Dopo l’attentato nazista che a
Charlotteville ha causato morti e feriti, sono stato inghiottito mio
malgrado dalle polemiche per una questione marginale se non irrilevante, ossia
l’oltraggio che ho espresso, in quanto storico, di fronte all’idea che sia
“progressista” o comunque scusabile vandalizzare
opere d’arte solo perché rappresentano personaggi “odiosi”, come un soldato
del Sud nella Guerra di Secessione americana.
In quanto storico io vado in panico
al solo sentire parlare di “distruggere” un documento, sia esso un testo o una
statua. Mi viene subito in mente che anche i cristiani provavano un giusto
oltraggio di fronte alle statue religiose dei pagani (che li avevano
perseguitati per secoli) scolpite da Prassitele o Fidia, e le sfasciavano. Come
questo volto di Afrodite, copia da Prassitele, sfigurato da un cristiano che
incise la croce sul volto e il naso per cancellare un passato “ignobile”, a
beneficio dei posteri.
Una premura per cui noi, i posteri,
gli siamo tutti grati… vero?
Riesco a capire che un popolo in
rivolta abbatta d’istinto, senza pensarci, le statue dei tiranni. Ma so già
cosa risponderebbero oggi i bolognesi alla domanda se sono fieri del fatto
che i loro avi
hanno fatto a pezzi la statua in bronzo di papa Giulio II, modellata da
Michelangelo. Se invece di farla a pezzi l’avessero spostata in un
sottoscala in cui non avrebbe dato fastidio a nessuno, non sarebbero tutti più
contenti, oggi? Giusto per dire, eh?
Del resto, l’arte è da sempre
schiava del potere e della ricchezza: l’arte “rivoluzionaria” è solo una
strategia di marketing per vendere ai potenti e ai ricchi “rivoluzionari”.
L’Isis e
i talebani lo
hanno compreso fin troppo bene. Tuttavia, non credo che metterci al loro
livello, agendo come loro, ci qualifichi molto.
Il problema che ho riscontato nei
miei oppositori (che me ne hanno dette di tutti i colori, da “ignorante” a
“amico di Trump” a “succube della propaganda neonazista”) è che a quanto pare a
sinistra ristagna una visione arcaica e “storicistica“, ossia
ottocentesca, della storia.
Nella visione dei “kompagni” che mi
contestano, infatti, la storia è un lento, costante progresso evolutivo dal
passato (barbaro e inferiore) verso il Radioso Presente, che avendo raggiunto
le vette del Politicamente Corretto, ha finalmente raggiunto per la prima volta
nella storia umana, il livello della Civiltà Autoevidente. L’idea che la storia
possa essere conflitto dialettico tra classi ed interessi
contrastanti, anziché fra Buoni e Cattivi, è morta e sepolta dopo il trionfo
della narrazione neoliberista, con il suo delirio sul raggiungimento della fine – e del fine
– della Storia.
Secondo tale modello non può
esistere conflitto tra modelli diversi di società, dato che siamo infine
arrivati alla vetta del solo modello di società concepibile, quello
liberista. “TINA”
– There is no
alternative.
Il passato è ormai solo una Epoca
Oscura, infestata da persone che non conoscendo il Politicamente Corretto erano
bruti, e di cui ci vergogniamo al punto da volerle cancellare, in modo da
cancellare la vergogna che ci provoca l’assenza della perfezione di cui noi
siamo i radiosi rappresentanti, “splendidi e unici come fiocchi
di neve“.
Per compiere questa operazione di
riscrittura della storia (che è poi il lavoro a cui era addetto il protagonista
di 1984 di
George Orwell!), occorre distruggere i monumenti che smentiscono la nostra
visione.
Nel corso della discussione ho
fatto notare che se vanno abbattute le statue degli
schiavisti, allora le prime da abbattere sono quelle dei “padri
fondatori” degli Usa: George Washington possedeva ben 317 schiavi, Thomas
Jefferson addirittura 600, eccetera.
Questa mia obiezione non ha avuto
risposte, ma solo insulti (“Ragioni come il KuKluxKlan“): il massimo
che ho ottenuto è una magniloquente dichiarazione sul fatto che sarebbe
“scorretto” paragonare costoro, che si limitarono a possedere schiavi
(adorabile autolimitazione!) laddove il generale Lee difese
attivamente la causa degli schiavisti. (Altre risposte sono ancora
più patetiche: per esempio che non sono paragonabili perché Jefferson
lottava per la parte giusta, mentre Lee lottava per quella sbagliata, come
ci fa sapere l’ineffabile “Washington Post”. Immagino che agli schiavi di
Jefferson questo dettaglio sia stato di smisurata consolazione, quando furono
tutti venduti per pagare i suoi debiti…).
