domenica 24 settembre 2017

Due o tre cose, per decidere di essere sardi - Placido Cherchi


Parafrasando Adorno, (La musica non è ideologia, ma può esserne fatto un uso ideologico) direi che l’italiano e il sardo, come tutte le lin­gue, non sono ideologia, e che di essi però, come della musica, può esser fatto un uso ideologico. Per quanto mi riguarda,

Parafrasando Adorno, direi che l’italiano e il sardo, come tutte le lin­gue, non sono ideologia, e che di essi però, come della musica, può esser fatto un uso ideologico. Per quanto mi riguarda, non ho difficoltà ad ammettere che, nel corso di questa conversazione, cercherò di demistifi­care l’uso ideologico dell’italiano senza rinunciare all’uso ideologico del sardo. Ragioni di tipo piuttosto privato mi inducono a coltivare vecchie incazzature nei confronti di un modo di essere veicolato dall’italiano e a riproporre come ancora attuali le risposte emotive pensate allora. Proprio per questo il discorso che vorrei fare stasera non ha molte pretese. Poiché nasce da alcune riflessioni riguardanti un certo ventaglio di “vissuti” per­sonali, esso ha su di sé il peso di una pregiudiziale fortemente orientata in senso soggettivo, e può valere più come testimonianza che non come tesi depurata dalle particolarità della mia esperienza individuale.

Mi chiedo, però, fino a che punto la dimensione dell'esperienza perso­nale non sia presente nelle cose che passano per essere forma paradigma­tica dell’astrazione e oltrepassamento per eccellenza del privato. Mi chie­do, cioè, se davvero, nella genesi delle posizioni culturali meno compro­messe sul piano esistenziale, i vissuti personali non esercitino un peso rico­noscibile e un’incidenza oggettiva superiore al gioco degli occultamenti che gli attori di quelle posizioni cercano di farne. In realtà, non vedo per­ché dovrei deprimere come inezie le questioni che traboccano dallo zaino delle mie cose personali, o perché dovrei impedir loro di spremere dal pro­prio interno quel tanto di significato generale che le spiega come risulta­to di una storia e dunque come conseguenza di situazioni che vanno ben oltre la mia persona. Credo che ogni discorso a titolo personale sia sempre carico di ulteriorità collettiva e che ogni volta che ci si guarda allo specchio ci si trovi di fronte a un possibile altro che sente e pensa in modo non molto diverso dal nostro e a cui possiamo dare in prestito, senza molti scarti, le angustie e i compiacimenti presenti nelle pieghe di quell'immagine riflessa. Sul piano storico-culturale ciascuno di noi è sempre se stesso e tre centomila persone, così come, sul piano della propria differenza, ciascuno di noi è motivato da ragioni che rassomigliano da vicino alle ragioni per le quali tanti altri dissentono dall'omogeneità imperante di altre e in nome di qualcosa che si autoproclama “unico” e “inconfrontabile”.
Sono sicuro, appunto, che quello che posso raccontare di me stesso, rievocando le fasi personali che hanno trasformato nel suo contrario l’iniziale vergogna di essere sardo, possa essere raccontato di molti di voi e della maggior parte dei nostri conterranei che abbiano vissuto i laceranti passaggi della transizione.
Io provengo da una famiglia linguisticamente schizofrenica che al pari di tante altre famiglie sarde, ha interiorizzato lo spartiacque storico tracciato dall'ultima guerra, facendo parlare italiano – e solo italiano – ai figli nati dopo quella data. Per molto tempo, al suo interno, il paradosso è stato che i primi tre figli  parlassimo in sardo tra di noi e con i genitori e parlassimo invece italiano con le due ultime sorelle, che tra di loro e con i genitori, oltre che con noi, parlavano appunto la lingua imparata a scuo­la. Solo più tardi, da grandi, anche loro sarebbero diventate bilingui, con­servando, è vero, l’abitudine dell’italiano, ma preferendo il sardo nelle situazioni più delicate. Se cerco di spiegarmi questo fenomeno, so di poter trovare qualche risposta convincente nella fisionomia dell’ ambiente socio­culturale e socio-linguistico in cui vivevamo.

