori nefandezze nazionaliste, le più bieche narrazioni identitarie delle piccole e grandi patrie. Funzionando, inoltre, da freno permanente ai processi di integrazione politica nel vecchio continente. Il modo in cui questi governi hanno reagito alla crisi dell’immigrazione indica un secondo, decisivo criterio sulla base del quale valutare la qualità delle autonomie: l’apertura o la chiusura nei confronti dei migranti. Quanto, insomma, l’orrendo principio del «padroni a casa nostra» venga assunto come bandiera dell’indipendenza. Vi sono, a questo proposito, realtà territoriali assai migliori degli stati nazionali, come ve ne sono di ben peggiori.
Una scommessa rischiosa
Abbiamo un serio problema. Non possiamo respingere le istanze autonomiste in difesa dello stato nazionale e del suo monopolio sovrano, ma non possiamo appoggiare le indipendenze in quanto fondazione di nuove sovranità nazionali che riproducano su scala minore, e possibilmente ancor peggiore, lo stato da cui si sono separate. Dobbiamo guardare, dunque, alla natura del processo democratico che si sviluppa nei territori, ai suoi contenuti sociali alla capacità di innovazione politica e di apertura che esprime. La domanda è allora da che cosa ci si vuole rendere indipendenti e per fare che cosa.
La posizione assunta da Podemos, e che le ha assicurato uno straordinario successo elettorale (in coalizione con altre forze regionali) in Catalogna, nel Paese basco, in Galizia, si fa carico appunto di questo problema. Pur contrario alla frammentazione dell’unità della Spagna il partito di Iglesias intende rispettare l’autodeterminazione democratica delle regioni separatiste. Se non si tratta di puro tatticismo, si apre così un processo che, in virtù del suo programma sociale, potrebbe modificare in senso antinazionalista l’una e le altre. Scommessa rischiosa, dall’esito assai incerto, ma che ha comunque il merito di indicare una strada, di aprire uno spazio politico nuovo. Che per l’Europa significherebbe ripensare il rapporto con quanto è sempre meno rappresentato dagli stati nazionali che, malgrado le apparenze, la tengono in ostaggio in uno stabile compromesso con le oligarchie finanziarie: il rapporto con i movimenti sociali, le realtà territoriali, i cittadini europei insoddisfatti dei rispettivi governi, i soggetti e le forze produttive sospinti ai margini del patto sociale.
Il nodo da sciogliere
Insomma quell’«Altra Europa» costruita dal basso di cui si continua a sognare ad occhi neanche troppo aperti. La domanda che il nuovo scenario ci propone è se non sia necessario, a questo punto, demolire il feticcio dell’integrità, anche territoriale, degli stati nazionali per mettere effettivamente in movimento un processo d’integrazione europea di questa natura. E se le «indipendenze» conseguite in un simile contesto non possano riuscire a configurare realtà politiche diverse dagli stati nazionali e ad alta capacità di reciproca integrazione. Siamo, ovviamente, nel campo dell’azzardo e sul confine di terre sconosciute. Ma nel laboratorio spagnolo questa materia si accinge a diventare estremamente concreta.
All’indomani delle elezioni in Spagna Lanfranco Caminiti interveniva nel suo blog, «La camera dello scirocco», assumendo proprio questo orizzonte. Ricordava, in quel testo, quanto la questione delle autonomie fosse collegata a quella del welfare e della distribuzione delle risorse. È noto come l’indipendentismo venga generalmente accusato di rappresentare l’interesse egoistico delle aree più ricche e produttive, restie a farsi carico dei problemi di quelle più svantaggiate. Accusa irricevibile da parte di Stati nazionali patentemente incapaci di rimediare ai loro squilibri interni, quando non cinicamente dediti a servirsene, sordi alle potenzialità dei diversi territori e sempre orientati a soddisfare gli imperativi del mercato. E ancor più priva di fondamento se si guarda alla cittadinanza europea come a una realtà effettiva e sostanziale. Del resto le sovranità nazionali si sono dimostrate pessime mediatrici tra la governance europea e le realtà locali. Oscillando tra la parte dello sbirro di Bruxelles, con le sue assurde normative, e quella dell’ azienda nazionale, il cosiddetto «sistema paese», in competizione con i suoi simili a colpi di precarietà, bassi salari e tagli dello stato sociale. Cosicché non si può che convenire con Caminiti quando scrive che non è lo stato nazionale a non potersi più permettere i costi del welfare, ma il welfare a non sopportare più il peso dello stato nazionale.
Il discorso dell’indipendenza è un modo vecchio (e piuttosto screditato dall’esperienza storica) di porre il tema dell’autogoverno e della sua cornice politica, ma è pur sempre un modo di proporlo. Podemos sembra avere riconosciuto la necessità di disporsi ad affrontare questo nodo. Né Partito dell’ Indipendenza, né partito della Nazione. Ma cosa vi sia fuori da questa alternativa è ancora tutto da immaginare.





L’estaca (Il palo) – Lluis Llach (Versione italiana di Lorenzo Masetti)

Il vecchio Siset mi parlava
di buon'ora sul portone
mentre aspettavamo il sole
e vedevamo passare i carri

Siset, non vedi il palo
al quale siamo tutti legati?
Se non riusciamo a liberarcene
non potremo mai camminare

Se tiriamo tutti insieme cadrà
e non può durare a lungo
di sicuro cade, cade cade
già dev'essere ben marcito

Se io tiro forte di qui
e tu tiri forte di là,
sicuro che cade, cade, cade
e potremo liberarci

Però, Siset, è già passato molto tempo
e le mani mi si stanno scorticando
e quando mi manca la forza
diventa più spesso e più grande.

Lo so bene che è marcio
ma il fatto, Siset, è che pesa tanto
che a volte le forze mi abbandonano
Tornami a ripetere la tua canzone

Se tiriamo tutti insieme, cadrà
e non può durare a lungo
di sicuro cade, cade cade
già dev'essere ben marcito

Se io tiro forte di qui
e tu tiri forte di là,
sicuro che cade, cade, cade
e potremo liberarci

Il vecchio Siset ormai non dice niente
se l'è portato via un vento cattivo
lui sa bene in che direzione
ed io sono ancora sotto il portone

E quando passano i nuovi ragazzi
Alzo la voce per cantare
L'ultimo canto di Siset,
l'ultimo che mi insegnò

Se tiriamo tutti insieme, cadrà
e non può durare a lungo
di sicuro cade, cade cade
già dev'essere ben marcito

Se io tiro forte di qui
e tu tiri forte di là,
sicuro che cade, cade, cade
e potremo liberarci.

venerdì 29 settembre 2017

Torture e morte delocalizzate - Lorenzo Guadagnucci


In un’intervista pubblicata sul numero 37 di Left, Enrico Calamai sviluppa un’interessante e originale analogia fra il trattamento che Italia ed Europa stanno riservando ai migranti dopo gli accordi con la Libia (e quello precedente con la Turchia) e la strategia della “desaparicion” praticata dal regime militare argentino negli anni Settanta. A quel tempo Calamai era un diplomatico in servizio nella nostra ambasciata a Buenos Aires e fu protagonista di una straordinaria azione di resistenza civile che permise a centinaia di italo-argentini di ottenere documenti validi per l’espatrio, nonostante la tiepidezza politica – chiamiamola così – dei nostri governi dell’epoca (Calamai ha raccontato la storia nel libro Niente asilo politico).
Calamai, intervistato da Donatella Coccoli, ricorda che al tempo del regime militare la sparizione degli oppositori era un metodo repressivo molto efficace, perché non comportava responsabilità evidenti delle forze governative, visto che le sparizioni erano attuate e gestite da invisibili gruppi paramilitari. Solo la straordinaria e intelligente protesta della “madres” di Plaza de Mayo – con le marce settimanali – avrebbe messo in difficoltà il regime e portato la vicenda all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale.
Che c’entra tutto questo con la vicenda attuale dei migranti? C’entra, dice Calamai, perché oggi i governi europei hanno delegato ad altri il compito di far sparire mediaticamente i migranti, che hanno smesso di affacciarsi sulla costa di Lampedusa (e quindi sugli schermi delle nostre tv all’ora del telegiornale) grazie all’intervento, a seconda dei casi, di eserciti statali, milizie private, polizie, guardie costiere di paesi terzi.
In Libia, come ormai è chiaro, stiamo pagando fior di milioni di euro a capi  villaggio, signori e signorotti della guerra, trafficanti di esseri umani per trattenere gli aspiranti all’emigrazione in centri di detenzione dove si pretenderebbe di chiudere persone innocenti ma “nel rispetto dei diritti umani”, secondo  la fasulla retorica corrente (e qui è consigliabile vedere il film L’ordine delle cose di Andrea Segre per capire di che cosa stiamo realmente parlando).
Siamo alla delocalizzazione della tortura. Questo lavoro sporco è lontano dai nostri occhi ma nessuno può fingere di non sapere.

