“Ogni generazione
crede di essere la prima a ribellarsi a una realtà ingiusta, ma il potere
ricorda chi si ribellò in passato e sa quindi prevedere chi lo farà in futuro;
per questo colpisce con precisione”
(G. Laurenti – “La madre
dell’Uovo”)
Un groviglio, un ginepraio… o
forse un verminaio. Così mi era apparsa la vicenda della morte di Ilaria Alpi e
Miran Hrovatin (*) mentre tentavo di assemblare gli innumerevoli frammenti –
intrecciati, confusi, contaminati – da cui emanava l’eco, talvolta il tanfo, di
fatti e nomi spesso già noti. Per lo meno a chi, in questo Paese di assopiti,
ha saputo conservare qualche brandello di memoria.
Una storia irrisolta. Una scia
di sangue con tanti morti ammazzati o deceduti in maniera sospetta. Qualcuno
prima di Ilaria e Miran, qualcuno dopo. Non tutti e non necessariamente
coinvolti nell’evento di cui qui si parla (il duplice omicidio del 20 marzo
1994) ma piuttosto vittime delle stesse trame su cui Ilaria stava indagando.
Un passo indietro. Quando mi
venne proposto di scrivere l’articolo sulla morte di Ilaria Alpi, la mia prima
perplessità fu di “non poter scrivere nulla che non fosse già stato detto”.
Poi, mentre appuravo che alcuni
eventi li avevo già dimenticati o rimossi (mentre altri mi erano semplicemente sfuggiti)
cominciò a delinearsi uno scenario più inquietante del previsto. Tanto da aver
anche pensato: non è che stiamo andando in cerca di rogne?
Alla fine, vuoi per senso del
dovere, vuoi per “fame e sete di giustizia”, ho cominciato a mettere in ordine
i dati (e le date) in cerca di quelle coincidenze che, come ho imparato,
raramente sono solamente coincidenze. Questo è il risultato.
Partiamo
dall’ultima novità. Quest’anno, in luglio, la Procura di Roma ha presentato una
richiesta di archiviazione, firmata dal pm Elisabetta Ceniccola, per l’indagine
su quel tragico 20 marzo 1994. Quando a Mogadiscio, a pochi metri
dall’ambasciata italiana, un commando di sette uomini uccise i due inviati del
TG3.
Nelle conclusioni delle 80
cartelle di archiviazione si afferma: “La Procura di
Roma è assolutamente consapevole di quanto sia deludente il fatto che oltre 20
anni di indagini, processi e accertamenti della Commissione parlamentare di
inchiesta non abbiano consentito di fare in alcun modo luce sui responsabili
della morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. E tuttavia ritiene che debba
essere richiesta l’archiviazione del procedimento sia perché da un punto di
vista formale, sono già scaduti i termini delle indagini per il reato di
omicidio sia – e soprattutto – perché non vi è stato alcuna nuova ed ulteriore
indagine che appaia idonea a conseguire risultati positivi né in relazione al
delitto più grave né in ordine agli altri ipotizzati”.
In attesa che in merito si
pronunci anche il giudice per le indagini preliminari, ricordiamo che nel 2007
il gip Emanuele Cersosimo aveva già respinto una richiesta analoga.
Infatti non mancano gli
elementi per una lettura diversa della vicenda.
UNA FLOTTA FANTASMA
Già qualche anno fa, con la trasmissione su Rai Tre di “ILARIA
ALPI – L’ULTIMO VIAGGIO”, erano emerse conferme ulteriori su quanto si
sospettava da tempo: l’assassinio della giornalista e del collega Miran
Hrovatin non era dovuto a un improvvisato tentativo di rapina o di rapimento ma
sarebbe stato deciso e pianificato da giorni. Presumibilmente da personaggi
legati alla Cia e alla rete Gladio, in combutta con i servizi segreti italiani.
I medesimi soggetti avrebbero provveduto a far sparire la documentazione
e gli appunti di Ilaria che stava indagando su un caso scottante: un traffico
di armi e di rifiuti tossici gestito appunto, oltre che da qualche faccendiere,
anche da elementi dei Servizi. Come aveva denunciato in tempi non sospetti
Manlio Dinucci. Per trasportare rifiuti e armi veniva utilizzata la flotta
della societàSchifco. Sei battelli (in qualche documento
si parlava di sette) donati alla Somalia dalla Cooperazione internazionale.