Il nostro mondo era un piccolo agglomerato industriale – per la preci­sione un cantiere idroelettrico della Società Elettrica Sarda – situato nel Capo di Sopra, a una ventina di chilometri da Oschiri, ma un po’ a caval­lo fra Logudoro e Gallura. Luogo di molte provenienze etno-linguistiche, il Coghinas era un microcosmo babelico che aveva accumulato maestranze specializzate in gran parte cagliaritane e “continentali” (perlopiù vene­te e liguri), rigorosamente estranee alla cultura e alla lingua del territorio circostante. Prima che una koinè imposta come medium comune dal forte divario delle diverse provenienze linguistiche, l’italiano era un segno di separazione - distinzione dalle genti del luogo. Tra l’altro, in bocca ai cagliaritani, che sapevano usare il sardo solo per raccontare le barzellette su Peppinedda (un famoso omosessuale di queste parti), l’italiano diven­tava il vessillo della sicumera etno-sociocentrica ostentata da questa ari­stocrazia operaia nei confronti del contesto agro-pastorale della Gallura del dintorni, o nei confronti degli oschiresi. Era la lingua della tecnologia più avanzata che si opponeva al “dialetto” dei saperi circolanti nella nostra tradizione. Il senso di tutto questo era molto esplicito e diventava addi­rittura corposo nel modo di fare degli idioti più ingenui. Come metafora estrema di quella sicumera ricordo il caso di un famoso coglione (un diri­gente della SES) che si faceva accompagnare a Chilivani per non prende­re il treno a Oschiri. Ma c’è pure il caso di un elettromeccanico assai abile nel suo mestiere che tenne a battesimo l’ultimo nato di una famiglia dei dintorni presentandosi alla cerimonia vestito con la sua tuta da lavoro. Insomma gli aspetti negativi del rapporto città-campagna si riproducevano qui nelle loro forme più esplicite, anche se a rappresentare il polo-città, in questo caso, era solo un frammento di quel capitale industriale che stava “elettrificando” il sottosviluppo e illuminando di sé le tenebre dialettali” dei ritardi storici.
Non occorre molta fantasia per capire come, in un orizzonte di questo tipo, la parte sardofona della mia famiglia dovesse cadere sotto il mirino della falsa coscienza italianofona e patire le sottili esclusioni ingenerate da quella fenomenologia. Tanto più che nostro padre, uomo orgogliosissimo e di rara intelligenza, riusciva a portare sempre all’incandescenza le con­traddizioni esistenti, rispondendo con disprezzo al disprezzo e sfottendo a morte le fisime di modernità di questa aristocrazia operaia. Laddove gli altri si guardavano bene dall’avere rapporti con la gente degli stazzi, la nostra casa era sempre aperta ai galluresi di passaggio e ricordo di aver condiviso tante volte il letto con ragazzi della mia età, sorpresi dalle tene­bre in qualche loro faccenda fra stazzo e stazzo o fra stazzo e paese. Benché il Coghinas fosse un santuario dell’elettricità e della sua produzione, e mio padre fosse addetto alla manutenzione delle linee dell’ alta tensione, gli elettrodomestici a casa mia erano rigorosamente banditi. Mamma conti­nuava a cucinare in sa tribide, a conservare le cose deperibili in s’aposentu friscu, a lavare in sa balza e a fare il pane in su fùrru a linna. E io dovevo giocarmi un bel po’ delle vacanze estive per aiutare mio padre a far la provvista di legna nelle boscaglie di chessas aliderros. Se so ancora maneggiare la roncola con la normale abilità di un boscaiolo, lo devo alle reiterate campagne tardo-estive vissute con babbo tra Corrapala e la punta di la Cisterra, a due passi dal crinale che apre il varco verso punta Lanzinosa. Cucina-economica, frigorifero e radio sarebbero entrati molto più tardi, quando io e mio fratello eravamo già al liceo e quando nelle altre famiglie televisore e microonde erano già cosa vecchia. Il riscaldamento elettrico non riuscì mai a sostituire sa ziminera, benché negli ultimi anni di Coghinas fosse diventato difficile trovare un carro a buoi che facesse il tra­sporto della legna dal punto di raccolta a casa. L’ostinazione passatista di mio padre si sarebbe piegata solo più in là, quando l’impossibilità di ricor­rere al carrulante di sempre avrebbe cominciato ad aprire il varco al trattorista. Solo a quel punto, i kilowatt della bassa tensione si riconciliarono con lo specialista del 70 mila che alimentava l’arsenale di La Maddalena, e anche a casa mia fu accettata qualche stufa a tre candele.