“Oggi – dice Calamai – i governi creano le condizioni politiche ed economiche legali, commissive e omissive” affinché si arrivi all’eliminazione dei migranti dalla scena. Precisa Calamai: “Mi riferisco ai paesi che fanno parte della Nato e dell’Unione europea. Sono questi i protagonisti che hanno poi come manovalanza ed esecutori i governi poveri della sponda africana. Ma i protagonisti ‘intellettuali’, ripeto, di questa linea politica di morte, di massacro cercato e voluto, sono i governi europei e membri della Nato. Stiamo vivendo un periodo paragonabile a quello di fine anni Trenta, quando non esisteva ancora il termine genocidio, per cui si poteva fare qualcosa che non era un delitto, un reato internazionale”.
La chiusura delle porte ai migranti con la mano libera lasciata al governo turco, ai governi e alle milizie della Libia, per non parlare degli accordi stretti in altre zone calde nei luoghi di partenza, implicano necessariamente abusi, violenze e morte per migliaia e migliaia di persone, ma tutto avviene lontano da occhi indiscreti: dal Mediterraneo sono state allontanate anche le navi delle Ong e può succedere che un barcone vaghi alla deriva per sette giorni senza che nessuno faccia niente…
Ma tutti sappiamo. Come nella Germania degli anni Trenta l’istituzione di campi di detenzione per oppositori e indesiderati non fu un mistero, così tutti noi – governanti e cittadini – sappiamo bene che è stata presa la decisione di negare opportunità, speranze, diritti e spesso anche la vita a persone che altro non chiedono se non di avere un’opportunità di vita in Europa e nel Nord del mondo, lontano dalla miseria, dalla guerra, dalla desertificazione.
Il protagonista del film di Andrea Segre, quando incontra una ragazza in un centro di detenzione libico e ne coglie per intero l’umana disperazione, sembra concedersi la possibilità di seguire la via che la morale gli detta, ma poi decide di non farne niente. Rinunzia, con una semplice telefonata, a salvare la ragazza, e va a sedersi nella sua confortevole casa per una serena cena in famiglia, come se nulla fosse.
Quella scena è la metafora dell’Italia di oggi.

Ricordando Edward Said - Ivana Perić


La fine di settembre segna quattordici anni senza Edward Said, teorico letterario e intellettuale di vasta portata. Molte cose che Said ha scritto – dal modo in cui l’Occidente percepisce e rappresenta l’Oriente alla questione della Palestina – rimangono oggi un tema caldo. Per commemorare Said e ricordare la grandezza delle sue opere ne parliamo con Judith Butler, Laleh Khalili, Avi Shlaim e Illan Pappé.
“L’umanesimo è l’unica – vorrei arrivare a dire l’ultima – resistenza contro le pratiche inumane e le ingiustizie che sfigurano la storia umana”.
Edward Said (1935-2003)

La fine di settembre (25 settembre) segna quattordici anni senza Edward Said, teorico letterario e intellettuale di vasta portata. Said è stato una figura fondamentale del campo critico-teorico del post-colonialismo e un forte sostenitore dei diritti politici e umani del popolo palestinese. La sua opera principale, ‘Orientalismo’, ha illustrato lo studio occidentale delle culture orientali e, in generale, il quadro di come l’Occidente percepisce e rappresenta l’Oriente.
Il grande intelletto di Said e la sua energia inesauribile sono una grossa perdita. Molte cose che Said ha scritto – dalle rappresentazioni culturali dell’Oriente alla questione della Palestina – rimangono oggi un tema caldo. Per commemorare Said e ricordare la grandezza delle sue opere ne parliamo con studiosi di tutto il mondo, facendo loro una domanda:
Questo mese, in cui cade il 14esimo anniversario della morte di Edward Said, mettiamo ancora una volta in luce il suo lavoro. Cosa trova più rilevante e importante nel / sul lavoro di Edward Said in questo giorno e epoca?


Judith Butler, filosofo e teorico di genere, professore presso il Dipartimento di Lettere Comparative e il Programma di Teoria Critica, Università di California: Said aveva compreso il lavoro dell’immaginazione.

“Said era in grado di immaginare un mondo in cui l’eredità del colonialismo potrebbe finire e un rapporto di uguaglianza nella differenza potrebbe prendere il suo posto nelle terre della Palestina. Capiva che il lavoro dell’immaginazione è centrale per la politica, senza una visione “irrealistica” del futuro, non si potrebbe fare alcun movimento nella direzione di una pace fondata su una giusta e duratura soluzione.
Ha vissuto nel bel mezzo del conflitto e ha usato i poteri dell’arte e della letteratura, dell’archivio, della testimonianza e dell’appello pubblico, per chiedere al mondo di immaginare un futuro in cui uguaglianza, giustizia e libertà trionfano finalmente su subordinazione, spoliazione e violenza. A volte penso che forse era troppo buono per questo mondo, ma quella incommensurabilità tra ciò che poteva immaginare e ciò che esiste davvero rappresenta in parte il potere della sua scrittura e della sua presenza nel mondo”.


Laleh Khalili, ricercatrice e professore di politica del Medio Oriente, SOAS, Londra: Le tenere cadenze e la brillantezza profetica della prosa di Said.

“‘Orientalismo’ di Said sembra non perdere mai la sua rilevanza, anche decenni dopo la sua pubblicazione. In effetti, le trasformazioni (e fallimenti in trasformazione) che sono avvenute in Medio Oriente dalle Rivolte arabe del 2011 sembrano offrire a orientalisti responsabili della politica ed esperti un’altra scusa per tirar fuori gli stessi vecchi cliché.
Ma man mano che invecchio, divento anche profondamente riconoscente per le intuizioni di Said nella letteratura e nelle arti. Il suo lavoro su inizi – e fini – la sua intima e bizzarramente generosa lettura di romanzi e storie, le intuizioni che fornisce su sociale e politico dalle più piccole frasi o paragrafi nei classici di letteratura inglese o francese, lo rendono sempre più importante. E come uno legge sempre più ampollosi scritti accademici e non-accademici, diventa sempre più grato per le cadenze tenere e la brillantezza profetica della sua prosa”.


Ilan Pappé, storico e professore al Collegio delle Scienze Sociali e Studi Internazionali dell’Università di Exeter: Orientalismo e Cultura e Imperialismo ancora oggi attuali.


“Credo che i due importanti contributi di Said alla conoscenza siano ancora oggi attuali come lo sono stati quando era in vita. Le sue opere fondamentali, ‘Orientalismo’ e ‘Cultura e imperialismo’, che hanno svelato il discorso occidentale razzista, riduzionista e dannoso sull’Oriente, sono ancora una parte cruciale della vita. Sono ancora la migliore analisi che abbiamo per capire come sia l’aggressione dell’Occidente in Medio Oriente (l’occupazione dell’Iraq e dell’Afghanistan) e le reazioni ad essa sono ancora accolte come accettabili e legittime grazie al potere di questo discorso.
Così pure il messaggio di Said nei vari libri e articoli sulla Palestina è ancora oggi valido. In queste opere ha svelato il livello di fabbricazione e ignoranza su una sofferenza di un popolo per più di un secolo e ha avvertito che questo stato di cose influenzerà il Medio Oriente e oltre. Entrambi i contributi riguardano potere e conoscenza e la sua eredità è ancora con noi, dà potere alla verità e puoi essere in grado di utilizzare le conoscenze per la pace e la riconciliazione; lascialo nelle mani di soggetti cinici e conflitti continueranno a infuriare”.