Ebbene, certo che è scorretto
paragonarli, dato che Lee si limitò a fare il suo (sporco) lavoro
come soldato, mentre Washington e Jefferson scatenarono la rivoluzione
proprio in quantoschiavisti, per paura che la Corona inglese finisse per
decretare l’abolizione della schiavitù (come
in effetti avvenne di lì a non troppi anni), almeno a voler dar retta allo
stimolante saggio d’uno storico afroamericano, Gerald Horne: The
counter-Revolution of 1776: slave resistance and the origins of the United
States of America (NYU Press, New York 2014).
Questo saggio si apre con un
interessantissimo excursus sulla resistenza dei neri allo
schiavismo, per secoli, demolendo il santino zuccheroso d’una manica di bianchi
generosi, altruisti, insomma “politicamente corretti”, che sacrificarono le
loro vite e i loro beni pur di regalare ai “boveri negri” la libertà!
Invece i primi antischiavisti, in
ogni secolo, furono i neri, uomini e donne, i cui nomi (come quelli di Sojourner Truth) nessuno di noi
conosce, mentre tutti conoscono quello del generale Lee, se non altro per averlo
visto in qualche filmone americano. In una società davvero attenta ai valori
umani, invece, tutti saprebbero chi fosse Sojourner Truth, e il nome del
generale Lee sarebbe noto solo a qualche specialista di storia militare. Tant’è
che la questione delle statue “razziste” sarebbe a mio parere risolta meglio
costruendo ovunque statue dei neri che lottarono per la libertà e affiancandole
a quelle dei loro aguzzini, piuttosto che sfasciando statue al grido di “scordammoce
‘o passato“.
Non è detto che le posizioni di
Horne siano destinate a diventare ortodossia storica, per carità: la storia
tende sempre ad essere molto più “polifonica” di quanto un approccio “zoomato”
su un solo aspetto permetta di apprezzare – e
questo vale anche per i miei libri di storia dell’omosessualità, ovviamente.
Pertanto non sono pronto a mettere la mano sul fuoco per difendere il pur
stimolante argomento centrale di questo libro, ossia che quella americana del
1776 non fu una “Rivoluzione”, bensì una “controrivoluzione preventiva” per
scongiurare il rischio dell’abolizione della schiavitù, simile alla
dichiarazione unilaterale di indipendenza della Rhodesia del Sud (oggi
Zimbabwe) nel 1965.
Tuttavia resta il fatto che un
interessante corollario della tesi di Horne è che, letta in quest’ottica, la
Secessione del 1861 non fu altro che la ripetizione di quanto
avvenuto nel 1776, la prima volta con successo, la seconda, per mutate
condizioni storiche, no.
Ripeto, è raro che un solo evento
(a meno che si tratti della caduta di un asteroide su una città!) spieghi da
solo un processo storico, tuttavia solo uno sciocco oggi può credere alla
favola bella della Guerra di Secessione come lotta fra schiavisti cattivi ed
antischiavisti buoni ed altruisti.
La Secessione,
infatti, avvenne chiaramente per proteggere il “diritto” a possedere
schiavi, e il modello economico che si basava su di essi. Tuttavia la Guerra fu
scatenata, dal Nord, per impedire la secessione, non la schiavitù.
Se la liberazione degli schiavi
divenne rapidamente il motivo proclamato per mandare al fronte i
giovani a morire, furono altre le motivazioni (che come sempre nella storia
erano di tipo economico) che spinsero il Nord a invadere il Sud. Il Sud
voleva sì mantenere gli schiavi, ma anche esportare le merci da essi prodotte
in cambio di manufatti industriali inglesi, più a buon mercato di quelli
prodotti nel Nord, che invece voleva venderli al Sud in un regime di
protezionismo doganale. (Perché, sapete, fino alla Prima guerra mondiale gli
inglesi erano liberoscambisti, mentre gli Usa costruirono le loro industrie
grazie a impenetrabili barriere doganali e un disprezzo sovrano della
“proprietà intellettuale” altrui, in primis quella inglese.
Il bello della storia è che le sorprese non finiscono mai…)
Ancora il 18 settembre 1858 Abramo
Lincoln (sì, il Liberatore della Razza Negra) riteneva
politicamente opportuno rassicurare pubblicamente:
“Dirò che io non sono, né sono
mai stato, favorevole a mettere in atto in qualsiasi modo l’eguaglianza sociale
e politica della razza bianca e della razza nera, che io non sono né sono
mai stato favorevole di fare dei negri elettori o giurati, né permettere loro
di ricoprire cariche, né di sposarsi con individui bianchi; ed aggiungerò a
questo che esiste una differenza fisica tra le razze bianca e negra che credo
che impedirà per sempre alle due razze di vivere assieme in termini di
uguaglianza sociale e politica.