Ufficialmente per la pesca; in realtà pare che il pesce venisse trasportato
solo all’andata. Al ritorno in Africa, sulle navi venivano caricate armi, in
parte di produzione statunitense e rifiuti tossici, anche radioattivi, da
scaricare sia lungo le coste che nell’interno della Somalia.(NOTA 1)
All’operazione avrebbero partecipato anche alcune navi della Lettonia.
Da tempo si parlava di una nave della Schifco denominata 21 Oktoobar II (poi Urgull sotto bandiera panamense) che il 21 aprile 1991 avrebbe
partecipato a una operazione segreta per trasportare armi statunitensi
provenienti dall’Iraq e temporaneamente depositate a Camp Derby. E’ accertato
che qualche giorno prima, in particolare la sera del tragico 10 aprile 1991,
nella rada di Livorno stazionavano varie navi militari USA. Godendo dello
status di segretezza militare non erano tenute a rispettare divieti e regole
del porto, tanto meno rivelare la loro identità e posizione (quindi sotto falso
nome o con nomi di copertura). Non si esclude che alcune viaggiassero a luci
spente. Forse a seguito di una manovra avventata una di queste navi avrebbe
tagliato la strada al traghetto Moby Prince che si
vide costretto a virare bruscamente entrando in collisione con la petroliera
Agip Abruzzo. Manlio Dinucci segnalava una ulteriore incongruenza.
Ufficialmente la petroliera era appena arrivata dall’Egitto, ma con tempi
record: 4/5 giorni invece dei 14 canonici.
Quella sera anche la 21 Oktoobar II si trovava nel porto e non si può
escludere che l’intervento estremamente tardivo dei soccorsi fosse dovuto
all’interdizione di varcare le aree militari. Una “tragedia annunciata” in cui
persero la vita equipaggio e passeggeri:140 persone. Bruciate vive o soffocate
dalle esalazioni.
Torniamo al 1994. A pochi giorni dal
duplice omicidio su commissione in un’informativa riservata del Servizio segreto militare venivano
segnalati quattro nomi: il colonnello Mohamed Sheikh Osman (trafficante d’armi
del clan Murasade), Said Omar Mugne (amministratore della Somalfish), Mohamed
Ali Abukar e Mohmaed Samatar. Sempre nel 1994 un’altra nota del Sismi indicava
come possibili “mandanti o
mediatori” Ennio Sommavilla e Giancarlo Marocchino. I due
imprenditori, tra l’altro, furono fra i primi ad accorrere sul luogo del
delitto. In seguito, nel 1996, si sarebbe puntato il dito contro il generale
Aidid, signore della guerra somalo definito “l’utilizzatore finale del traffico
d’armi”. Ma questa, a mio avviso, aveva tutta l’aria di una falsa pista.
Anche dopo quasi una decina di processi, la condanna di un capro
espiatorio somalo – poi risultato completamente innocente, come sostenevano da
sempre gli stessi familiari di Ilaria (NOTA 2) – e almeno quattro commissioni
parlamentari, la verità stenta ancora nel venire a galla.
Quella dei rifiuti tossici (da quelli elettronici a quelli
radioattivi) dispersi in Somalia è già, con buone probabilità, una delle
maggiori emergenze sanitarie e ambientali del pianeta.
Non dimentichiamo che almeno l’80% dei rifiuti non è di origine
urbana, ma industriale. Paradossalmente, l’inasprimento della legislazione
ambientale nell’Unione europea aveva causato l’effetto perverso di incrementare
lo smaltimento tramite esportazione, sovente in maniera illegale, nei Paesi
eufemisticamente definiti “in via di sviluppo”. Al punto che già dalla fine
degli anni ottanta si parlava apertamente di “neo-colonialismo tossico”.
In cima alla lista (almeno fra i casi conosciuti) appunto la
Somalia. Approfittando della situazione di ingovernabilità in cui versava il
Paese dopo la caduta di Siad Barre (e in barba alla legislazione stabilita
ancora dalla Convenzione di Bale del 1989) migliaia di tonnellate di rifiuti
tossici sono stati spudoratamente versati al largo delle coste somale,
direttamente dalle navi o dagli aerei. Avvelenando le acque in precedenza
pescose (si sono registrate periodiche, massicce morie di pesci e cetacei) e
alimentando la cosiddetta pirateria , in realtà una forma di autodifesa
popolare (almeno inizialmente i “pirati” si definivano National Volunteer Coast Guard) e unica risorsa per le popolazioni costiere ormai
nella impossibilità di procurarsi da vivere. Molti abitanti delle zone
interessate, pescatori in maggioranza, erano deceduti o si erano ammalati
gravemente, con vistose eruzioni cutanee apparse dopo che erano entrati in
contatto con le acque contaminate.