Avi Shlaim, storico e professore emerito di Relazioni Internazionali, Università di Oxford: Intellettuale che non ha mai abbandonato la speranza di coesistenza e pace.

“Edward Said è stato uno studioso straordinariamente versatile e prolifico. Il suo libro ‘Orientalismo’ ha svelato i pregiudizi ideologici che stanno dietro le percezioni occidentali dell”Oriente’ e ha contribuito a creare un particolare sottocampo di quel campo che è stato chiamato ‘studi post-coloniali’. Oltre a questa ricerca letteraria Said era un pianista a livello concertistico e un importante critico musicale. Ultimo, ma non per importanza, è stato un intellettuale politicamente impegnato e il portavoce più eloquente a nome del popolo palestinese oppresso.
Sebbene le richieste di accordo e coesistenza pacifica di Said gli avessero guadagnato il malcontento di radicali arabi e di pochi seguaci dal lato israeliano, non abbandonò mai la lotta. Al contrario, ha continuato a esprimere chiaramente la sua visione inclusiva in ogni occasione possibile. Il mondo deve vedere, ha scritto, che ‘l’idea palestinese è un’idea di convivenza, di rispetto per gli altri, di riconoscimento reciproco tra palestinesi e israeliani.’ In questa unica frase è racchiusa l’essenza del pensiero di Edward Said. E’ il tema più consistente nella sua voluminosa scrittura in materia, da ‘La questione della Palestina’ all’ultimo articolo.
Trascorse gli ultimi anni della sua vita cercando di sviluppare una strategia di pace completamente nuova, un nuovo approccio basato su parità, riconciliazione e giustizia. “Io … non vedo altro modo che cominciare ora a parlare di condividere la terra che ci spinge a stare insieme e condividerla in modo veramente democratico, con uguali diritti per ogni cittadino”, disse Said nel 1999. E’ stato un intellettuale che ha passato una vita a combattere con le complessità e le contraddizioni del conflitto arabo-israeliano e non ha mai abbandonato la speranza nella coesistenza e nella pace”.

Traduzione: Simonetta Lambertini, invictapalestina.org

giovedì 28 settembre 2017

con gli occhi di Latuff





Il ring invisibile - Alban Lefranc

Alban Lefranc sceglie una chiave per raccontare Muhammad Alì, ed è quella della presenza continua di Emmett Till nella mente del pugile.
Muhammad Alì racconta che "Emmett Till and I were about the same age," Ali wrote in The Greatest. "A week after he was murdered in Sunflower County, Mississippi, I stood on the corner with a gang of boys, looking at pictures of him in the black newspapers and magazines. In one, he was laughing and happy. In the other, his head was swollen and based in. His mother had done a bold thing. She refused to let him be buried until thousands marched past his open casket in Chicago and looked down at his mutilated body. I felt a deep kinship to him especially when I learned he was born the same year and day I was. My father talked about it at night and dramatized the crime." (da qui)
il libro affronta i primi anni della carriera di pugile di Muhammad Alì, quando ancora era Cassius Clay, fino alla vittoria su Sonny Liston del 25 febbraio del 1964.
da ragazzo a campione del mondo, con Emmett Till sempre in testa, un ragazzo come lui, un monito, un avvertimento.
scommessa riuscita di Alban Lefranc.
buona lettura (e buona visione del documentario)










Dentro il ring invisibile che Alban Lefranc costruisce intorno al giovane Cassius Clay, verità e immaginazione lottano corpo a corpo per dare vita a una biografia visionaria e incandescente. Tutto nasce da un fatto di cronaca che ha cambiato la storia degli Stati Uniti: il macabro omicidio di Emmett Till, l’adolescente afroamericano massacrato il 28 agosto 1955 nella cittadina di Money, Mississippi, per aver osato importunare una donna bianca. Cassius ha quasi la stessa età della vittima e ancora non sa che un giorno diventerà Muhammad Ali, «The Greatest», ma sarà proprio l’immagine scioccante di quel volto sfigurato – pubblicata su tutti i giornali del paese – a trasformare un ragazzino di Louisville nel più straordinario dei combattenti. «La sera mio padre ci parlava di Emmett e ci raccontava in modo accorato il delitto. Continuai a pensare a lui, fino al giorno in cui mi venne in mente come far pagare ai bianchi la sua morte». È da questa confessione che Lefranc parte per raccontare Ali prima di Ali – ovvero la genesi dell’atleta che più di ogni altro ha saputo trasformare l’impresa sportiva in un atto politico, civile e rivoluzionario.

Il ring invisibile è il frutto di questo obiettivo programmatico: con un linguaggio capace di veicolare anche le emozioni più forti e i sentimenti meno esprimibili, Alban Lefranc ha messo la sua sensibilità al servizio del giovane Cassius Clay e ha immaginato di concedere una penna o un microfono alle sue ansie, alle sue paure e alla sua rabbia di giovane negro; i pensieri che sgorgano dalla sua mente e che si bloccano nella sua gola riflettono la drammatica consapevolezza delle lacerazioni razziali e delle piaghe sociali che affliggono il Sud segregato. Il ritmo caotico delle sue inquietudini si accorda con l’angoscia che assale un ragazzino afroamericano quando suo padre, che non riesce a vincere l’eterno duello con l’alcol, gli sbatte in faccia la notizia del massacro di un suo coetaneo, Emmett Till. La predestinazione alla grandezza, l’ossessione per la purezza, il terrore del volo e della morte, la scoperta del proprio corpo e la consapevolezza delle iniquità dell’America degli anni Cinquanta concorrono a formare un’ossessione che è al tempo stesso il motore e l’obiettivo del giovane Cassius Clay, la causa e la conseguenza della sua grandezza futura. La Medaglia d’Oro dei pesi massimi delle Olimpiadi di Roma comincia la sua ascesa poiché supera i fantasmi che lo tormentano abbattendoli sui ring invisibili della sua esistenza e impara a trasformare in una spietata leggiadria le contraddizioni della sua giovinezza; soltanto al termine di un lungo percorso iniziatico, l’uomo-Ali riesce a lasciarsi alle spalle il mito oscuro di Jack Johnson, l’eredità mutila di Joe Louis e i sospetti legati al KO di Sonny Liston, ma finisce per perdersi in una dimensione pubblica che annulla il suo ring invisibile e soffoca la sua vera personalità…

Sono parole misurate ma pesanti come macigni, quelle di Lefranc. Come in una gravitazione a più satelliti, molteplici sono le tematiche che entrano in gioco: la rivalsa personale, l’ambizione, la delusione, il rispetto verso gli insegnamenti paterni, la forza interiore, la propria fallibilità, le tentazioni e la paura, senza le quali nessun pugile può mai aspirare a diventare tale. È un linguaggio succinto e immaginifico, capace di trasportarci al centro di quel ring mentale e farci osservare contorni e limiti di quello spazio, muovendoci manieristicamente alla ricerca della perfezione, prevedendo e scansando ogni ostacolo. Ma la vita non può essere riprodotta, né tanto meno anticipata, nemmeno nel chiuso dei nostri pensieri, e l’imprevedibilità umana gioca sempre un ruolo preminente nella nostra esistenza.


martedì 26 settembre 2017

Un parlamento con le mani insanguinate - Tonio Dell’Olio


301 voti contrari e 120 a favore. La Camera dei Deputati ha respinto le richieste rivolte al governo per bloccare la vendita di armi a Paesi in guerra o responsabili di violazioni dei diritti umani come peraltro disposto dalla legge 185/1990 e dal Trattato internazionale sul commercio delle armi.
Ciò che premeva particolarmente era la richiesta di sospensione di invio delle bombe fabbricate a Domusnovas (leggi anche Uno sporco lavoro e i suoi danni collaterali) verso l’Arabia Saudita che le sta “utilizzando” per bombardare lo Yemen. Il bilancio di quelle operazioni secondo vari organismi internazionali è di oltre diecimila morti, quarantamila feriti, due milioni di bambini in stato di malnutrizione e di una dilagante epidemia di colera.
La carrellata degli interventi contrari (e vincenti) ha del tragicomico. A cominciare dai deputati del Partito democratico, i cui colleghi del parlamento europeo solo qualche giorno prima (13 settembre) avevano votato a favore di un embargo di armi ai danni dell’Arabia Saudita da parte dei governi dell’Unione. Ci sono poi stati quelli che hanno vantato il progetto di cooperazione internazionale di dieci milioni di euro da parte dell’Italia per aiutare la popolazione yemenita. Come dire che con una mano vi distruggiamo e con l’altra facciamo finta di aiutarvi. E, infine, coloro che hanno provato a giustificare la strategia militare dei sauditi con l’intento di arginare l’influenza iraniana dilagante nella regione.
A tutti loro andrebbe ricordato che, come hanno dichiarato autorevoli rappresentanti tedeschi, quelle bombe vengono costruite dall’azienda tedesca RWM in Italia perché secondo la loro legislazione non sarebbe possibile esportarli verso un Paese in guerra. Per la verità anche da noi. Solo che noi, in nome del dio denaro, diventiamo più disponibili. E intanto in Yemen si muore.