E in quanto non possono vivere
in tal modo, fino a quando rimangono mescolate deve esistere la posizione di
superiore e inferiore, ed io come qualsiasi altro uomo sono a favore di far sì
che la posizione superiore sia assegnata alla razza bianca.
Aggiungo però che non sento che
solo perché l’uomo bianco deve avere la posizione superiore, allora al negro
debba essere negato tutto.
Con ciò non voglio dire che
siccome non voglio una donna negra come schiava, io debba necessariamente
volerla come moglie…”.
Esistono due possibilità.
O Lincoln non pensava queste cose e
le affermava solo per opportunismo politico, ossia per ingraziarsi i presenti
al comizio, e questo ci mostra fino a che punto nel 1858, prima
di diventare il paladino dell’abolizione, perfino un Abramo Lincoln
giudicasse lecito il razzismo dichiarato.
Oppure Lincoln le pensava. Come
milioni di suoi contemporanei. Incluso il generale Lee.
In entrambi i casi, diventa palese
che non si può giudicare la storia coi criteri morali di oggi. La storia si
studia, si comprende, si contestualizza. Non si cancella (anche
perché è dentro di noi, come dimostra il razzismo traboccante degli
antirazzisti americani!).
Del resto, le statue sono capaci di
buttarle giù tutti, e il gioco
si può giocare in entrambi i sensi. Vale la pena di innescarlo, allora?
Pensate davvero che il
reverendo Martin Luther King potesse essere favorevole ai matrimoni egualitari,
per caso? E se scopriamo che non lo era, che facciamo, sfasciamo le sue statue?
E come trattavano le loro donne, gli schiavi neri? E cosa ne pensavano dei
trans, le schiave nere? E così via, all’infinito.
Fino a quando non resterà in piedi
una sola statua. O una piramide, come ironizza questa vignetta:
Su Facebook sono stato accusato di
riprendere gli argomenti dei razzisti americani filo-Sud, con un rimando a
questa voce di… Wikipedia affinché io imparassi una buona volta come
si fa a fare storia….
Ora, io non capisco perché la
storiografia “filo-Sud” debba essere per forza di cose “filo-KKK”. Esiste una
storiografia filo Sud-Italia, “neoborbonica”, che ha
rimesso in discussione l’idea che l’unità d’Italia abbia per davvero
costituito un atto di benevolenza del Piemonte per strappare generosamente
all’oscurantismo borbonico il Sud, ma non per questo scrivere da questa
prospettiva implica essere “filo-mafia”. KKK e mafia sono infatti
associazioni a delinquere, non i portavoce di un territorio.
Simmetricamente, la versione
ufficiale dei vincitori non diventa quella “vera” solo perché è quella dei
vincitori.
“I vincitori scrivono la storia“…
non la verità.
Pezzi di ragione possono quindi
stare nelle ragioni dei vinti. Sicuramente nel nostro caso fra questi pezzi di
ragione non rientra la schiavitù, che era una istituzione che stava tramontando
già nel 1776, figuriamoci nel 1860, in piena rivoluzione industriale. Ma sul
fatto che Nord e Sud avessero interessi economici contrapposti, “stranamente”
simili a quelli segnalati nel caso italiano dagli storici del Sud, non ci
piove. E che il Sud avesse il diritto a difenderli, non ci piove neppure qui.
Dopo queste premesse, torniamo al
tema che ha scatenato questa riflessione: la vandalica distruzione di un’opera
d’arte per motivazioni di censura politica della storia passata. Siccome
la storia passata non ci piace, allora distruggiamone i monumenti.
I quali invece, come sa chi capisce
un minimo di storia, vanno contestualizzati ed
anche risignificati, in modo che svolgano la loro funzione: dare un
monito a chi viene dopo. Non necessariamente quello immaginato da chi li
aveva costruiti.
Ci sono molti modi di risignificare un
documento d’arte e di storia imbarazzante: il più banale è spostarlo (in un
museo, per esempio, come è stato fatto con decine di monumenti comunisti
nell’ex Urss). Migliaia di statue oggi nei nostri musei un tempo svettavano in
piazza, o sugli altari, o su facciate che oggi ne fanno tranquillamente a meno.
Un altro modo, più costoso ma più
utile, è modificare il contesto. Ad esempio, affiancando la statua della
schiava ribelle a quella del generale schiavista, costringendo chiunque passi a
chiedersi chi fosse quella donna e cosa abbia fatto. E questo, secondo me, è
più utile, perché non è negando la storia che diventa possibile superarla.