Le reali dimensioni della criminale operazione di smaltimento
emersero (è il caso di dirlo) brutalmente nel 2004, grazie a un
“provvidenziale” tsunami che riportò sulle spiagge
somale centinaia di contenitori, sia di rifiuti genericamente tossici che di
scorie nucleari.
Inoltre, stando ai dati forniti nel 2006 da Common Community
Care, notevoli quantitativi di materiale radioattivo e di
residui di perossido d’idrogeno erano stati interrati nelle aree interne della
Somalia. Per esempio lungo la strada Garoe-Bosaso su cui indagava Ilaria Alpi.
Ancora negli anni novanta era stato accertata la responsabilità di
aziende europee in rapporti con le alcune organizzazioni criminali (le solite eco-mafie) già operanti sul territorio italiano.
In questo contesto andrebbe collocata l’uccisione di Ilaria Alpi e
di Miran Hrovatin che avevano appunto individuato la relazione tra il traffico
illegale di armi e lo smaltimento, altrettanto illegale e criminale, dei
rifiuti tossici in Somalia.
Poco tempo prima, anche la probabile “fonte” delle informazioni
raccolte da Ilaria (Vincenzo Li Causi, agente del Sismi a capo della Gladio di
Trapani) era stato assassinato a Mogadiscio in circostanze non chiare (si parlò
di “fuoco amico”).
VI RICORDATE DI MAURO ROSTAGNO?
Fra coloro che avevano incrociato Ilaria nei suoi ultimi giorni in
Somalia, c’ è stato il relativamente famoso Jupiter (al secolo Giuseppe Cammisa). Qualcuno forse lo ricorda come uomo di fiducia di Francesco
Cardella (referente di Bettino Craxi e del
PSI a Trapani): un carismatico leader della comunità Saman e responsabile
dell’emarginazione subita da Mauro Rostagno all’interno
della stessa comunità.
Rostagno venne assassinato il 26 settembre 1988 mentre indagava
sulle connessioni tra mafia trapanese, massoneria e servizi segreti. Aveva
probabilmente scoperto un traffico di armi con la Somalia che si serviva della
base militare in disuso di Kinisia sulla cui pista di atterraggio si era svolta
l’operazione Firex88 (una
simulazione? O altro?). Operazione da lui documentata con
una videocamera. O almeno questo è quanto aveva confidato poco prima di venir
ammazzato a un amico giornalista, Sergio di Cori. Quanto alla videocassetta,
ovviamente, era scomparsa.
Sospetti erano emersi anche nei confronti di Cardella che potrebbe
aver utilizzato i locali della comunità come deposito transitorio per le armi.
Fra l’altro era stato Cardella a inviare Jupiter in Somalia,
ufficialmente per realizzare un fantomatico ospedale mai costruito.
Dal 1993 Ilaria Alpi stava indagando anche sui successivi sviluppi di questo malaffare basato
fondamentalmente sul traffico di armi. Armi pagate dai Signori della Guerra
somali con il permesso di gettare in mare o seppellire (magari sotto un’inutile
autostrada) rifiuti pericolosi e scorie radioattive.
I cospicui proventi sarebbero finiti in fondi neri o utilizzati
come tangenti da vari faccendieri, sia italiani che stranieri, con complicità
politiche negli ambienti del partito socialista.
Vari testimoni hanno fatto il nome di Paolo Pillitteri e quello di
Pietro Bearzi, rispettivamente presidente e segretario della Camera di
commercio italo-somala (all’epoca, beninteso). Per alcuni investigatori era
anche possibile che Ilaria Alpi non fosse stata eliminata per aver indagato sul
traffico di armi che utilizzava i pescherecci della società italo-somala Shifco
ma piuttosto per aver scoperto a Bosaso un deposito di armi provenienti
dall’Europa orientale e qui trasportate da Hercules C-130 italiani. Questa
l’ipotesi formulata ancora nel 1997 da Francesco Corneli, un imprenditore che
era stato collaboratore esterno del Sisde e considerato in buoni rapporti con i
servizi segreti siriani. Stando a quanto sosteneva Corneli, fra il 1990 e il
1991 Siad Barre, temendo di uscire sconfitto dalla guerra civile che
imperversava in Somalia, avrebbe chiesto ai suoi referenti in Italia
(socialisti) armamenti ad alta tecnologia. La sua richiesta venne sostanzialmente
accolta e il PSI (secondo Corneli in accordo con il PCI) avrebbe favorito
l’apertura di una linea di rifornimento con i Paesi dell’allora Patto di
Varsavia. Le armi, una volta giunte in Italia, venivano trasferite in Somalia
via mare o con voli militari. Un’ipotesi plausibile, in grado di spiegare sia
l’uccisione di Mauro Rostagno nel 1988 che il duplice assassinio di Ilaria e
Miran nel 1994.
