Si è scritto molto sulla foto di Angelo Carconi che ritrae un
poliziotto che accarezza una ragazza eritrea durante lo sgombero con gli idranti di piazza Indipendenza,
a Roma. Lo sguardo tra i due ci parla di una relazione complicata (ambigua,
coloniale, violenta) cominciata verso la fine del diciannovesimo secolo e mai
terminata. Tracce di questa storia sono ancora presenti nel quartiere dove è
avvenuto lo sgombero, tra piazza Indipendenza e la stazione Termini. Qui si
sono intrecciate la storia delle prime migrazioni dal Corno d’Africa e la
storia del colonialismo italiano.
Negli anni settanta del secolo scorso il Corno d’Africa era in fiamme. Si
scappava dalle dittature. I somali scappavano da Siad Barre, gli etiopici-eritrei
dal sanguinario Menghistu Hailè Mariàm. Le terre del corno si tingevano di
sangue e l’Italia, di cui molti conoscevano già la cultura, fu considerata
naturale terra d’approdo. L’Italia infatti – anche dopo la fine del
colonialismo storico – ha avuto su quelle terre una forte influenza ideologica.
Basti pensare che fino al 1974 le scuole in Somalia erano italiane, perché dire
Italia era come dire Europa. E anche ad Asmara, in Eritrea, portare i figli
alla scuola italiana era non solo prestigioso per le famiglie, ma anche una
chiave d’ingresso (almeno molti lo speravano) assicurata per il futuro.
Italiani d’Africa
Quindi, nonostante le brutture del colonialismo, l’Italia e il Corno d’Africa rimasero in qualche modo in una relazione ambigua. Perché anche se il colonialismo era finito, non era terminato il modo coloniale di relazionarsi. Gli italiani in quei paesi (ci andavano per lavoro) facevano sempre i padroni, insidiavano sempre le donne – “le belle abbissine”, “le faccette nere” – e andavano a caccia, fingendosi un po’ dei vecchi coloni. Dall’altro lato somali ed eritrei (e in misura molto minore gli etiopici) sognavano quell’Italia di cui conoscevano a memoria tutte le canzoni.
Quindi, nonostante le brutture del colonialismo, l’Italia e il Corno d’Africa rimasero in qualche modo in una relazione ambigua. Perché anche se il colonialismo era finito, non era terminato il modo coloniale di relazionarsi. Gli italiani in quei paesi (ci andavano per lavoro) facevano sempre i padroni, insidiavano sempre le donne – “le belle abbissine”, “le faccette nere” – e andavano a caccia, fingendosi un po’ dei vecchi coloni. Dall’altro lato somali ed eritrei (e in misura molto minore gli etiopici) sognavano quell’Italia di cui conoscevano a memoria tutte le canzoni.
Gianni Morandi andava per la maggiore, ma anche Rita Pavone, Peppino di
Capri, Mina e successivamente (ma erano già gli anni ottanta) i Ricchi e Poveri
o Umberto Tozzi. Uno dei più famosi hotel di Mogadiscio, l’Uruba, per
concludere le sue serate danzanti metteva su una serie di lenti e tutti
sapevano che quando scattava Ciao di Pupo
era l’ora di ritirarsi, il momento di rubare un bacio alla propria bella.
Il Corno d’Africa sognava l’Italia, la considerava la quintessenza della
modernità, perché dopo la guerra molti (l’imperatore d’Etiopia per primo,
grazie alla realpolitik) preferirono non rivangare quei cattivi ricordi di
stragi, eccidi, uso di gas e andare avanti. Quindi basta con il generale
Rodolfo Graziani e la sua violenza, meglio ballare sulle note di Adriano
Celentano e dei suoi 24.000 mila baci.
Ma il passato se non lo rielabori ti arriva addosso come un boomerang. E se
ne accorsero i primi emigranti somali ed eritrei che si trovavano negli anni
settanta a passare proprio a piazza Indipendenza il tempo libero. Molte donne
lavoravano come colf, ma c’era chi studiava, chi sperava in un futuro migliore.
L’Italia non era quella terra del bello che avevano sognato. Niente Gianni
Morandi o Adriano Celentano. Era un paese polveroso pieno di problemi, denso di
pericoli (c’era il terrorismo) quasi quanto la terra d’origine. E non è un caso
che fu proprio in quel momento che il passato coloniale riemerse con tutta la
sua ferocia, con le sue idee di razza inferiore e razza superiore, con gli
stereotipi di questi neri pigri, di queste nere da mangiare in un sol boccone
(spopolavano allora i film sexy con l’eritrea Zeudy Araya). Fu in quel momento
che il razzismo colpì con ferocia quei primi
migranti.