Di tutto questo, naturalmente, noi ragazzi ci vergognavamo, così come ci vergognavamo delle mutande che babbo ripiegava fuori dai calzoni, a formare una sorta di fascia in luogo della cintola. Invidiavamo molto i nostri compagnetti per la “signorilità” dei genitori e per l’ascolto che essi sapevano prestare ai desideri dei figli o per la prontezza con cui sapevano accogliere le esigenze della famiglia. Le mie otto biciclette di oggi, per esempio, la dicono lunga sulla frustrazione di allora a proposito di una richiesta rimasta allo stato di desiderio. In realtà non sapevamo ancora renderci conto che, a differenza di babbo, nessuno di questi genitori “signorili” si sarebbe fatto in quattro per far studiare fuori i propri figli. Né sapevamo ancora apprezzare le notevoli capacità narrative di cui babbo ci dava quotidianamente prova, intrattenendoci con racconti di cui nes­suno di noi ha perduto il ricordo. Se i genitori degli altri sapevano rac­contare solo qualche modesta barzelletta, babbo era in grado di incantare per ore con un modo di conversare educato sul respiro e sui ritmi della grande affabulazione nostrana. Inevitabilmente, quando parlava lui, tutt’attorno si veniva formando un orizzonte di attesa, con gente acco­vacciata sui tacchi o sdraiata sulle panche, perché si sapeva che la cosa non sarebbe stata fugace. Per molti anni i dopocena estivi del Coghinas hanno avuto come punto di convergenza la soglia di casa mia e i racconti di mio padre, malgrado le riserve che le mutande fuori dai calzoni e i molti pas­saggi in sardo suggerivano alla maggior parte degli ascoltatori.
Più che la gradevolezza dei racconti appena sentiti noi interiorizzava­mo, però, la percezione di quelle riserve e andavamo ingigantendo l'irri­tazione per la “diversità” a cui ci incollava l’anticonformismo del modo di essere di babbo. Era ovvio che ci vergognassimo anche del nostro sardo e che incoraggiassimo le piccole a sbrigarsela con l’italiano. Anzi, nell'ele­mentare dialettica operante a livello della nostra coscienza adolescente (ma operante di fatto anche nelle orribili semplificazioni che dominavano l’ideologia ufficiosa veicolata dalla gente del cantiere), il sardo passava per essere l’habitus più ovvio dell’arcaico, del sottosviluppo, della rozzezza, mentre l’italiano aveva in sé tutte le connotazioni dello sviluppo, dell'e­mancipazione, della modernità, ecc. Insomma, se il sardo ci pesava come un marchio, l’italiano ci sembrava addirittura un orizzonte del desiderio.
Quanto tempo è dovuto passare perché tutto questo cambiasse di segno e si trasformasse in un sentimento diverso? Non saprei dire con pre­cisione, ma ho la certezza che il passaggio abbia cominciato a verificarsi in coincidenza con il recupero di nostro padre e con il riconoscimento cre­scente della sua figura. C’è stata una fase (l’avvento dell’età della ragione) in cui, per esempio, le vecchie ulcerazioni provocate in noi dal suo divie­to di entrare nell'organizzazione locale dei boy-scout cominciarono a trasformarsi in fierezza. E cominciarono ad apparirci epiche le sue battaglie per resistere (unico al Coghinas) alla corale pressione di capi e capetti a favore del nostro mascheramento. Cominciammo a essergli molto grati per non aver acconsentito a darci in pasto a quella patetica coglionata arri­vata da lontano. La metanoia genealogica, insomma, è stata pure una metanoia sul piano della nostra autocoscienza culturale.