Senza escludere un’altra possibilità: forse anche Peppino
Impastato stava indagando su tali traffici quando venne assassinato nel 1978.
Un altro testimone, Marco Zaganelli, nell’udienza del 7 agosto
1997 parlando di quanto aveva osservato a Bosaso (dove potevano atterrare anche
aerei militari da trasporto) dichiarava: “Nel periodo in cui sono stato in Somalia, io e tanti altri abbiamo
notato con cadenza settimanale la presenza di aerei militari non identificati
del tipo Hercules che scaricavano armi”.
Ben documentato poi l’invio di carri armati Leopard, di fabbricazione tedesca, dal porto di Livorno a quello di Mogadiscio,
anche se non si esclude che in questo frangente la destinazione ultima fosse
l’Iraq (e/o l’Iran).
In un interrogatorio del 3 dicembre 1997, il generale Carmine
Fiore, comandante del contingente italiano in Somalia fra il 1993 e il 1994,
ammetteva che “in quel periodo entravano senz’altro armi, specie dalla strada
costiera che dal porto di Obbia arriva a Mogadiscio. Il traffico avveniva con
mezzi navali e con piccoli aerei che atterravano su una striscia di terra
battuta ubicata a circa 40 chilometri a Nord-Est di Mogadiscio”.
E’ evidente che i “piccoli aerei” servivano per il trasporto
interno, mentre per il viaggio dall’Europa si utilizzavano sia gli Hercules che
la flotta di Schifco.
Per il collaboratore di giustizia Francesco Elmo “nel 1994 un gruppo
di personaggi di area socialista erano posti alla regia di una vendita di
armamenti «libici» alla Somalia”. Nel suo memoriale Elmo indicava con
precisione anche la rotta seguita per tale trasporto che comunque, sottolinea,
non riguardava solo le armi.
Nei giorni immediatamente precedenti alla sua partenza per Bosaso,
Ilaria Alpi incontrò la figlia dell’ex sindaco di Mogadiscio: Faduma Mohammed
Mamud. Definita dai giudici della seconda Corte d’assise di Roma “attendibile e
disinteressata” come teste, nell’aula-bunker
di Rebibbia, il 16 giugno 1999, Faduma aveva spiegato che “Ilaria mi aveva
detto che seguiva una certa pista, una pista abbastanza pericolosa… Era una
questione delicata, di cui non dovevo parlare con nessuno, salvo con qualche
persona che poteva aiutarci, di cui potevo fidarmi ciecamente… Lei si
interessava a certe cose orrende che venivano fatte sulle coste somale. Aveva
appreso che erano stati scaricati rifiuti tossici; cose che noi sapevamo già.
Ma eravamo impotenti, non potevamo farci niente. Io le avevo detto che dal 1988
le cose avevano cominciato ad andare alla deriva; non avevamo guardiacoste, non
avevamo niente. Avevo sentito che in quasi tutto il litorale somalo, a Merca, a
Mogadiscio, a Obbia, nel Moduk, in Migiurtinia nella zona di Bosaso, erano
sepolti dei fusti di cui non si conosceva il contenuto”. E proseguiva ricordando di aver fatto notare a Ilaria che in
Somalia “erano comparse
delle malattie nuove e che si erano registrate morie di pesci”.
Una deposizione che
sostanzialmente confermava quanto aveva già dichiarato agli investigatori Marco
Zaganelli il 7 agosto 1997: “Tra il 1987 e il 1989 mi chiamò una persona che conoscevo,
prospettandomi un grosso affare, perché era stato contattato da alcuni
italiani, i quali dovevano sbarazzarsi di un carico di container fermi al porto
di Castellamare di Stabia o a quello di Gioia Tauro, contenenti rifiuti tossici
o radioattivi, e volevano un referente capace di riceverli e sotterrarli in
un’area desertica della Somalia. Successivamente seppi che un carico di
materiale radioattivo era stato portato in Somalia e i contenitori sotterrati
in un’area desertica nel Nord del Paese”.