Lettera di dimissioni dal genere maschile - Marco Cinque

Caro uomo, tu
che esprimi indignazione
per ogni sopruso consumato
contro una donna, una madre
una sorella, una bambina.
Tu, caro maschio
che ti vergogni degli orrori
inflitti dagli altri maschi.
Tu mio fedele amico
che con le tue parole
vorresti cancellare ogni
violenza, ogni abuso
dove ti nascondi, dove sei?
Non ti sento, davvero.
Dov’è il tuo corpo, la tua carne
che dice “adesso basta”?
Tu mio inestimabile compagno
io non ti vedo se non
nel mondo delle tue intenzioni
ma il tuo atto di volontà
è come una carezza di pietà
un gesto senza profondità
un’onda mai arrivata
e sembra solo un altro modo
per lavartene le mani
come uno startene dentro
chiamandoti fuori.
Tu, caro uomo
mi deludi profondamente
mi costringi a non avere
alcuna fiducia in te.
Caro maschio, tu
che mi fai desiderare di
rifiutare il genere maschile
di ripudiare persino il giorno
della mia stessa nascita.
Tu caro amico, caro compagno
che credevo così diverso dagli altri
ma che in fondo stai sempre
così comodo nel tuo ruolo
e non sei disposto a rinunciarci
non vuoi ammettere responsabilità
in questa sconfitta umana
che sembra aver deciso
di lasciarci mostri cavernicoli
con le nostre pietre e le nostre clave
che hanno solo cambiato nome e forma.
Caro uomo, maschio, amico, compagno
tu che ti ritieni un essere intelligente
ma che continui ad accettare
l’ineluttabilità della bestia che è in te
non posso continuare a parlare
ancora con la tua ombra
a chiederti le ragioni
delle tue colpevoli assenze
e rifiuto quel buio in cui hai
scelto ostinatamente di abitare.
Non sai quanto dolore provo
a scriverti questo, ma tu
non mi lasci scelta ed io
non posso fare altro
che dimettermi
da te.

Liceo corto, vizio lungo - Gigi Monello


Siccome mercato interno ed estero ingurgitano senza sosta diplomati e laureati, è giusto forzare il passo, non regalando a nessuno il vantaggio di fare in 4 anni, ciò che noi facciamo in 5. Problema di quantità, insomma. È l'unica ragione (discutibile) a favore del liceo breve. Ingurgita, per caso, il mercato? Ma figurarsi. Fumo negli occhi, dunque. Le ragioni del botto d'Agosto devono essere altre; più in linea con la usuale inclinazione al "machiavello".
Tira aria di resa dei conti: il Gentiloni saluta a Marzo; in primavera ci si gioca tutto: fortune personali e destino del paese (quando si dice la combinazione). O l'avventura rampantista riparte o finisce per sempre (a naso, buona la seconda). Può il ministro tacere? Non può. Deve fare notizia, metter mano alla tela di Penelope e fare anche lei quello che tutti hanno già fatto: riformare. O dire di volerlo fare.
Liceo corto, dunque: giovani più presto al lavoro; un anno risparmiato; lo fanno in Europa (falso, sono molti a non farlo); si comincia con 100 classi e, se funziona, si fa tutti così. Manca solo la lacrimuccia ipocrita sui bassi stipendi e l'accenno all'obbligo a 18 anni: che arrivano puntuali. Il piatto è servito: TG e WEB per ore 24 non smettono di macinare, dimodoché dal mare ai monti non si parla d'altro che della nuova pensata. Vantaggi? I liberisti plaudono al taglio di spesa (1.380 milioni); un certo praticismo qualunquista, alla saggezza del buon tempo antico: "a che serve studiare tanto? Andè a lavurà!" Come con la Buona Scuola, l'anima del turbo-pedagogismo di governo è ragioneria ed estetica dell'azione: la cassa e la grancassa.
Certo, a guardare il dettaglio di questo ennesimo esperimento, viene da compatire le cavie: stessi programmi, medesimi esami finali, orario potenziato da 900 a 1000 e passa ore annue; sesta ora di lezione (chi già la fa, riferisce che vale il 30/40% di un'ora normale); alternanza scuola-lavoro possibilmente tutta nelle vacanze natalizie, pasquali ed estive (ci crederò quando lo vedo); una materia tutta in inglese in terza e in quarta (servirà ad imparare la materia o ad imparare l'inglese?). L'impressione è di cosa non troppo meditata: fosse per caso "un pacco"? Niente affatto: dalle traboccanti adunate cielline (l'effimero teologico-litoraneo) scende il verbo sereno: "non ci sarà tanto una riduzione nella quantità dei contenuti, quanto una innovazione qualitativa degli stessi". Frasetta nebulosa: non serve neppure attivare le funzioni corticali superiori, bastano le sole narici per classificarla al volo nella riverita categoria del "suona bene ma non significa un fico".
Bello sarà vedere ‒ tanto per dirne una ‒ come i diretti interessati faranno entrare dentro terzo e quarto scientifico ‒ già, di loro, pienotti ‒ Induzione elettromagnetica, Equazioni di Maxwell, Relatività ristretta, Modelli atomici, Crisi della fisica classica e Meccanica quantistica; temini del 5°anno. Basteranno gli abracadabra della didattica laboratoriale e del potenziamento tecnologico? O si arriverà agli elettrodi a ventosa sul cranio prima di andare a dormire? In attesa di sapere che ne sarà di questa pubblica istruzione modello Scientology, ai prossimi fortunati l'augurio del Chiambretti: "Comunque vada, sarà un successo". Formativo.