Senza dubbio, a valle di quel crinale ha incominciato a svilupparsi una lenta riflessione di messe a punto sul problema del perché la nostra iden­tità di sardi abbia depressivamente interiorizzato l’egemonia del quadro assiologico simboleggiato dall’italiano. E mi sono a poco a poco reso conto che una vicenda come la nostra era un riverbero della più generale vicenda che coinvolge la sardità dei sardi, imponendo loro un atteggia­mento di autosvalutazione rispetto all’acritica stima che si è sempre dispo­sti ad avere degli altri. Mi sono reso conto, cioè, che la nostra identità è fondamentalmente debole e che basta un nulla per indurci a preferire il mondo del nostro interlocutore di turno, piuttosto che quello che abbia­mo alle spalle. Ma il problema dell’identità debole faceva corpo unico col problema della “vergogna di sé”, su cui con crescente insistenza andava a convergere il giro delle mie riflessioni. Proprio per questo, nella conversa­zione di stasera, vorrei fermare l’attenzione su tale nesso, assumendolo come punto di partenza e come pretesto per altre considerazioni.
Intanto una domanda. Perché i modelli che ci seducono sono quasi sempre eurocentrico-occidentali e quasi mai mediterranei o orientali? Perché mai l’italiano che ci sembra bello è sempre caratterizzato dalle par­late settentrionali e mai da quelle che si incontrano nel Mezzogiorno? La risposta è ovvia e rimanda in modo necessario alla geografia storica e alle dislocazioni che hanno caratterizzato le forme di potere con cui abbiamo avuto a che fare in tempi recenti. Ma dovrebbe rimandare – a maggior
ragione – a quell’ altra forma di potere che continua a essere operante anche quando l’egemonia politico-statuale del dominatore di turno è venuta meno. Mi riferisco evidentemente al potere del capitale e alla sua capacità di modellare le coscienze e la vita, lavorandoci ai fianchi attra­verso la sfera dei bisogni. Di quelli che abbiamo realmente e di quelli che, per “svilupparci”, dovremmo avere. Ora, da quando ha cominciato a dare nuova articolazione al vecchio rapporto città-campagna, il capitale è stato tendenzialmente settentrionale ed eurocentrico, e parlare della contrap­posizione fra nord e sud, tra capitale e lavoro, tra modernità e persisten­za, significa in fin dei conti parlare sempre della stessa cosa. Di fatto, il nord che ci seduce ha un piglio capitalistico e parla il linguaggio del valo­re-in-processo, il linguaggio della merce e del consumo, con tutti i signi­ficati deculturanti che devono poter appartenere alle dinamiche dell'ob­solescenza, dello sviluppo delle forze produttive e dei molti mutamenti che ne costituiscono il corollario. E se è vero che il capitale ha sempre avuto antipatia per le persistenze e per gli specifici che vi si arroccano, è facile capire le ragioni per le quali, tra una cultura periferica e una cultu­ra di portata nazionale, esso si faccia sostenitore di quest’ultima e metta alla berlina la maggior parte delle cose che appartengono alla prima. La dimensione linguistica, evidentemente, non può restare estranea a queste dialettiche e anzi si presenta come la dimensione che conferisce una forma immediatamente sensibile alle frizioni implicite in tali fronteggiamenti. Che le lingue minoritarie siano viste come una condizione che inceppa lo sviluppo dello “sviluppo” abbiamo incominciato a capirlo con certo nito­re da quando il progetto di egemonia continentale della borghesia napo­leonica privilegiò al massimo il linguaggio internazionale del Neoclassicismo come strumento catalizzante del processo di circolazione della produzione francese. Se non si perde di vista il fatto che la Francia di quel momento era l’epicentro (o almeno uno dei due epicentri) dell’Europa capitalistica, diventa facile capire come, nel contesto di un continente molto ancorato alla persistenza, battersi per la circolazione delle merci francesi voleva dire battersi tout-court per l’affermazione del modello capitalistico dello sviluppo. Anzi, non è un caso che Napoleone, al fine di aggirare l’ostacolo del localismo ingenerato dalla geografia degli specifici nazionali, si sia spinto a progettare l’introduzione di una lingua superinternazionale equivalente all’esperanto. Non credo che sia necessa­rio spremere a fondo il senso di questo caso storico per convincersi che il capitale è sempre stato interessato a rovesciare la resistenza degli specifici
e a sbarazzarsi delle lingue poco aperte alla circolazione. E non occorre un particolare sforzo per accettare l’equivalenza con l’esperanto napoleonico che l’italiano verrebbe a giocare nel suo rapporto oppositivo col sardo. Tutte le dialettiche della deculturazione che il neo classicismo illuministi­co e l’egemonia internazionale del francese pretesero di esercitare allora sulle varie lingue nazionali si ritrovano senza differenze di grado nel rap­porto di egemonia che le lingue nazionali cercano di esercitare sulle lin­gue minoritarie di volta in volta comprese nello spazio culturale della pro­pria geografia.