Fu allora, esattamente nel 1979, che il somalo Ahmed Ali Giama fu bruciato
vivo per scherzo da quattro ragazzi italiani annoiati sotto il portico di via
della Pace. Il povero Ahmed era reo di essere povero ed essere nero. E lo
stesso succederà negli anni ottanta, nel 1985 ad Udine, a Giacomo Valent,
figlio di un italiano e di una somala, massacrato dai suoi compagni di scuola
con 63 coltellate perché nero, benestante e di una famiglia cosmopolita. Si
odiava il ricco come il povero se era nero.
Ed ecco che tutta la propaganda sul Corno d’Africa, sui perfidi abissini,
di mussoliniana memoria, fece di nuovo capolino sia nelle chiacchiere in
famiglia sia nei discorsi pubblici. C’era diffidenza verso questi migranti
dalla pelle scura, verso i loro primi figli. Sguardi cattivi, non solo curiosi.
E lì ci fu la delusione di molti somali e molti eritrei. Come racconta bene
Garane Garane in un libro ormai mitico per gli studiosi postcoloniali, Il
latte è buono, il protagonista del romanzo, Gashan, subisce
al controllo passaporti il primo colpo:
Il
passaporto per cortesia…
Passaporto? Perché?, chiese Gashan con l’aria incredula.
Perché? Ma siamo in un altro paese. Ci saranno passaporti da voi? O mi sbaglio, disse con stizza il poliziotto.
Sono somalo. Non mi ha riconosciuto?
Passaporto? Perché?, chiese Gashan con l’aria incredula.
Perché? Ma siamo in un altro paese. Ci saranno passaporti da voi? O mi sbaglio, disse con stizza il poliziotto.
Sono somalo. Non mi ha riconosciuto?
Ecco quel “non mi ha riconosciuto” è il segno di una fratellanza mancata.
Gashan sa tutto dell’Italia. Ha studiato l’italiano a scuola, ha mangiato i
dolci italiani al Hazan vicino alla casa d’Italia dove il pasticcere è
italiano, conosce la musica, conosce il cinema, sa cose dell’Italia che nemmeno
l’Italia sa di se stessa. Gashan si sente tradito dall’ignoranza dell’Italia su
di lui. E via via che il romanzo procede e capisce che nessuno lo conosce, né
tantomeno conosce la Somalia, la sua delusione diventa sconcerto. Gashan si
sente straniero proprio in quell’Italia che sentiva come casa. L’unico che lo
riconosce è la statua di Giulio Cesare ai Fori imperiali, e solo a lui Gashan
apre il cuore. Solo le tracce di marmo, solo le tracce nell’architettura
conoscono ancora il suo nome. La fredda statua gli dà quell’asilo che l’Italia
gli nega.
Lo stesso di fatto è successo con lo sgombero di via Curtatone. Lo sgombero
sarebbe stato grave anche se si fosse trattato di romeni, nigeriani, maliani,
bengalesi. Ma il fatto che si trattasse di eritrei lo ha reso più grave ai miei
occhi. Se gli eritrei, che sono stati i primi a venire in questo paese, ancora
si dibattono tra occupazioni e razzismo, come pensiamo di risolvere il problema
di tutti gli altri? Vuol dire che c’è una dissociazione con la propria storia.
Una volontà di vivere in perenne emergenza. E dire che basterebbe solo fare
pochi passi da piazza Indipendenza verso la stazione Termini per capire quanto
profonda sia questa relazione.
Piazza dei Cinquecento, la piazza della stazione, è dedicata ai caduti
italiani della battaglia di Dogali, una delle più grandi sconfitte militari che
l’Italia abbia subìto in Africa insieme alla battaglia di Adua. Una sconfitta
militare che costò caro all’Italia in termini di caduti e di consenso nel
paese. Su Dogali gli italiani si divisero e molti si chiesero come mai proprio
loro che si erano liberati da poco dal giogo coloniale austriaco ora volevano
far subire la stessa sorte a degli africani che nemmeno conoscevano e con cui
non c’era nessuna inimicizia.
Quei primi vagiti di colonialismo, voluto da politici e ufficiali (non dal
popolo), furono fallimentari e ce lo illustra molto bene lo storico Angelo del
Boca nel suo volume
dedicato agli italiani in Africa Orientale. Del Boca in particolare
spiega che a Dogali la battaglia fu una sconfitta perché gli ufficiali
sottovalutarono di fatto il nemico, in quanto africano. Un ammasso di errori di
strategia, di pressappochismo, di arroganza e di pensiero razzista portarono a
un eccidio. Uno dei fatti che mi ha sempre colpito della battaglia in questione
è che, all’interno di una cornice militare, tra eritrei-etiopici e italiani si
siano consumate vendette private.
Sempre Del Boca ci riferisce che mentre infuriava la battaglia alcuni
italiani si sentirono chiamare per nome da alcuni soldati nemici. Erano gli
eritrei che a Massaua lavoravano nei magazzini e negli opifici italiani. E che
nei loro luoghi di lavoro erano stati umiliati e picchiati. Ogni volta che
passo attraverso la stazione Termini penso che quella piazza è stata dedicata
non solo a una battaglia persa, ma a un modo di procedere (tutto made in Italy)
fallimentare nelle relazioni con l’altro.