lunedì 25 settembre 2017

cosi inizia "Sa Limba est s'istòria de su mundu", di Francesco Masala

A sos tempos de sa pizzinnia, in bidda, totus chistionaìamus in limba sarda. In domos nostras no si faeddaiat àtera limba. E deo, in sa limba nadia, cominzei a connòschere totu sas cosas de su mundu.
Ma, a sos ses annos, intrei in prima elementare e su mastru de iscola proibeit, a mie e a sos fedales mios, de faeddare in s’ùnica limba chi connoschìamus: depìamus chistionare in limba italiana, «la lingua della Patria», nos nareit, sèriu-sèriu, su mastru de iscola.
Nois no connoschìamus sa limba italiana e, pro cussu, nos istaìamus mudos de fronte a su mastru ma, tra nois, sighemus a faeddare in sa limba de mama. Su mastru, cando nos intendiat alleghende in sardu, nos daiat ses azotadas subra sas manos, tres pro donzi manu. E, tando, istaìamus mudos puru tra nois.
Gai, totus sos pizzinnos de idda, intraiant in iscola abbistos e allirgos e nde bessiant tontos e caritristos. Pro cussu, como chi so bezzu, s’idea mia est custa: de azotare subra sas manos a totus sos italianos chi no faeddant sa limba sarda.
S’iscola fit in d’una domita bezza e maleconza, accurzu a unu cunzadu totu prenu de fèrulas e de iscrareos. Su mastru fit un òmine bàsciu-bàsciu, lanzu-lanzu, sèriu-sèriu, semper bestidu de nieddu ca fit su Segretàriu de su Fasciu: nois, a paranùmene, lu fentomaìamus “Mincitristu”.
Unu manzanu de abrile, su mastru benzeit a iscola cun d’unu saccu prenu de arvuritos de zinnìperu. Nos ponzeit in fila e nos che giuteit a su cunzadu de sas fèrulas.
Pro donzi fèrula irraighinada, piantemus unu arvuritu de zinnìperu. Pustis, subra un’anta de muru, su mastru b’iscrieit, a lìteras mannas: “PARCO DELLA RIMEMBRANZA”. (Pro nois custa paràula “rimembranza” fit unu mistèriu eleusinu). A donzunu de nois, su mastru assigneit unu arvuritu de zinnìperu e a donzunu de nois ordineit de tènnere in contu s’arvuritu sou, die e notte, comente “Balilla-guardia d’onore”.
A mie puru, su mastru assigneit unu arvuritu de tènnere in contu, subra s’onore meu. Ma una die, una craba sàrtiat su muru de su cunzadu de sa “Rimembranza” e si ponet a iscorzare pròpriu s’arvuritu meu. Deo, forsis ca fio tontu o forsis ca timio sas crabas, no hapei su coro de che cazzare cussa craba malaitta e issa, corribècchina, nde istrazzat totu su zinnìperu meu.
Sa die pustis, Mincitristu bintrat in iscola, seriusèriu, s’accùrziat a su bancu meu, mi ponet sas manos subra sas palas e mi nde bogat dae su bancu, urulende: «Traditore della patria!!!! Sei licenziato da Balilla-guardia d’onore!!!!». Dae sa die, deo m’intendei disonoradu ma cominzeint a mi nàschere in conca milli dùbios subra sa Pàtria Italiana.
A conca bàscia, torrei a domo, ue bi fit, aisettende a mie, comente a semper, jaju meu, bonànima, Donnu Chìrigu ‘e Serra, su babbu de mama mia. Jaju meu fit un’omine meda ezzu e meda sàbiu e a issu deo contaio totu sas cosas chi suzzediana in iscola. E issu, rie-rie, mi narat: «No timas, su mastru tou est òmine de zittade e, duncas, sas cosas de sas biddas no las cumprendet, mischinu, faeddat in italianu ma màndigat in sardu. Asculta a mie: in sa limba de bidda nostra bi sun totas sas limbas de su mundu, ca s’istòria de sa idda est s’istòria de totu su mundu». (Cumpresu bona zente? Mac Luhan no fit ancora nàschidu ma jaju Chìrigu ‘e Serra ischiat, pro contu sou, chi su mundu est una bidda. Ischiat chi sa limba est su mundu. Ischiat chi s’istòria de sa limba est s’istòria de su mundu, ca su tempus passadu est su coro de su tempus benidore). Jaju meu est mortu chi haiat norantabattor annos e, gai, nd’hat hàpidu de tempus pro mi nàrrere istòrias, contos e faulas.
In antigòriu, a sos tempos de sos nuraghes, sos Sardos faeddaiant sa “limba de Adamu” e sas paràulas fint sos sinnos de sas cosas: e no comente como chi sas paràulas benint prima de sas cosas, imbentadas dae sos poetas, dae sos filòsofos e dae sos iscenziados.
Jaju haiat iscobertu, in sa limba sarda de oe, pius de milli paràulas nuraghesas, arrivadas finzas a nois, impari cun sos nuraghes, sas perdas fittas, sas domus de janas, sos santitos de brunzu, sas launeddas, su boborobò, s’andimmironnai, su ballu tundu, sos mammutones, sos insocatores, sos merdules e sos zurpos. Sos numenes nuraghesos –naraiat jaju– si connoschent, oe puru, ca hant sa matessi vocale ripetida vàrias bias in sa matessi paràula: Orgòsolo – Mògoro – Ìttiri – Ìsili – Àrzana - Àrdara – Atzara – Pattada – Sèneghe – Talana – Semèstene – Zippiri – Tàppara e ateras paraulas gai. Bae e chirca ite cheren nàrrere custos nùmenes!...

domenica 24 settembre 2017

Due o tre cose, per decidere di essere sardi - Placido Cherchi


Parafrasando Adorno, (La musica non è ideologia, ma può esserne fatto un uso ideologico) direi che l’italiano e il sardo, come tutte le lin­gue, non sono ideologia, e che di essi però, come della musica, può esser fatto un uso ideologico. Per quanto mi riguarda,

Parafrasando Adorno, direi che l’italiano e il sardo, come tutte le lin­gue, non sono ideologia, e che di essi però, come della musica, può esser fatto un uso ideologico. Per quanto mi riguarda, non ho difficoltà ad ammettere che, nel corso di questa conversazione, cercherò di demistifi­care l’uso ideologico dell’italiano senza rinunciare all’uso ideologico del sardo. Ragioni di tipo piuttosto privato mi inducono a coltivare vecchie incazzature nei confronti di un modo di essere veicolato dall’italiano e a riproporre come ancora attuali le risposte emotive pensate allora. Proprio per questo il discorso che vorrei fare stasera non ha molte pretese. Poiché nasce da alcune riflessioni riguardanti un certo ventaglio di “vissuti” per­sonali, esso ha su di sé il peso di una pregiudiziale fortemente orientata in senso soggettivo, e può valere più come testimonianza che non come tesi depurata dalle particolarità della mia esperienza individuale.

Mi chiedo, però, fino a che punto la dimensione dell'esperienza perso­nale non sia presente nelle cose che passano per essere forma paradigma­tica dell’astrazione e oltrepassamento per eccellenza del privato. Mi chie­do, cioè, se davvero, nella genesi delle posizioni culturali meno compro­messe sul piano esistenziale, i vissuti personali non esercitino un peso rico­noscibile e un’incidenza oggettiva superiore al gioco degli occultamenti che gli attori di quelle posizioni cercano di farne. In realtà, non vedo per­ché dovrei deprimere come inezie le questioni che traboccano dallo zaino delle mie cose personali, o perché dovrei impedir loro di spremere dal pro­prio interno quel tanto di significato generale che le spiega come risulta­to di una storia e dunque come conseguenza di situazioni che vanno ben oltre la mia persona. Credo che ogni discorso a titolo personale sia sempre carico di ulteriorità collettiva e che ogni volta che ci si guarda allo specchio ci si trovi di fronte a un possibile altro che sente e pensa in modo non molto diverso dal nostro e a cui possiamo dare in prestito, senza molti scarti, le angustie e i compiacimenti presenti nelle pieghe di quell'immagine riflessa. Sul piano storico-culturale ciascuno di noi è sempre se stesso e tre centomila persone, così come, sul piano della propria differenza, ciascuno di noi è motivato da ragioni che rassomigliano da vicino alle ragioni per le quali tanti altri dissentono dall'omogeneità imperante di altre e in nome di qualcosa che si autoproclama “unico” e “inconfrontabile”.
Sono sicuro, appunto, che quello che posso raccontare di me stesso, rievocando le fasi personali che hanno trasformato nel suo contrario l’iniziale vergogna di essere sardo, possa essere raccontato di molti di voi e della maggior parte dei nostri conterranei che abbiano vissuto i laceranti passaggi della transizione.
Io provengo da una famiglia linguisticamente schizofrenica che al pari di tante altre famiglie sarde, ha interiorizzato lo spartiacque storico tracciato dall'ultima guerra, facendo parlare italiano – e solo italiano – ai figli nati dopo quella data. Per molto tempo, al suo interno, il paradosso è stato che i primi tre figli  parlassimo in sardo tra di noi e con i genitori e parlassimo invece italiano con le due ultime sorelle, che tra di loro e con i genitori, oltre che con noi, parlavano appunto la lingua imparata a scuo­la. Solo più tardi, da grandi, anche loro sarebbero diventate bilingui, con­servando, è vero, l’abitudine dell’italiano, ma preferendo il sardo nelle situazioni più delicate. Se cerco di spiegarmi questo fenomeno, so di poter trovare qualche risposta convincente nella fisionomia dell’ ambiente socio­culturale e socio-linguistico in cui vivevamo.