Ma torniamo sui nostri passi. Se il capitale sembra poter appagare meglio de su connotu gli orizzonti del desiderio, e se è vero che si presen­ta sempre molto carico di promesse, non c’è difficoltà a capire le ragioni per le quali le sue capacità di seduzione riescono a sedurre la debole iden­tità dei sardi. I ponti d’oro che ogni cedimento della nostra espressività “dialettale” prepara all’avvento dell’italiano sono ponti d’oro che ciascuno di noi, vergognandosi della propria differenza, ha contribuito a preparare. Non mancano naturalmente i benemeriti dell’ agitprop a favore della modernità, gli “eroi culturali” della dilagante avanzata dell’italiano libera­tore. Tornando al mio paese e al Coghinas, ho sempre sognato di infilza­re alla propria infamia la memoria dei personaggi che si caricarono di glo­ria introducendo nella Oschiri degli anni trenta il genere della canzonet­ta italiana e la moda del liscio.
Ho sempre sentito raccontare da mia madre di quando, al Coghinas, la gestora oschirese di una foresteria aperta ai foranei, ma particolarmen­te riservata agli ingegneri e ai tecnici che venivano da Cagliari, si rifiutò di accogliere una comitiva di avventori locali che volevano bere un bic­chiere in compagnia e ascoltare Maria Rosa Punzirudu, ospite in quel momento del fratello e disposta a cantare per gli amici. La notizia della presenza di Maria Rosa si era diffusa a Oschiri e una lunga fila di gente in bicicletta era approdata al cantiere per ascoltare la mitica voce della can­tadora ozierese. La spiegazione di quella gestora fu che non avrebbe mai declassato il suo albergo lasciando che vi si cantassero cose da zilleri. Io stesso, peraltro, sono stato testimone di altri eroismi culturali, come quan­do, sempre al Coghinas, in occasione di una festa di Santa Barbara, il comitato dei soliti ariste-operai respinse l’offerta di Luigino Cossu che, in omaggio della comare-ospite, aveva proposto di esibirsi nella sua esaltan­te disispirata.
La comare-ospite era poi mia madrina, e da lei venimmo a sapere dello sdegno omerico di Luigino nei confronti di quella ghenga di imbecilli, che giammai avrebbe interrotto la squallida band arruolata a Sassari per dare spazio a un astro del canto sardo. .
Ho sempre pensato a questi episodi ogni volta che mi è stato neces­sario trovare una metafora calzante della nozione di “vergogna di sé”, e davvero non mi riuscirebbe di inventare situazioni più convincenti per dire con altrettanta pienezza di quanta miseria sia impastata la presun­zione di modernità operante in questa inquietante sindrome. Per con­trasto – percorrendo al rovescio il filo di una matassa tematica come questa – mi viene da pensare alla finezza delle persone che, per voler fare a Salvatore Cubeddu un regalo di nozze indimenticabile, offrirono a lui e alla sposa un accompagnamento all’altare suonato dalle launeddas di Dionigi Burranca. Il maestro di Ortacesus era già avanti negli anni, ma ancora si la podiat.