Una storia mai finita
Certo potrei dirvi che la storia coloniale è stata rimossa e finirla qui. Ma il punto non è solo la rimozione (che c’è), ma anche la mancata rielaborazione di cosa stiamo stati insieme nel bene e nel male. Italia ed Eritrea, Italia e Somalia, Italia ed Etiopia, Italia e Libia non si sono mai guardati davvero in faccia e nelle relazioni (parlando dei potenti) c’è un ambiguo proseguimento di vecchi schemi. Una “fratellanza” sbandierata per poi poter fare affari con dittatori feroci (lo vediamo nella gestione della questione migranti con il generale libico Haftar) o per sversare rifiuti tossici in terre un tempo incontaminate. Elvira Frosini e Daniele Timpano nel loro spettacolo dedicato al colonialismo italiano Acqua di colonia dicono non a caso che “qualche affaruccio lo abbiamo combinato pure dopo”, cioè dopo il colonialismo, ed ecco elencati Enrico Mattei e Ilaria Alpi, gli affari sporchi che nel tempo hanno legato Italia e Africa. Come se questo maledetto colonialismo in verità non fosse mai finito.
Certo potrei dirvi che la storia coloniale è stata rimossa e finirla qui. Ma il punto non è solo la rimozione (che c’è), ma anche la mancata rielaborazione di cosa stiamo stati insieme nel bene e nel male. Italia ed Eritrea, Italia e Somalia, Italia ed Etiopia, Italia e Libia non si sono mai guardati davvero in faccia e nelle relazioni (parlando dei potenti) c’è un ambiguo proseguimento di vecchi schemi. Una “fratellanza” sbandierata per poi poter fare affari con dittatori feroci (lo vediamo nella gestione della questione migranti con il generale libico Haftar) o per sversare rifiuti tossici in terre un tempo incontaminate. Elvira Frosini e Daniele Timpano nel loro spettacolo dedicato al colonialismo italiano Acqua di colonia dicono non a caso che “qualche affaruccio lo abbiamo combinato pure dopo”, cioè dopo il colonialismo, ed ecco elencati Enrico Mattei e Ilaria Alpi, gli affari sporchi che nel tempo hanno legato Italia e Africa. Come se questo maledetto colonialismo in verità non fosse mai finito.
C’è una mancata rielaborazione. Una mancata decolonizzazione. Un mancato
guardarsi negli occhi e raccontarsi. Forse per questo quella foto mi ha colpito.
Mi sono astratta e ho cercato di capire se prima o poi nel futuro ci sarà un
vero riconoscimento reciproco. E guardando la donna, il suo pianto così
dignitoso, ho pensato a un altro eritreo, Zerai Deres. Di lui circola una foto
in rete: ha bei riccioli, baffetti ben curati. Una giacca elegante, uno sguardo
fiero. Durante il fascismo, almeno secondo le fonti eritree-etiopiche,
quest’uomo si rese protagonista di un atto d’insubordinazione contro il
fascismo in pieno centro di Roma, zona stazione Termini, presso la stele di Dogali. Zerai Deres
probabilmente era uno degli interpreti degli internati etiopici che per
rappresaglia furono incarcerati dopo l’attentato al generale Rodolfo Graziani
del 1937.
Il 13 giugno 1938 Zerai Deres si trovava nei pressi del monumento dei
caduti di Dogali e guardando negli occhi il leone di Giuda (simbolo
dell’Etiopia, trafugato dal fascismo e messo davanti alla stele, restituito
all’Etiopia nel 1970 grazie ad Aldo Moro) cominciò a sentire nel petto una
rabbia che lo portò prima a inneggiare all’imperatore Hailé Sellasié, poi a
inveire contro l’Italia e il fascismo, e infine a colpire con una sciabola
quanti più italiani possibile, ferendone alcuni. Qui la storia si fa nebulosa.
Zerai Deres era un patriota? O il suo gesto era dettato da questioni personali?
Davvero ci fu un atto d’insubordinazione al fascismo nella città di Roma e non
ci è stato tramandato nulla?
La donna con le sue lacrime così dignitose mi ha ricordato quel Zerai Deres
che si perde tra storia e leggenda. Anche la zona di Roma è più o meno la
stessa. Piazza Indipendenza non è tanto lontana da dove si trova la stele di
Dogali. Ed ecco che lo spazio tra il poliziotto e la ragazza diventa qualcosa
di veramente importante. Lì dentro c’è un vuoto di senso che dobbiamo colmare.
Ci si guarda negli occhi, certo, ma ci si riconosce? E questo forse quello che
dovremmo fare nel prossimo futuro: riconoscerci come parte di una stessa
storia.
(alla
fine dell’articolo, nel sito di Internazionale, c’è un video di Igiaba Scego
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