Con testimonianze di questa
portata rimane inspiegabile quanto ebbe a dichiarare il deputato di Forza
Italia Carlo Taormina, presidente della
Commissione di Inchiesta. Per Taormina i
due giornalisti “erano in vacanza in Somalia, non stavano conducendo
nessuna inchiesta: la Commissione lo ha accertato”.
TU CHIAMALE, SE VUOI, COINCIDENZE…
Evidentemente quella degli omicidi “su commissione” per coprire i
loschi traffici non era solo una congettura. Formulata in maniera piuttosto
chiara, una prima esplicita richiesta dei magistrati agli agenti dei servizi
segreti risale ormai a 25 anni fa: “Si chiede di acquisire informazioni dagli atti d’archivio che possano
confermare collegamenti tra la scomparsa di Rostagno e traffici internazionali
di armi, con particolare riferimento ai traffici tra Italia e Somalia”. E proseguiva sollecitando chiarimenti su “eventuali
collegamenti fra la scomparsa di Rostagno e l’omicidio in Somalia della
giornalista Ilaria Alpi” oltre che sul centro “Scorpione” di Trapani, fra il 1987 e il
1990 articolazione di Gladio in Sicilia.
Significativo – e inquietante – il fatto che i consulenti della
Procura di Palermo, nel 2002 indaganti sulla morte del sociologo piemontese,
non fossero riusciti a entrare nella sede del Sisde di Roma.
Eppure qualcosa gli uomini dei Servizi sapevano, sicuramente. Nel
maggio 1994, a soli due mesi dall’uccisione dei due giornalisti, il Sisde
(Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica, il servizio segreto
“interno”) in una informativa riservata indicava quattro nomi, tutti somali,
come probabili mandanti, E puntava il dito sulla cooperativa italo-somalaSOMALFISH i cui pescherecci avrebbero trasportato le armi. Fra i quattro,
oltre a un un colonnello, c’era l’amministratore della SOMALFISH.
Fatale per Ilaria e Miran sarebbe stata la visita a bordo della
“21 ottobre” dove avrebbero documentato casse di armi targate, forse, CCCP.
L’informativa venne girata al Sismi (Servizio per le Informazioni
e la Sicurezza Militare, il servizio segreto “esterno”) che avrebbe smentito la
versione dei colleghi del Sisde.
In una successiva nota del Sismi (ufficialmente in base a
informazioni fornite dall’OLP: un depistaggio?) si ipotizzava che il mandante
fosse un “signore della guerra” somalo, il solito, cattivissimo, generale
Aidid. Le armi in questione avrebbero poi preso la strada dello Yemen.
Va segnalato a questo punto quanto si può leggere da pagina 222 a
pag. 225 di “Esecuzione con
depistaggi di Stato”, il libro scritto dalla mamma di Ilaria Alpi.
Dalle telefonate intercettate dalla Procura della Repubblica di
Asti di Faduma Farah Aidid(inviato
speciale della Repubblica di Somalia in Italia e figlia del generale Aidid),
sia con familiari che con esponenti del Sismi (vedi l’agente Fortunato
Massitti) emergono i contorni del ruolo assunto dai Servizi segreti in tutta la
faccenda. Non solo nella morte di Ilaria e Miran. Anche in quella successiva di
Aidid, ugualmente avvenuta in circostanze mai chiarite.
Faduma, stando alle telefonate, sarebbe in possesso di
informazioni tali da consentirle di esercitare ricatto nei confronti di
esponenti del Sismi come il generale Luca Rajola Pescarini (oltre che
dell’ingegnere Omar Mugne). Fra l’altro in queste conversazioni ammette la
sostanziale veridicità delle dichiarazioni di Omar Hashi Dirà, un medico somalo
che aveva fornito indicazioni sulla matrice, sui mandanti (tra cui citava
appunto Omar Mugne) e sulla manovalanza del duplice assassinio del 20 marzo
1994. Dichiarazioni che in precedenza Faduma aveva violentemente smentito.
Dalle sue telefonate si può comprendere quale fosse la consistenza del comitato
di affari italo-somalo e dell’impunità di cui godeva grazie alle coperture
fornite dal Servizio segreto militare italiano.
Del resto l’ombra scura dei Servizi aleggiava anche sulla
Cooperazione con i Paesi in via di sviluppo. E anche su questa spinosa
questione Luciana Alpi fornisce un’ampia documentazione nel suo libro (vedi
pag. 101e successive) dopo aver denunciato i vari “progetti tanto costosi
quanto inutili, stanziamenti multimiliardari, ruberie e tangenti, con il
contesto di traffici di ogni genere, primo fra tutti il traffico di armi…”.