Il nostro mondo era un piccolo agglomerato industriale – per la preci­sione un cantiere idroelettrico della Società Elettrica Sarda – situato nel Capo di Sopra, a una ventina di chilometri da Oschiri, ma un po’ a caval­lo fra Logudoro e Gallura. Luogo di molte provenienze etno-linguistiche, il Coghinas era un microcosmo babelico che aveva accumulato maestranze specializzate in gran parte cagliaritane e “continentali” (perlopiù vene­te e liguri), rigorosamente estranee alla cultura e alla lingua del territorio circostante. Prima che una koinè imposta come medium comune dal forte divario delle diverse provenienze linguistiche, l’italiano era un segno di separazione - distinzione dalle genti del luogo. Tra l’altro, in bocca ai cagliaritani, che sapevano usare il sardo solo per raccontare le barzellette su Peppinedda (un famoso omosessuale di queste parti), l’italiano diven­tava il vessillo della sicumera etno-sociocentrica ostentata da questa ari­stocrazia operaia nei confronti del contesto agro-pastorale della Gallura del dintorni, o nei confronti degli oschiresi. Era la lingua della tecnologia più avanzata che si opponeva al “dialetto” dei saperi circolanti nella nostra tradizione. Il senso di tutto questo era molto esplicito e diventava addi­rittura corposo nel modo di fare degli idioti più ingenui. Come metafora estrema di quella sicumera ricordo il caso di un famoso coglione (un diri­gente della SES) che si faceva accompagnare a Chilivani per non prende­re il treno a Oschiri. Ma c’è pure il caso di un elettromeccanico assai abile nel suo mestiere che tenne a battesimo l’ultimo nato di una famiglia dei dintorni presentandosi alla cerimonia vestito con la sua tuta da lavoro. Insomma gli aspetti negativi del rapporto città-campagna si riproducevano qui nelle loro forme più esplicite, anche se a rappresentare il polo-città, in questo caso, era solo un frammento di quel capitale industriale che stava “elettrificando” il sottosviluppo e illuminando di sé le tenebre dialettali” dei ritardi storici.
Non occorre molta fantasia per capire come, in un orizzonte di questo tipo, la parte sardofona della mia famiglia dovesse cadere sotto il mirino della falsa coscienza italianofona e patire le sottili esclusioni ingenerate da quella fenomenologia. Tanto più che nostro padre, uomo orgogliosissimo e di rara intelligenza, riusciva a portare sempre all’incandescenza le con­traddizioni esistenti, rispondendo con disprezzo al disprezzo e sfottendo a morte le fisime di modernità di questa aristocrazia operaia. Laddove gli altri si guardavano bene dall’avere rapporti con la gente degli stazzi, la nostra casa era sempre aperta ai galluresi di passaggio e ricordo di aver condiviso tante volte il letto con ragazzi della mia età, sorpresi dalle tene­bre in qualche loro faccenda fra stazzo e stazzo o fra stazzo e paese. Benché il Coghinas fosse un santuario dell’elettricità e della sua produzione, e mio padre fosse addetto alla manutenzione delle linee dell’ alta tensione, gli elettrodomestici a casa mia erano rigorosamente banditi. Mamma conti­nuava a cucinare in sa tribide, a conservare le cose deperibili in s’aposentu friscu, a lavare in sa balza e a fare il pane in su fùrru a linna. E io dovevo giocarmi un bel po’ delle vacanze estive per aiutare mio padre a far la provvista di legna nelle boscaglie di chessas aliderros. Se so ancora maneggiare la roncola con la normale abilità di un boscaiolo, lo devo alle reiterate campagne tardo-estive vissute con babbo tra Corrapala e la punta di la Cisterra, a due passi dal crinale che apre il varco verso punta Lanzinosa. Cucina-economica, frigorifero e radio sarebbero entrati molto più tardi, quando io e mio fratello eravamo già al liceo e quando nelle altre famiglie televisore e microonde erano già cosa vecchia. Il riscaldamento elettrico non riuscì mai a sostituire sa ziminera, benché negli ultimi anni di Coghinas fosse diventato difficile trovare un carro a buoi che facesse il tra­sporto della legna dal punto di raccolta a casa. L’ostinazione passatista di mio padre si sarebbe piegata solo più in là, quando l’impossibilità di ricor­rere al carrulante di sempre avrebbe cominciato ad aprire il varco al trattorista. Solo a quel punto, i kilowatt della bassa tensione si riconciliarono con lo specialista del 70 mila che alimentava l’arsenale di La Maddalena, e anche a casa mia fu accettata qualche stufa a tre candele.
Di tutto questo, naturalmente, noi ragazzi ci vergognavamo, così come ci vergognavamo delle mutande che babbo ripiegava fuori dai calzoni, a formare una sorta di fascia in luogo della cintola. Invidiavamo molto i nostri compagnetti per la “signorilità” dei genitori e per l’ascolto che essi sapevano prestare ai desideri dei figli o per la prontezza con cui sapevano accogliere le esigenze della famiglia. Le mie otto biciclette di oggi, per esempio, la dicono lunga sulla frustrazione di allora a proposito di una richiesta rimasta allo stato di desiderio. In realtà non sapevamo ancora renderci conto che, a differenza di babbo, nessuno di questi genitori “signorili” si sarebbe fatto in quattro per far studiare fuori i propri figli. Né sapevamo ancora apprezzare le notevoli capacità narrative di cui babbo ci dava quotidianamente prova, intrattenendoci con racconti di cui nes­suno di noi ha perduto il ricordo. Se i genitori degli altri sapevano rac­contare solo qualche modesta barzelletta, babbo era in grado di incantare per ore con un modo di conversare educato sul respiro e sui ritmi della grande affabulazione nostrana. Inevitabilmente, quando parlava lui, tutt’attorno si veniva formando un orizzonte di attesa, con gente acco­vacciata sui tacchi o sdraiata sulle panche, perché si sapeva che la cosa non sarebbe stata fugace. Per molti anni i dopocena estivi del Coghinas hanno avuto come punto di convergenza la soglia di casa mia e i racconti di mio padre, malgrado le riserve che le mutande fuori dai calzoni e i molti pas­saggi in sardo suggerivano alla maggior parte degli ascoltatori.
Più che la gradevolezza dei racconti appena sentiti noi interiorizzava­mo, però, la percezione di quelle riserve e andavamo ingigantendo l'irri­tazione per la “diversità” a cui ci incollava l’anticonformismo del modo di essere di babbo. Era ovvio che ci vergognassimo anche del nostro sardo e che incoraggiassimo le piccole a sbrigarsela con l’italiano. Anzi, nell'ele­mentare dialettica operante a livello della nostra coscienza adolescente (ma operante di fatto anche nelle orribili semplificazioni che dominavano l’ideologia ufficiosa veicolata dalla gente del cantiere), il sardo passava per essere l’habitus più ovvio dell’arcaico, del sottosviluppo, della rozzezza, mentre l’italiano aveva in sé tutte le connotazioni dello sviluppo, dell'e­mancipazione, della modernità, ecc. Insomma, se il sardo ci pesava come un marchio, l’italiano ci sembrava addirittura un orizzonte del desiderio.
Quanto tempo è dovuto passare perché tutto questo cambiasse di segno e si trasformasse in un sentimento diverso? Non saprei dire con pre­cisione, ma ho la certezza che il passaggio abbia cominciato a verificarsi in coincidenza con il recupero di nostro padre e con il riconoscimento cre­scente della sua figura. C’è stata una fase (l’avvento dell’età della ragione) in cui, per esempio, le vecchie ulcerazioni provocate in noi dal suo divie­to di entrare nell'organizzazione locale dei boy-scout cominciarono a trasformarsi in fierezza. E cominciarono ad apparirci epiche le sue battaglie per resistere (unico al Coghinas) alla corale pressione di capi e capetti a favore del nostro mascheramento. Cominciammo a essergli molto grati per non aver acconsentito a darci in pasto a quella patetica coglionata arri­vata da lontano. La metanoia genealogica, insomma, è stata pure una metanoia sul piano della nostra autocoscienza culturale.