Nella “vergogna di sé” patita da molti sardi, l’ago della bussola coscienziale fibrilla, come si diceva, verso il nord. Che cosa si potrebbe risponde­re a questa vocazione? Posto che si accetti di giocare sullo stesso piano ideologico (cosa che, a dire il vero, non è molto gradevole), c’è qualche argomento che potrebbe essere usato come orgogliosa affermazione di un’appartenenza in grado di far apparire piccola e modesta la mitologia di questo nord? Io credo che richiamarci ai due o tre nord che abbiamo alle spalle sia sufficiente, oltre che legittimo. In un passato di cui siamo a vario titolo eredi, il nord del mondo si chiamava Islam. E, poco più in là, si era chiamato Bisanzio. Retaggio bizantino e retaggio arabo sono entrati in modo profondo nelle pieghe coscienziali del nostro modo di essere inte­ragendo forse con i sostrati di altri nord del mondo mediterranei da cui eravamo stati in precedenza segnati. Non sto parlando di cose di poco conto, se è vero che è difficile pensare a forme di civiltà più raffinate di quella bizantina e di quella islamica. Per non parlare delle civiltà antico­orientali e mesopotamiche da cui cominciano a derivare le nostre origini. A confronto con questi nord del passato, il nord capitalistico-occidentale che polarizza le attenzioni di tutti i sardi che si vergognano di essere tali sfigura in maniera clamorosa. Est comente a ponnere su cuccu cun Deus.
Provate a pensare alla sbrigatività semplifìcatoria ed estremamente riduttiva che caratterizza l’ethos dei rapporti intersoggettivi nelle società occidentali e cercate di misurarla con l’ethos circolante nella raffinata ritualità che regola la vita delle società mediterranee di età bizantina e di età islamica. Il risultato è decisamente svantaggioso per il tipo umano che oggi ci viene propinato dagli strumenti della seduzione e dai fabbricatori di modelli. E si tratta di un risultato che non migliora le sue posizioni se, dal tessuto delle situazioni ritualizzate, passiamo al tessuto più specifico della cultura e a quello delle manifestazioni del pensiero. Non vi è mai capitato di provare imbarazzo di fronte alla disinvolta ricchezza di atten­zioni che qualsiasi senegalese è in grado di manifestare nei vostri confronti quando il discorso cade sulla famiglia o sulla salute o sugli amici? Non vi siete accorti che lui può attingere a un codice del saper-trattare-con-gli ­altri di gran lunga più elaborato del nostro? Bene: questo è l’Islam. Ma è importante sapere che noi non eravamo diversi e che forse, con le ulteriori complicazioni della cultura bizantina, avevamo molte probabilità di esse­re un concentrato anche più intenso di premurosa attenzione per le ragio­ni dell’altro. Perché mai ai costumi raffinati di una volta abbiamo accet­tato di sostituire i costumi dell’incredibile inciviltà che domina nel modo di essere delle civiltà plasmate dalle logiche del valore? Perché mai dovremmo preferire di modellarci secondo le forme che piacciono al ragioniere milanese piuttosto che continuare a essere come eravamo? Senza dubbio troppa acqua è passata sotto i ponti della storia per poter presumere di ritrovare nella nostra identità di oggi i tratti integrali di quel che siamo stati ieri e avantieri. Ma, come testimonia lo stile di vita dei nostri anziani, le tracce di quel passato sono tutt’altro che cancellate e pos­sono essere riconosciute qua e là, tra i sopravvissuti frammenti di una disgregazione che è cominciata da lontano. E che altro sarebbe la lunga sequela di saluti e di auguri con cui mia madre apre e chiude le sue con­versazioni al telefono, quando nella chiamata rituale del sabato sera si informa puntualmente della nostra salute, passando in rassegna anche le condizioni del gatto di casa? A dire il vero, quest’ultimo non c’è, ma sono certo che se ci fosse entrerebbe di diritto, anche lui, nello sviluppo di quel­la rassegna.
Tutto questo, però, non è che fenomenologia della superficie. Se scen­dessimo nei labirinti della coscienza e del pensiero, le tracce del passato diventerebbero più consistenti. A cominciare dal fatto che non è possibi­le stabilire sintonie reali tra l’analisi logica utilizzata dal pensiero binario e l’analisi metalogica utilizzata dalle forme di una razionalità che ama affer­mare negando, diventa evidente che le nostre rappresentazioni del mondo e il nostro modo di rapportarci al mondo gravitano ancora su un certo numero di centri focali provenienti dai labirinti della coscienzialità bizan­tina e islamica. Basta pensare al senso di doverosità problematica che è presente in maniera dilagante nelle strutture della nostra lingua, o fer­marsi a riflettere sulla metafisica del possibile che caratterizza il modo di definire l’azione da parte del congegno verbale di cui disponiamo. Ma riferiamoci anche alla nozione di tempo, o all’architettura formale del nar­rare che prevede sempre un far partire da lontano la ragion d’essere di qualsiasi dettaglio. A proposito di quest’ultima, anzi, occorre dire che il senso della necessità invade con una cogenza fatale tutti gli spazi dell’ ac­cadere, togliendo al fortuito ogni possibilità di ingerenza. Oserei dire che, nella visione del mondo dei sardi, il neoplatonismo plotiniano era cosa già iperdigerita quando Hegel vi ha costruito sopra le linee portanti del suo sistema. In realtà, quando si dice che il sardo è fungudu si allude soprat­tutto alla inestricabile commistione di questa serie di elementi.