IL PARERE DI LUIGI GRIMALDI
Se la morte dei due giornalisti non è stata ancora definitivamente
derubricata come “rapina finita male” (o in alternativa: “vendetta somala per
le brutalità commesse dai soldati italiani”) lo dobbiamo anche al lavoro di
inchiesta svolto da giornalisti come Luigi Grimaldi.
Dalle testimonianze rese dall’autista Sid Ali Abdi e dalla guardia
del corpo Mahmud Nur Abdi, si comprenderebbe – secondo Grimaldi – che per avere
informazioni precise sugli spostamenti di Ilaria per il suo rientro da Bosaso,
bisognava chiedere al CISP, una ong operativa all’epoca in Somalia.
La sede del CISP si trovava a Mogadiscio Nord, in una zona
controllata da Alì Mahadi. Avuta l’informazione (o si trattava di un
depistaggio?) i due andarono ad aspettarla presso l’ambasciata statunitense,
come al solito.
Invece Ilaria e Miran arriveranno con quattro giorni di ritardo
sulla data prevista. “Qualcuno” mai identificato fece in modo che perdessero
l’aereo a Bosaso (dove avevano intervistato il “sultano” Abdullahi Moussa
Bogor) e presumibilmente trovarono un’altra scorta (anche questa mai
identificata) ad attenderli all’aeroporto per portarli all’hotel Shafi. Quasi
nello stesso momento del loro arrivo, il commando che li ucciderà prendeva
posizione davanti a un altro hotel (Hamana) dove Ilaria si fermerà per pochi
minuti in cerca di un collega.
Le domande che Grimaldi si pone sono:
“Per quale motivo
la sede CISP di Mogadiscio è a conoscenza degli spostamenti dei due giornalisti
Rai? E perché la scorta di Ilaria sa di doversi informare al CISP?”
A questo punto si “scopre” che la responsabile del CISP in Somalia
dal 1988 al 1998, la dottoressa Stefania Pace, era la
compagna del “top Asset somalo della Cia a Mogadiscio”, ossia del coordinatore della rete di informatori dell’agenzia
spionistica USA. L’uomo si
chiamavaIbrahim Hussein, detto Malil ed era
morto in maniera non chiara, presumibilmente assassinato, nell’agosto del 1993.
Malil si era occupato anche di logistica e assisteva sia il CISP che la
Cooperazione allo sviluppo italiana del ministero degli Esteri. Alla sua morte
questo ruolo verrà ricoperto da Giancarlo Marocchino.
Malil proveniva da una ricca
e potente famiglia, aveva studiato in una università statunitense ed era stato
arruolato dalla Cia per collaborare con Mike Shanklin (direttore
delle operazioni Cia a Mogadiscio), John Garret (capostazione Cia) e il suo
vice John Spinelli (agente di
collegamento con il Sismi). Tutti impegnati nella caccia al generale Aidid.
Grimaldi segnala che dopo la
morte di Malil, Mike Shanklin lo sostituì non solo come coordinatore della rete
di informatori, ma anche in quanto compagno, poi marito, di Stefania Pace. Dopo
i dieci anni con il CISP, la donna si dedicherà per almeno tre anni (dal 1998
al 2001) all’azienda di consulenza spionistica del marito Mike Shanklin che nel
frattempo era stato licenziato dalla Cia. In seguito, forte di tale esperienza
sul campo, Stefania Pace proseguirà la sua meritata carriera presso il
ministero degli esteri e in varie agenzie onusiane.
Grimaldi segnala anche che i
nomi dei coniugi Shanklin e di John Spinelli compaiono sia nelle inchieste sul
rapimento di Abu Omar che in quella sullo scandalo spionistico Telecom.
Nonostante Stefania Pace,
Mike Shanklin e John Spinelli risiedano in Italia, non sono mai stati sentiti
da nessuno in relazione al caso Alpi: almeno per curiosità, tanto per sentire
il loro parere di “gente informata” se non proprio dei fatti, almeno del
contesto. Si chiede troppo?
RESTORE HOPE? SPERANZA PER CHI?
Qualche breve considerazione su “Restore Hope”, l’operazione militare in Somalia voluta nel 1992 dalla Casa Bianca
(in perfetto accordo tra Bush padre e Clinton) e sostanzialmente fallita.
Un esempio da manuale della soidisant “ingerenza
umanitaria”, propedeutico ad altri analoghi interventi Usa-Nato di maggior
portata (Yugoslavia, Afghanistan, Irak, Libia, Siria, Ucraina, Yemen… in attesa
del Venezuela e forse dell’Iran) all’applicazione sistematica di quello che
Costanzo Preve definì efficacemente “bombardamento etico”.