Senza dubbio, a valle di quel crinale ha incominciato a svilupparsi una lenta riflessione di messe a punto sul problema del perché la nostra iden­tità di sardi abbia depressivamente interiorizzato l’egemonia del quadro assiologico simboleggiato dall’italiano. E mi sono a poco a poco reso conto che una vicenda come la nostra era un riverbero della più generale vicenda che coinvolge la sardità dei sardi, imponendo loro un atteggia­mento di autosvalutazione rispetto all’acritica stima che si è sempre dispo­sti ad avere degli altri. Mi sono reso conto, cioè, che la nostra identità è fondamentalmente debole e che basta un nulla per indurci a preferire il mondo del nostro interlocutore di turno, piuttosto che quello che abbia­mo alle spalle. Ma il problema dell’identità debole faceva corpo unico col problema della “vergogna di sé”, su cui con crescente insistenza andava a convergere il giro delle mie riflessioni. Proprio per questo, nella conversa­zione di stasera, vorrei fermare l’attenzione su tale nesso, assumendolo come punto di partenza e come pretesto per altre considerazioni.
Intanto una domanda. Perché i modelli che ci seducono sono quasi sempre eurocentrico-occidentali e quasi mai mediterranei o orientali? Perché mai l’italiano che ci sembra bello è sempre caratterizzato dalle par­late settentrionali e mai da quelle che si incontrano nel Mezzogiorno? La risposta è ovvia e rimanda in modo necessario alla geografia storica e alle dislocazioni che hanno caratterizzato le forme di potere con cui abbiamo avuto a che fare in tempi recenti. Ma dovrebbe rimandare – a maggior
ragione – a quell’ altra forma di potere che continua a essere operante anche quando l’egemonia politico-statuale del dominatore di turno è venuta meno. Mi riferisco evidentemente al potere del capitale e alla sua capacità di modellare le coscienze e la vita, lavorandoci ai fianchi attra­verso la sfera dei bisogni. Di quelli che abbiamo realmente e di quelli che, per “svilupparci”, dovremmo avere. Ora, da quando ha cominciato a dare nuova articolazione al vecchio rapporto città-campagna, il capitale è stato tendenzialmente settentrionale ed eurocentrico, e parlare della contrap­posizione fra nord e sud, tra capitale e lavoro, tra modernità e persisten­za, significa in fin dei conti parlare sempre della stessa cosa. Di fatto, il nord che ci seduce ha un piglio capitalistico e parla il linguaggio del valo­re-in-processo, il linguaggio della merce e del consumo, con tutti i signi­ficati deculturanti che devono poter appartenere alle dinamiche dell'ob­solescenza, dello sviluppo delle forze produttive e dei molti mutamenti che ne costituiscono il corollario. E se è vero che il capitale ha sempre avuto antipatia per le persistenze e per gli specifici che vi si arroccano, è facile capire le ragioni per le quali, tra una cultura periferica e una cultu­ra di portata nazionale, esso si faccia sostenitore di quest’ultima e metta alla berlina la maggior parte delle cose che appartengono alla prima. La dimensione linguistica, evidentemente, non può restare estranea a queste dialettiche e anzi si presenta come la dimensione che conferisce una forma immediatamente sensibile alle frizioni implicite in tali fronteggiamenti. Che le lingue minoritarie siano viste come una condizione che inceppa lo sviluppo dello “sviluppo” abbiamo incominciato a capirlo con certo nito­re da quando il progetto di egemonia continentale della borghesia napo­leonica privilegiò al massimo il linguaggio internazionale del Neoclassicismo come strumento catalizzante del processo di circolazione della produzione francese. Se non si perde di vista il fatto che la Francia di quel momento era l’epicentro (o almeno uno dei due epicentri) dell’Europa capitalistica, diventa facile capire come, nel contesto di un continente molto ancorato alla persistenza, battersi per la circolazione delle merci francesi voleva dire battersi tout-court per l’affermazione del modello capitalistico dello sviluppo. Anzi, non è un caso che Napoleone, al fine di aggirare l’ostacolo del localismo ingenerato dalla geografia degli specifici nazionali, si sia spinto a progettare l’introduzione di una lingua superinternazionale equivalente all’esperanto. Non credo che sia necessa­rio spremere a fondo il senso di questo caso storico per convincersi che il capitale è sempre stato interessato a rovesciare la resistenza degli specifici
e a sbarazzarsi delle lingue poco aperte alla circolazione. E non occorre un particolare sforzo per accettare l’equivalenza con l’esperanto napoleonico che l’italiano verrebbe a giocare nel suo rapporto oppositivo col sardo. Tutte le dialettiche della deculturazione che il neo classicismo illuministi­co e l’egemonia internazionale del francese pretesero di esercitare allora sulle varie lingue nazionali si ritrovano senza differenze di grado nel rap­porto di egemonia che le lingue nazionali cercano di esercitare sulle lin­gue minoritarie di volta in volta comprese nello spazio culturale della pro­pria geografia.
Ma torniamo sui nostri passi. Se il capitale sembra poter appagare meglio de su connotu gli orizzonti del desiderio, e se è vero che si presen­ta sempre molto carico di promesse, non c’è difficoltà a capire le ragioni per le quali le sue capacità di seduzione riescono a sedurre la debole iden­tità dei sardi. I ponti d’oro che ogni cedimento della nostra espressività “dialettale” prepara all’avvento dell’italiano sono ponti d’oro che ciascuno di noi, vergognandosi della propria differenza, ha contribuito a preparare. Non mancano naturalmente i benemeriti dell’ agitprop a favore della modernità, gli “eroi culturali” della dilagante avanzata dell’italiano libera­tore. Tornando al mio paese e al Coghinas, ho sempre sognato di infilza­re alla propria infamia la memoria dei personaggi che si caricarono di glo­ria introducendo nella Oschiri degli anni trenta il genere della canzonet­ta italiana e la moda del liscio.
Ho sempre sentito raccontare da mia madre di quando, al Coghinas, la gestora oschirese di una foresteria aperta ai foranei, ma particolarmen­te riservata agli ingegneri e ai tecnici che venivano da Cagliari, si rifiutò di accogliere una comitiva di avventori locali che volevano bere un bic­chiere in compagnia e ascoltare Maria Rosa Punzirudu, ospite in quel momento del fratello e disposta a cantare per gli amici. La notizia della presenza di Maria Rosa si era diffusa a Oschiri e una lunga fila di gente in bicicletta era approdata al cantiere per ascoltare la mitica voce della can­tadora ozierese. La spiegazione di quella gestora fu che non avrebbe mai declassato il suo albergo lasciando che vi si cantassero cose da zilleri. Io stesso, peraltro, sono stato testimone di altri eroismi culturali, come quan­do, sempre al Coghinas, in occasione di una festa di Santa Barbara, il comitato dei soliti ariste-operai respinse l’offerta di Luigino Cossu che, in omaggio della comare-ospite, aveva proposto di esibirsi nella sua esaltan­te disispirata.
La comare-ospite era poi mia madrina, e da lei venimmo a sapere dello sdegno omerico di Luigino nei confronti di quella ghenga di imbecilli, che giammai avrebbe interrotto la squallida band arruolata a Sassari per dare spazio a un astro del canto sardo. .
Ho sempre pensato a questi episodi ogni volta che mi è stato neces­sario trovare una metafora calzante della nozione di “vergogna di sé”, e davvero non mi riuscirebbe di inventare situazioni più convincenti per dire con altrettanta pienezza di quanta miseria sia impastata la presun­zione di modernità operante in questa inquietante sindrome. Per con­trasto – percorrendo al rovescio il filo di una matassa tematica come questa – mi viene da pensare alla finezza delle persone che, per voler fare a Salvatore Cubeddu un regalo di nozze indimenticabile, offrirono a lui e alla sposa un accompagnamento all’altare suonato dalle launeddas di Dionigi Burranca. Il maestro di Ortacesus era già avanti negli anni, ma ancora si la podiat.