Occorre fare i conti con essa, e andare oltre alle storture che ci ha lasciato.
Ma ammetto che la maggior parte delle volte limitarsi a portare in un museo o
in un magazzino sia meno costoso e più rapido. E così sia allora: è pur
sempre meglio che distruggere una statua.
Purtroppo però si sta diffondendo
come un incendio all’interno della sinistra un’intolleranza di stampo fascista
che mostra come la sinistra
anarco-capitalista, succhiando dalle stesse radici del fascismo, si avvii
ad assomigliargli in tutto, ad eccezione della retorica, che resta ancorata
alle parole del passato, sempre più vuote. Su Facebook, per provocazione, avevo
proposto di demolire la Casa del Fascio di Como, capolavoro dell’architettura
razionalista, in quanto documento d’un passato odioso. Ebbene, nove
reazioni su dieci sono venute da persone che mi hanno preso sul serio. Segno
questo del fatto che oggi proposte di questo genere non sono più considerate talmente
demenziali da svelare immediatamente il loro carattere di paradosso. Viviamo
insomma in un clima in cui l’idea di demolire quanto non ci è simpatico è
sempre più familiare a tutti!
Del resto un tempo i roghi di libri
erano prerogativa dei nazisti o di Torquemada, adesso invece sono sempre più
spesso invocati dalla sedicente “sinistra”. Ma chi ha paura dei libri,
da Pippi
Calzelunghe alla Divina
Commedia, ammette di essere cosciente del fatto di non avere argomenti
per confutare eventuali contenuti sgraditi.
Io non ho paura dei fascisti con i
gagliardetti, pochi nostalgici fermi a riti di un secolo fa, che la storia ha
ormai digerito, e cacato. Io ho paura delle sinistre che vogliono manomettere
la Costituzione italiana perché “troppa libertà ostacola la governabilità”.
Sono loro, la nuova faccia del fascismo. Quando parlano di “riforma
elettorale”, stanno parlando della “Legge Acerbo 2.0″.
Purtroppo la “sinistra”
anarco-capitalista è capace di ragionare solo in termini di simboli ed
astrazioni, nutrendo
un disprezzo quasi fanatico per le volgari materialità della vita. E si è
quindi lasciata incastrare dai neonazisti in una guerra stupida e inutile sulle
statue, ossia sui simboli, che non cambierà di un millimetro le condizioni
materiali e sociali degli afroamericani, anche se sparisse fino all’ultima
statua contestata.
La condizione dei neri americani
non è infatti causata dalle statue.
Sono semmai le statue erette a
certi personaggini ad essere state possibili solo a causa delle condizioni dei
neri americani (Georgij Plechanov, nel suo ingiustamente dimenticato La funzione della personalità
nella storia, ironizzava su coloro che privilegiando lo Spirito
rispetto alle condizioni materiali, credevano che “Il minuetto è stato la
causa della rivoluzione francese“).
Ma negare che ciò sia avvenuto,
significa nascondere la polvere sotto il tappeto. Significa parlare d’altro.
Significa ciurlare nel manico con “armi di distrazione di massa”. Il
“politicamente corretto” è infatti ciò che si fa invece di fare politica.
Gli Usa sono una nazione fondata in
origine sulla schiavitù dei neri, sul genocidio dei nativi, e sul lavoro
forzato dei bianchi indentured.
Fingere che le cose non siano
andate in questo modo, solo perché si sbava davanti al “Destino Manifesto”
della “Sola
Nazione Indispensabile“, che ha dato al mondo gli hamburger all’olio di
palma e Pamela Anderson, non è certo fare storia “da sinistra”.
Certo, gli americani nel 1945 hanno
vinto la loro guerra contro l’Europa, quindi è inevitabile che si presentino in
quel modo.
Ma in quanto vincitori, hanno
scritto la storia. Non la verità.
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Post scriptum del 30
agosto 2017
Fare i profeti ultimamente è
diventato facilissimo.
Come previsto, sono già iniziati
gli attacchi contro statue di Martin
Luther King (troppo arrendevole coi bianchi), Cristoforo
Colombo (che ha reso possibile lo sterminio degli indiani) e Giovanna
d’Arco (che ha avuto il cattivo gusto di opporsi alla globalizzazione
anglosassone).
Ci sono démoni che è meglio non
evocare, illudendosi di poterli sfruttare per i propri scopi in quanto potenti
e difficili da sconfiggere.
E’ esattamente perché sono potenti
e difficili da sconfiggere che è destino che o prima o poi sfuggano di mano, e
facciano guerra a chi li ha evocati.
Faticoso da leggere, ma necessario per riflettere e meditare ... Grazie.
RispondiEliminase la fatica non è sprecata ben venga...
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