Sbandierata come azione necessaria per garantire la sopravvivenza
del popolo somalo in un Paese lacerato dalla guerra civile, Restore Hope si tradusse immediatamente in un atto di puro e semplice imperialismo.
Da allora la guerra sporca” della Cia si è andata ulteriormente
perfezionando. Due anni fa il New York Times propose un
interessante servizio su “Team 6, una macchina globale di caccia all’uomo”. L’unità segreta sarebbe
specializzata nelle cosiddette “operazioni speciali” (ossia per omicidi mirati
e “silenziosi”) dalla Somalia all’Afghanistan. Talvolta camuffandosi da
“impiegati civili o funzionari di ambasciate” i suoi membri seguono
implacabilmente la pista di coloro che gli Stati Uniti giudicano meritevoli di
rapimento o, più spesso, di morte. (NOTA 3)
Per concludere, una considerazione di Hashi Omar Hassan. Con tutta
la saggezza che proveniva dai suoi quasi 20 anni di galera da innocente, appena
uscito dal carcere aveva detto: “ Dunque, italiani, se davvero volete scoprire gli assassini di Ilaria
Alpi, ora ci sono le condizioni. Dubito che succederà. Perché sarebbe una
verità scomoda che coinvolge molti di voi. Già una volta avete provato a
nasconderla. E avete perso”.
NOTA 1: Per Manlio Dinucci su tale flotta vennero imbarcate
anche armi destinate alla Croazia, (all’epoca, primi anni novanta, in guerra
con la Jugoslavia con la benedizione papale). Se così fosse, il favore potrebbe
essere stato restituito. Nel marzo 2013 il New York Times aveva fornito le prove dell’invio, organizzato dalla Cia
attraverso la Turchia con aerei forniti dal Qatar, dalla Giordania e
dall’Arabia Saudita, di armi provenienti dalla Croazia ai “ribelli” in Siria.
Sempre Dinucci ha ricostruito nei dettagli quanto avvenne nel porto di Livorno
il 10 aprile 1991 denunciando che la richiesta di aiuto (“Mayday Mayday”)
trasmessa alle ore 22 e 25 rimase sostanzialmente inascoltata. Forse – ipotizza
– a causa del traffico di navi statunitensi (“militari e militarizzate”)
presenti nella rada e intente a riportare nella base di Camp Derby parte delle
armi usate nella prima guerra del Golfo. Al momento della collisione il comando
Usa di Camp Derby avrebbe cercato di cancellare ogni prova. Su quanto è
avvenuto rimangono molti punti oscuri: il segnale della Moby fortemente
disturbato, il silenzio di Livorno radio; il comandante del porto, Sergio
Albanese “impegnato in altre comunicazioni” che non guidò i soccorsi, ma verrà
comunque promosso ammiraglio; la sparizione di tracciati radar e immagini
satellitari; inspiegabili manomissioni sul traghetto sotto sequestro con la
sparizione di strumenti e prove utili per le indagini. Insomma: si fece di
tutto per farlo passare per un “tragico, ma banale incidente”. Misteriosamente
poi una nave, la Gallant II (nome in codice Theresa) abbandonò precipitosamente
il luogo della tragedia dove, ricordo ancora, sarebbe stata ormeggiata anche la
onnipresente 21 Oktoobar II della società Shifco. La nave era
utilizzata (e non solamente per Manlio Dinucci) sia per il trasporto di rifiuti
tossici e armi in Somalia che per rifornire la Croazia in guerra con la
Yugoslavia. Rifornire di armi, beninteso, non di cioccolatini. Il trasbordo di
quella sera avrebbe riguardato quindi carichi di armamenti destinati al Corno
d’Africa, alla Croazia e secondo Luigi Grimaldi anche ai depositi segreti di
Gladio. E con questo il cerchio si chiude, impietosamente. In qualche modo la
sorte di Ilaria e Miran era già segnata.