Nella “vergogna di sé” patita da molti sardi, l’ago della bussola coscienziale fibrilla, come si diceva, verso il nord. Che cosa si potrebbe risponde­re a questa vocazione? Posto che si accetti di giocare sullo stesso piano ideologico (cosa che, a dire il vero, non è molto gradevole), c’è qualche argomento che potrebbe essere usato come orgogliosa affermazione di un’appartenenza in grado di far apparire piccola e modesta la mitologia di questo nord? Io credo che richiamarci ai due o tre nord che abbiamo alle spalle sia sufficiente, oltre che legittimo. In un passato di cui siamo a vario titolo eredi, il nord del mondo si chiamava Islam. E, poco più in là, si era chiamato Bisanzio. Retaggio bizantino e retaggio arabo sono entrati in modo profondo nelle pieghe coscienziali del nostro modo di essere inte­ragendo forse con i sostrati di altri nord del mondo mediterranei da cui eravamo stati in precedenza segnati. Non sto parlando di cose di poco conto, se è vero che è difficile pensare a forme di civiltà più raffinate di quella bizantina e di quella islamica. Per non parlare delle civiltà antico­orientali e mesopotamiche da cui cominciano a derivare le nostre origini. A confronto con questi nord del passato, il nord capitalistico-occidentale che polarizza le attenzioni di tutti i sardi che si vergognano di essere tali sfigura in maniera clamorosa. Est comente a ponnere su cuccu cun Deus.
Provate a pensare alla sbrigatività semplifìcatoria ed estremamente riduttiva che caratterizza l’ethos dei rapporti intersoggettivi nelle società occidentali e cercate di misurarla con l’ethos circolante nella raffinata ritualità che regola la vita delle società mediterranee di età bizantina e di età islamica. Il risultato è decisamente svantaggioso per il tipo umano che oggi ci viene propinato dagli strumenti della seduzione e dai fabbricatori di modelli. E si tratta di un risultato che non migliora le sue posizioni se, dal tessuto delle situazioni ritualizzate, passiamo al tessuto più specifico della cultura e a quello delle manifestazioni del pensiero. Non vi è mai capitato di provare imbarazzo di fronte alla disinvolta ricchezza di atten­zioni che qualsiasi senegalese è in grado di manifestare nei vostri confronti quando il discorso cade sulla famiglia o sulla salute o sugli amici? Non vi siete accorti che lui può attingere a un codice del saper-trattare-con-gli ­altri di gran lunga più elaborato del nostro? Bene: questo è l’Islam. Ma è importante sapere che noi non eravamo diversi e che forse, con le ulteriori complicazioni della cultura bizantina, avevamo molte probabilità di esse­re un concentrato anche più intenso di premurosa attenzione per le ragio­ni dell’altro. Perché mai ai costumi raffinati di una volta abbiamo accet­tato di sostituire i costumi dell’incredibile inciviltà che domina nel modo di essere delle civiltà plasmate dalle logiche del valore? Perché mai dovremmo preferire di modellarci secondo le forme che piacciono al ragioniere milanese piuttosto che continuare a essere come eravamo? Senza dubbio troppa acqua è passata sotto i ponti della storia per poter presumere di ritrovare nella nostra identità di oggi i tratti integrali di quel che siamo stati ieri e avantieri. Ma, come testimonia lo stile di vita dei nostri anziani, le tracce di quel passato sono tutt’altro che cancellate e pos­sono essere riconosciute qua e là, tra i sopravvissuti frammenti di una disgregazione che è cominciata da lontano. E che altro sarebbe la lunga sequela di saluti e di auguri con cui mia madre apre e chiude le sue con­versazioni al telefono, quando nella chiamata rituale del sabato sera si informa puntualmente della nostra salute, passando in rassegna anche le condizioni del gatto di casa? A dire il vero, quest’ultimo non c’è, ma sono certo che se ci fosse entrerebbe di diritto, anche lui, nello sviluppo di quel­la rassegna.
Tutto questo, però, non è che fenomenologia della superficie. Se scen­dessimo nei labirinti della coscienza e del pensiero, le tracce del passato diventerebbero più consistenti. A cominciare dal fatto che non è possibi­le stabilire sintonie reali tra l’analisi logica utilizzata dal pensiero binario e l’analisi metalogica utilizzata dalle forme di una razionalità che ama affer­mare negando, diventa evidente che le nostre rappresentazioni del mondo e il nostro modo di rapportarci al mondo gravitano ancora su un certo numero di centri focali provenienti dai labirinti della coscienzialità bizan­tina e islamica. Basta pensare al senso di doverosità problematica che è presente in maniera dilagante nelle strutture della nostra lingua, o fer­marsi a riflettere sulla metafisica del possibile che caratterizza il modo di definire l’azione da parte del congegno verbale di cui disponiamo. Ma riferiamoci anche alla nozione di tempo, o all’architettura formale del nar­rare che prevede sempre un far partire da lontano la ragion d’essere di qualsiasi dettaglio. A proposito di quest’ultima, anzi, occorre dire che il senso della necessità invade con una cogenza fatale tutti gli spazi dell’ ac­cadere, togliendo al fortuito ogni possibilità di ingerenza. Oserei dire che, nella visione del mondo dei sardi, il neoplatonismo plotiniano era cosa già iperdigerita quando Hegel vi ha costruito sopra le linee portanti del suo sistema. In realtà, quando si dice che il sardo è fungudu si allude soprat­tutto alla inestricabile commistione di questa serie di elementi.
Non so se ci si rende conto del fatto che stiamo parlando di un tipo di uomo che è tra i più complessi fra quelli che ancora si muovono nell’ecu­mene. Non so se si percepisce fino in fondo la portata del torto che il sardo fa a se stesso vergognandosi di essere sardo. Da quando le ragioni della “vergogna” si sono trasformate in ragioni di orgoglio, mi riesce insopportabile la sicumera di chi, dall’alto di chi sa che cosa, dice di non sapersi ritrovare nelle angustie di ciò che è sardo. Ma ancora più odioso è l’atteggiamento di coloro che escono dalla sindrome riaccettandosi attra­verso gli occhi degli altri. Questa forma di identità di accatto è la manife­stazione più squallida della mercificazione della propria differenza, come può facilmente dimostrare la propensione esibizionistica che caratterizza le modalità di riaccettazione folkloristica della propria immagine. Certo, in tutta la fenomenologia dell’ atteggiamento “vergognoso di sé”, non c’è nulla di più segnato dalla “vergogna’, perché ci si decide a riaccettare l’im­magine di se stessi solo per una graziosa concessione accordata dall’ester­no. [identità qui è in gran parte falsa, e bisognerebbe parlare di una iden­tità ottriata, poverissima di autonomia e di imperativi profondi. In sostan­za, rassomiglia troppo alla libertà condizionata del pregiudicato: basta un nulla e siamo alla sua revoca.
Eppure – per strano che possa apparire – anche la “vergogna di sé” è una conseguenza della nostra raffinatezza, e deriva in modo più o meno diret­to dallo stesso tipo di ragioni che mettiamo in campo quando si tratta di fronteggiare sulla base di ben altra nobiltà la banale mitologia che seduce la maggior parte dei sardi. Direi che è una forma implosa e autodepressiva della nostra civiltà, un epifenomeno indesiderato dell’accumulo di retaggi su cui si è venuta formando la nostra fisionomia. Proprio la capacità di comprendere l’altro e di saper accettare le sue ragioni è diventata una condizione che ha contribuito a indebolire la nostra identità, almeno perché ci ha lasciati abbastanza disarmati nelle situazioni nelle quali il confronto non è stato più paritario e dialogico, come poteva accadere nelle civiltà della tolleranza, allorché la mediazione riusciva a evitare le soluzioni di forza. Di fronte alle forme di potere incapaci di mediazione, noi siamo rimasti senza parola e senza passato, vittime di quella stessa “paralisi da inaccessibilità” che giocò le civiltà precolombiane, quando la rozzezza dei conquistadores le fece precipitare in un abisso di non-senso prima che in un lago di sangue. Annullati dallo sgomento, a poco a poco ci siamo spogliati delle nostre ricchezze, perché ritenute inutili, e abbia­mo incominciato a recitarci imitando le inflessioni delle truppe d’occupa­zione aqquartierate nei nostri paesi. A partire da questo punto, la disgre­gazione dell’identità non avrebbe potuto non essere fatale, come lascia capire la miscela esplosiva di mimetismo e dissimulazione di sé che la falsa coscienza è venuta innescando. La condizione primaria per una buona riuscita della mimesis diventava, naturalmente, il distacco dalle radici e l’insofferenza per tutto quello che rischiava di tradire le nostre origini. È triste che si sia potuto arrivare a queste forme di autonegazione partendo proprio dalle cose che ci fanno apparire alte le ragioni per le quali vale la pena di farci sostenitori della nostra differenza.

(Questo testo è la rielaborazione della conferenza svolta dall’Autore nel 1998)