Non so se ci si rende conto del fatto che stiamo parlando di un tipo di uomo che è tra i più complessi fra quelli che ancora si muovono nell’ecu­mene. Non so se si percepisce fino in fondo la portata del torto che il sardo fa a se stesso vergognandosi di essere sardo. Da quando le ragioni della “vergogna” si sono trasformate in ragioni di orgoglio, mi riesce insopportabile la sicumera di chi, dall’alto di chi sa che cosa, dice di non sapersi ritrovare nelle angustie di ciò che è sardo. Ma ancora più odioso è l’atteggiamento di coloro che escono dalla sindrome riaccettandosi attra­verso gli occhi degli altri. Questa forma di identità di accatto è la manife­stazione più squallida della mercificazione della propria differenza, come può facilmente dimostrare la propensione esibizionistica che caratterizza le modalità di riaccettazione folkloristica della propria immagine. Certo, in tutta la fenomenologia dell’ atteggiamento “vergognoso di sé”, non c’è nulla di più segnato dalla “vergogna’, perché ci si decide a riaccettare l’im­magine di se stessi solo per una graziosa concessione accordata dall’ester­no. [identità qui è in gran parte falsa, e bisognerebbe parlare di una iden­tità ottriata, poverissima di autonomia e di imperativi profondi. In sostan­za, rassomiglia troppo alla libertà condizionata del pregiudicato: basta un nulla e siamo alla sua revoca.
Eppure – per strano che possa apparire – anche la “vergogna di sé” è una conseguenza della nostra raffinatezza, e deriva in modo più o meno diret­to dallo stesso tipo di ragioni che mettiamo in campo quando si tratta di fronteggiare sulla base di ben altra nobiltà la banale mitologia che seduce la maggior parte dei sardi. Direi che è una forma implosa e autodepressiva della nostra civiltà, un epifenomeno indesiderato dell’accumulo di retaggi su cui si è venuta formando la nostra fisionomia. Proprio la capacità di comprendere l’altro e di saper accettare le sue ragioni è diventata una condizione che ha contribuito a indebolire la nostra identità, almeno perché ci ha lasciati abbastanza disarmati nelle situazioni nelle quali il confronto non è stato più paritario e dialogico, come poteva accadere nelle civiltà della tolleranza, allorché la mediazione riusciva a evitare le soluzioni di forza. Di fronte alle forme di potere incapaci di mediazione, noi siamo rimasti senza parola e senza passato, vittime di quella stessa “paralisi da inaccessibilità” che giocò le civiltà precolombiane, quando la rozzezza dei conquistadores le fece precipitare in un abisso di non-senso prima che in un lago di sangue. Annullati dallo sgomento, a poco a poco ci siamo spogliati delle nostre ricchezze, perché ritenute inutili, e abbia­mo incominciato a recitarci imitando le inflessioni delle truppe d’occupa­zione aqquartierate nei nostri paesi. A partire da questo punto, la disgre­gazione dell’identità non avrebbe potuto non essere fatale, come lascia capire la miscela esplosiva di mimetismo e dissimulazione di sé che la falsa coscienza è venuta innescando. La condizione primaria per una buona riuscita della mimesis diventava, naturalmente, il distacco dalle radici e l’insofferenza per tutto quello che rischiava di tradire le nostre origini. È triste che si sia potuto arrivare a queste forme di autonegazione partendo proprio dalle cose che ci fanno apparire alte le ragioni per le quali vale la pena di farci sostenitori della nostra differenza.

(Questo testo è la rielaborazione della conferenza svolta dall’Autore nel 1998)

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