NOTA 2: Il 19 ottobre 2016 la Corte di Appello di Perugia aveva assolto Hashi Omar Hassandopo che la
testimonianza di un altro somalo, Ahmed Ali Rage (detto Gelle) si era
rivelata completamente falsa. Veniva poi accertato che la ricostruzione degli
avvenimenti fornita da Gelle davanti alla Corte di Roma gli era stata suggerita
da italiani. Messi in evidenza anche i rapporti diGelle con l’ambasciatore italiano Cassini il cui ruolo “ambiguo era
stato quantomeno strumentalizzato da cittadini somali”. La Corte
definiva “ondivaghe” le
dichiarazioni di un altro testimone, l’autista Sid Abdi che in seguito sarebbe deceduto. Molto opportunamente, verrebbe
da dire, se anche questa morte venisse confermata (meglio mantenere sempre
aperta la porta per eventuali sorprese). Va anche detto che il ruolo di “capro
espiatorio” Hashi Omar Hassan un po’ se l’era venuto a cercare. Venne infatti
arrestato mentre era in Italia per testimoniare al processo sulle violenze
(torture, stupri…) di cui era accusato il contingente italiano, in particolare
la brigata paracadutisti “Folgore”. Questa
precisazione ne rende doverosa un’altra. Sempre in materia di torture inflitte
ai somali e soprattutto alle somale dal contingente tricolore. Ma è una
precisazione che ci porta lontano, nel tempo e nello spazio. Il maresciallo Francesco Aloi, agente in Somalia del
Sismi, aveva scritto un diario in cui denunciava alcuni colleghi come
corresponsabile della morte dei due inviati. Strana coincidenza. Ritroveremo i
loro nomi a Genova per il G8 del luglio 2001. Aloi si era rivolto al tribunale
militare di Roma denunciando il comportamento dell’esercito italiano in
Somalia. Senza eufemismi, aveva parlato degli stupri e delle torture a cui
venivano sottoposti le prigioniere e i prigionieri somali. In particolare, si
era scagliato contro Giovanni Truglio e Claudio Cappello, due carabinieri che
sette anni si trovavano in Piazza Alimonda quando venne ucciso Carlo Giuliani. Per saperne di
più suggerisco la lettura del libro di Giulio Laurenti “La madre
dell’Uovo”.
NOTA 3: Altre “coincidenze”.
Nel 1997 l’operatore della tv americana Abc che aveva girato le immagini della
morte di Ilaria e Miran, Carlo Mavroleon, è stato assassinato in una stanza
d’albergo, mentre si trovava in Afghanistan. Invece un altro operatore presente
sul luogo del delitto, Vittorio Lenzi della televisione svizzera, ha perso la
vita in un incidente stradale poco chiaro. Morto
prematuramente, ma senza che si abbiano notizie precise sul come e sul dove,
anche il colonello Ali Jirow Shermarke, capo della Divisione investigativa
criminale di Mogadiscio che indagò in loco sul duplice omicidio. Il rapporto
investigativo per le Nazioni Unite in cui si accusava Giancarlo Marocchino,
portava la sua firma. Stando a quanto scriveva, ancora nel 2010, Luigi
Grimaldi: “il suo rapporto (di Shermarke nda) pervenuto
nel dicembre 1994 al dottor De Gasperis della procura di Roma ipotizzava un
coinvolgimento di Giancarlo Marocchino (definito da Carlo Taormina ai tempi
della Commissione parlamentare di inchiesta come «il principale collaboratore
per la ricerca della verità») e sosteneva che Ilaria e Miran sarebbero stati
visti uscire, prima dell’agguato, da un garage dello stesso faccendiere italiano”. Shermarke,
continuava Grimaldi “era stato sentito a verbale dal giudice Pititto il 26 luglio 1996: in quell’occasione
ha confermato il rapporto e aggiunto che: «Appena Ilaria arrivò in albergo,
ancora prima che potesse lavarsi, ricevette una telefonata… una chiamata del
Marocchino, al che lei uscì fuori dall’albergo chiedendo chi ci fosse dei
guardiani perché doveva andare subito a casa del Marocchino… io credo che a
uccidere i due giornalisti sia stato il
Marocchino». Marocchino
non era uno sconosciuto per la Giustizia italiana. Era collegato sia con vari
personaggi oggetto dell’inchiesta Sistemi Criminali di Palermo (fra gli
indagati: la cupola dei mafiosi stragisti, Licio Gelli, Stefano Delle Chiaie…)
sia con i responsabili del cosiddetto progetto Urano (traffico e smaltimento di
scorie tossiche e radioattive in Somalia in cambio di armi).
Anche se non è mai stato iscritto
nel registro degli indagati della procura di Roma per il duplice delitto di
Mogadiscio, è lecito pensare che ne sapesse qualcosa di più di quanto
raccontato agli inquirenti?
LETTURA CONSIGLIATA:
“Esecuzione con
depistaggi di Stato” di Luciana Alpi – KAOS edizioni. 2017
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