Nello
Yemen della guerra civile e dell’intervento militare dell’Arabia Saudita e di
altri Paesi sunniti, c’è un ruolo
anche per mille soldati del Sudan, che con le truppe saudite e
quelle degli Emirati Arabi Uniti sono protagonisti delle operazioni di terra.
Questi militari sudanesi potrebbero anche essere definiti «mercenari», visto
che l’Arabia Saudita ha scucito 2 miliardi di dollari per convincere il governo
di Khartoum a mandarli a combattere. Oppure «patrioti», perché alle loro azioni
belliche sono legati i destini dell’intero Paese.
Questo eventuale, secondo punto di vista è a sua volta legato all’evoluzione della situazione internazionale. Per lunghi anni il Sudan, dal 1989 dominato dall’ex colonnello golpista Omar al-Bashir, ha unito le proprie sorti all’Iran, protagonista di una cooperazione militare ed economica che contribuì, a suo tempo, ad attirare sul Sudan stesso le sanzioni economiche degli Usa e di altri Paesi occidentali. Per parte sua, l’Arabia Saudita aveva vietato il sorvolo del proprio territorio all’aereo del presidente sudanese quando questi, nel 2013, si recò alla cerimonia di insediamento del presidente iraniano Hassan Rouhani.
Nel gennaio dell’anno scorso, però, l’assalto all’ambasciata saudita a Teheran, provocato dall’esecuzione in Arabia Saudita del religioso sciita Nimr al-Nimri e di altre 46 persone, ha offerto ad Al-Bashir l’occasione perfetta per un voltafaccia in realtà covato da tempo (l’accordo «soldati da mandare in Yemen in cambio di miliardi» era stato appena siglato) e per saltare sul carro del fronte sunnita guidato dai sauditi.
Da allora le nuove relazioni sono diventate sempre più salde. Agli accordi militari (si è svolta poche settimane fa un’esercitazione congiunta delle aviazioni saudita e sudanese) si è rapidamente aggiunto l’invio di altri quattrini: i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo Persico hanno pianificato investimenti per 1,5 miliardi di dollari in Sudanentro la fine del 2017, un modo per alleggerire la situazione del Paese cui Al-Bashir non ha mai dato lo sviluppo promesso.
Dal punto di vista politico e diplomatico, il ripudio del rapporto strategico con l’Iran ha portato al Sudan altri vantaggi. Ancora nel 2016, registrata la rottura di Khartoum con Teheran, il presidente Barack Obama si affrettò a ridurre le sanzioni contro il Sudan. Il processo di distensione è andato avanti e si arricchito negli ultimi mesi.Mohammed Atta, capo dei servizi di sicurezza di Al-Bashir, nel marzo scorso è stato invitato a Washington dove ha incontrato Mike Pompeo (capo della Cia) e James Comey (all’epoca capo dell’Fbi), oltre a una folta delegazione di deputati e senatori. In aprile è toccato a Michael Aron, ambasciatore del Regno Unito in Sudan, segnalare la prossima fine delle sanzioni contro il regime di Al-Bashir, anche come conseguenza del percorso diplomatico avviato circa un anno prima e denominato “Dialogo strategico Regno Unito-Sudan”.
Tutti contro gli sciiti, insomma, e tutti felici e contenti. Compresi molti osservatori, giornalisti e operatori umanitari ai quali sfuggono alcune incongruenze. Intanto, che le truppe sudanesi partecipano, in Yemen, a un conflitto che la coalizione a guida saudita conduce, come ha più volte ripetuto l’Onu, all’insegna dei crimini di guerra. E poi che sulla testa di Omar al-Bashir, signore e padrone del Sudan, pende un mandato di cattura emesso già nel 2008 dalla Corte penale internazionale per «genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra» nel Darfur, dove si ebbero circa 400 mila morti e più di 2,5 milioni di profughi.
Nessuno sembra ricordarsene ma questo è l’uomo al quale ora Usa e Regno Unito, le potenze che vorrebbero impiccare Bashar al-Assad al pennone più alto dei valori morali, vogliono dare pacche sulle spalle. Si chiama politica. Anzi: politica internazionale.
Questo eventuale, secondo punto di vista è a sua volta legato all’evoluzione della situazione internazionale. Per lunghi anni il Sudan, dal 1989 dominato dall’ex colonnello golpista Omar al-Bashir, ha unito le proprie sorti all’Iran, protagonista di una cooperazione militare ed economica che contribuì, a suo tempo, ad attirare sul Sudan stesso le sanzioni economiche degli Usa e di altri Paesi occidentali. Per parte sua, l’Arabia Saudita aveva vietato il sorvolo del proprio territorio all’aereo del presidente sudanese quando questi, nel 2013, si recò alla cerimonia di insediamento del presidente iraniano Hassan Rouhani.
Nel gennaio dell’anno scorso, però, l’assalto all’ambasciata saudita a Teheran, provocato dall’esecuzione in Arabia Saudita del religioso sciita Nimr al-Nimri e di altre 46 persone, ha offerto ad Al-Bashir l’occasione perfetta per un voltafaccia in realtà covato da tempo (l’accordo «soldati da mandare in Yemen in cambio di miliardi» era stato appena siglato) e per saltare sul carro del fronte sunnita guidato dai sauditi.
Da allora le nuove relazioni sono diventate sempre più salde. Agli accordi militari (si è svolta poche settimane fa un’esercitazione congiunta delle aviazioni saudita e sudanese) si è rapidamente aggiunto l’invio di altri quattrini: i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo Persico hanno pianificato investimenti per 1,5 miliardi di dollari in Sudanentro la fine del 2017, un modo per alleggerire la situazione del Paese cui Al-Bashir non ha mai dato lo sviluppo promesso.
Dal punto di vista politico e diplomatico, il ripudio del rapporto strategico con l’Iran ha portato al Sudan altri vantaggi. Ancora nel 2016, registrata la rottura di Khartoum con Teheran, il presidente Barack Obama si affrettò a ridurre le sanzioni contro il Sudan. Il processo di distensione è andato avanti e si arricchito negli ultimi mesi.Mohammed Atta, capo dei servizi di sicurezza di Al-Bashir, nel marzo scorso è stato invitato a Washington dove ha incontrato Mike Pompeo (capo della Cia) e James Comey (all’epoca capo dell’Fbi), oltre a una folta delegazione di deputati e senatori. In aprile è toccato a Michael Aron, ambasciatore del Regno Unito in Sudan, segnalare la prossima fine delle sanzioni contro il regime di Al-Bashir, anche come conseguenza del percorso diplomatico avviato circa un anno prima e denominato “Dialogo strategico Regno Unito-Sudan”.
Tutti contro gli sciiti, insomma, e tutti felici e contenti. Compresi molti osservatori, giornalisti e operatori umanitari ai quali sfuggono alcune incongruenze. Intanto, che le truppe sudanesi partecipano, in Yemen, a un conflitto che la coalizione a guida saudita conduce, come ha più volte ripetuto l’Onu, all’insegna dei crimini di guerra. E poi che sulla testa di Omar al-Bashir, signore e padrone del Sudan, pende un mandato di cattura emesso già nel 2008 dalla Corte penale internazionale per «genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra» nel Darfur, dove si ebbero circa 400 mila morti e più di 2,5 milioni di profughi.
Nessuno sembra ricordarsene ma questo è l’uomo al quale ora Usa e Regno Unito, le potenze che vorrebbero impiccare Bashar al-Assad al pennone più alto dei valori morali, vogliono dare pacche sulle spalle. Si chiama politica. Anzi: politica internazionale.
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